Disco del mese di Giugno 2022
Il repertorio della musica pianistica a quattro mani continua a dispensare registrazioni discografiche oltremodo interessanti. L’ultima conferma viene da un disco pubblicato dalla Da Vinci Classics con il duo Marco Sollini e Salvatore Barbatano che ha inciso i Complete Works for Piano 4 Hands di Camille Saint-Saëns, un corpus che presenta il Duettino in sol maggiore op. 11, il König Harald Harfargar op. 59, il Feuillet d’album op. 81, il Pas redoublé op. 86, la Berceuse op. 105 e la Marche interalliée op. 155; a queste composizioni il duo ha aggiunto le Variations sur un thême de Beethoven op. 35, anche se la partitura originale è prevista per una versione su due pianoforti, l’arrangiamento dell’immancabile Danse macabre op. 40 effettuata da Ernest Guiraud dal poema sinfonico e l’altrettanto immancabile Le Cygne (da Le Carnival des Animaux) nella trascrizione fatta da Jacques Durand. Teoricamente all’appello mancherebbe un’altra pagina, la Marche dédiée aux étudiants d’Alger op. 163, che si può ascoltare non solo nella versione per pianoforte a quattro mani, ma anche per orchestra di fiati e con la presenza, ad libitum, di un coro (ma se viene a mancare in questa registrazione, non ci strapperemo di certo i capelli).
Detto ciò, questo tipo di genere abbinato al nome del longevo e prolifico autore francese non può non risultare stimolante, in quanto alla caratura del compositore bisogna aggiungere anche le straordinarie doti pianistiche di Saint-Saëns, il quale, è bene ricordarlo, nella seconda metà dell’Ottocento fu il solo a poter reggere tecnicamente il confronto esecutivo con Franz Liszt. E che il nostro sia stato non solo un raffinato creatore di pagine per solo pianoforte e nel genere del concerto pianistico, ma anche per il pianoforte a quattro mani, lo dimostra ampiamente questo disco. Certo, non tutte le pagine qui presenti vantano un valore altamente omogeneo, poiché non dimentichiamo che il genere del pianoforte a quattro mani rappresentò durante l’epoca romantica una roccaforte della classe borghese e dei pianisti dilettanti, il che costrinse i compositori che scrissero per esso a dare vita a composizioni accessibili anche ai non virtuosi, per quei volenterosi appassionati che provavano frissons di soddisfazione applicandosi su brani alla portata delle loro venti dita. Come nel caso del Duettino op. 11, risultato di un ventenne (ma nel caso di Saint-Saëns, data la sua straordinaria precocità, è come se parlassimo di un trentenne navigato), la cui semplicità formale suddivisa in due distinti momenti non manca però di quell’elemento costitutivo di tutta la produzione del musicista francese, ossia un’indubbia eleganza che si traduce in una raffinata chiarezza espositiva, persino nelle pagine tecnicamente più semplici e “appetibili” per il pubblico borghese del tempo. Ciò porta il pezzo in questione a vantare un suo equilibrio che si applica sia nel concetto armonico, sia in quello melodico, un equilibrio, però, non facile da ottenere, come a dire che Saint-Saëns, pur pensando a una platea di possibili dilettanti, non manca mai di apporre la sua firma di sapiente costruttore di suoni, la cui realizzazione ideale è appannaggio per interpreti di ben altro spessore e profondità.
Sulla falsariga del Duettino vi sono poi altri tre pezzi, il Feuillet d’album op. 81, il Pas redoublé op. 86 e la Marche interalliée op. 155, che mostrano un Saint-Saëns alle prese con una musica d’occasione, soprattutto per ciò che riguarda l’ultimo di questi tre pezzi, commissionata dall’ammiraglio Ernest François Fournier il quale, oltre a una brillante carriera militare, fu anche un diplomatico di vaglia (fu lui a risolvere la delicata situazione politica tra Francia e Cina venutasi a creare nel 1884). Musica d’occasione che però non appare mai banale o scontata, ma sempre diluita, presentata, elaborata con una precisione d’intenti da lasciare ammirati (si prenda come esempio il semplice tema del Feuillet d’album che, improvvisamente, nel punto centrale del brano si trasforma mirabilmente in un brevissimo inciso polifonico, per poi tornare placidamente al suo corso iniziale, come a dire che il musicista francese deve sempre mettere il suo marchio di fabbrica).
Un discorso a parte merita la Berceuse op. 105, un breve pezzo intriso di una dolorosa leggerezza, focalizzato probabilmente sul ricordo atroce della morte dei due figli del compositore, André e Jean-François, deceduti nel 1878 a sei settimane di distanza l’uno dall’altro; un ricordo basato sulla sua visione pessimistica e atea e nel quale si può scorgere musicalmente una sorta di dissonanza interiorizzata, sottilmente impalpabile nella sua purezza melodica. Ma Saint-Saëns è anche un potente “affrescatore”, capace di proiettare l’ascoltatore nei meandri paesaggistici della sua musica, come accade in un brano geniale quale König Harald Harfargar op. 59, una delle pagine più evocative, ma allo stesso tempo anche una delle meno conosciute della sua produzione. In questo pezzo il compositore dimentica di essere francese e si immerge nella cultura, nello spirito, nella dimensione antropologica squisitamente nordici, più precisamente norvegesi, per tratteggiare la figura mitica, prendendo spunto dall’omonimo poema di Heinrich Heine, del condottiero che nel X secolo riuscì a unificare il suo Paese. Ascoltando questo denso brano, ci sembra di calare in atmosfere sonore che sono più prossime a un Grieg, sature di foreste e di fiordi innevati, potentemente descritti nella loro essenza.
E se i due arrangiamenti per pianoforte a quattro mani ribadiscono la brillantezza compositiva, andando non solo a scavare, ma anche ad arricchire la raffinatezza della partitura (tanto per fare un esempio, si ascolti l’ostinato della linea cristallina del registro acuto che struttura tutto Le Cygne che, in barba al “conservatorismo” di Saint-Saëns, assume un connotato che va oltre la semplice constatazione romantica), la caratura di tutto questo programma presentato dal duo Sollini & Barbatano viene cesellato finemente dalla presenza di una pagina quale le Variations sur un thême de Beethoven op. 35, composta nel 1874, la quale merita un debito approfondimento. Se questo brano rappresenta un chiaro omaggio che il musicista francese fece nei confronti del sommo di Bonn, è anche vero che qui Saint-Saëns dimostra tutto il suo côté votato all’ironia (sempre sulla falsariga del suo cosiddetto “conservatorismo”, chi ancora lo ritiene un barboso e borioso artista è pregato vivamente di correggere il tiro), un’ironia che si appoggia a sua volta sulla verve spietatamente ironica dello stesso Beethoven. E lo fa prendendo in prestito la “gaia scienza” che il grande compositore tedesco immette nei meandri della Sonata pianistica op. 31 n. 3, ossia risalente al periodo (1802) nel quale la vita ormai aveva già abbandonato le dolci discese per inerpicarsi sulle rocciosità della tragedia. Il collega francese, quindi, estrapola il tema presente nel Minuetto di questa Sonata beethoveniana e lo porta ad un estremo compimento, oltre ad aggiungere otto variazioni con una fuga finale. Il decorso, l’incedere di questa “lettura” di Saint-Saëns della musica sorretta dall’edificio dell’ironia, la quale non dev’essere considerata fine a se stessa, è quella di assumere quasi delle connotazioni “operistiche”, come se sulla scena evocata dalla tastiera ci fosse la presenza di un personaggio comico che dipana di volta in volta (a me è venuto in mente il Falstaff di verdiana memoria) un elenco di graziose amenità, di sottili buffonerie, il tutto condito da una scrittura pianistica che è un prodigio di tecnica ed espressività. Sia ben chiaro, qui il pianoforte non vuole imitare la voce umana, ma evocare quanto solitamente fa la voce umana, giocando sulle sfumature, sulla repentina mutevolezza delle articolazioni, restituendo per l’appunto quella dimensione dell’animo umano che è fornito proprio dall’ironia, il cui accento finale è dato dalla fuga che chiude il brano e che sembra suggerire l’immagine di un Saint-Saëns che, facendo l’occhiolino, mormora sogghignando “Avete visto come sono bravo?”.
Del duo Sollini & Barbatano ho già avuto modo di parlare in passato e se torno a farlo adesso è per il semplice fatto che ogni loro progetto discografico assume sempre più la connotazione di un’icona, una sorta di punto fermo. Le loro letture non sono solo un esempio di lucidità interpretativa, un modello di espressività, un’indicazione del corretto procedere esecutivo, ma sono molto di più. Partendo dal fatto che il loro repertorio si basa su una concezione squisitamente (e per certi versi, drammaticamente) dialogica del tessuto musicale, si può affermare che la struttura dialettica del loro cammino è votata a un’appassionata ricerca della profondità. Essere interpretativamente profondi significa cercare l’essenza ultima, l’ultramateria su cui si fonda l’arte dei suoni, ossia non decodificando il segno nella partitura, ma scavando nel segno, il che porta a un incessante affioramento di ciò che la partitura offre, ma che non dona d’acchito. Il dono dev’essere cercato dall’interprete, poiché la sua missione è questa e il duo in questione dimostra di vantare il dono di questo dono. Tanto per restare nell’ambito della loro ultima registrazione discografica, questo dono appare lampante proprio nel modo in cui restituiscono la materia sonora presente nelle pagine meno importanti, quelle destinate a fruitori dilettanti, ma il cui germe, per essere evidenziato e portato a galla, necessita di ben altre qualità, di altre doti che non tutti hanno a disposizione. Vuol dire dare magia a qualcosa che di magico ha poco o nulla, superare le strettoie del segno per imprimere una luce celata, se non puramente immaginata. Ecco, allora, che la fluidità della diteggiatura, la millimetrica precisione degli attacchi, il respiro sincrono e asincrono del loro esporre rappresentano un ideale punto di partenza attraverso il quale cercare la luce, portare a un nuovo significato pagine magari trite e ritrite. Chi raggiunge ciò è un meraviglioso filtro che è in grado offrire quanto altri non sono in grado di fare.
E poi c’è la capacità del costruire, dell’edificare, di fare architettura con una materia, come quella dialogica applicata alla tastiera del pianoforte, che si fissa implacabilmente nell’immaginario dell’ascoltatore, un qualcosa che non apporta solo una piacevolezza d’ambito estetico, ma diviene forma maieutica, istruttiva, formativa, ossia insegnamento. Ed è indubbio che il Saint-Saëns di Sollini & Barbatano sia in effetti un progetto che mira a scandagliare in ogni minimo anfratto, in ogni angolo recondito, quanto l’edificio plasmato sul pentagramma dall’autore in questione era semplicemente, si fa per dire, sulla carta. E qui non è questione di mera tecnica, di sapienza espressiva, di rappresentazione splendidamente soggettiva/oggettiva della musica, ma di ciò che può prendere avvio dalla musica stessa (e qui mi riferisco alla loro lettura di riferimento delle Variations beethoveniane). Tutto questo, poi, viene ottenuto con una disarmante fluidità, una leggerezza di vedute che riescono ad essere percepite anche nei momenti più drammatici (il König Harald Harfargar), quasi a dimostrarci che il pianismo a quattro mani di Saint-Saëns risente in un certo senso, come si è già accennato, della dimensione teatrale, operistica, ma non nella sua forma di genere, ossia racchiudendo nei limiti della tastiera il respiro, la fisicità data dal teatro musicale del compositore francese, ma le proiezioni interiori, il pulsare di un immaginario scenico (diciamolo chiaramente, la musica di Saint-Saëns, anche quella strumentale, è altamente scenica!) che viene continuamente “decodificato” attraverso altri strumenti, altre necessità espressive. Da qui, e concludo con un’altra immagine, possiamo comprendere come Marco Sollini e Salvatore Barbatano abbiano tra le mani chiavi che possono aprire porte che altri, seppure eccelsi interpreti, non riescono a spalancare. Esaltante.
Disco del mese di giugno, senza alcun dubbio.
La presa del suono fatta da Gabriele Zanetti vanta un’altra caratura che va ad arricchire ulteriormente la preziosità di questo progetto discografico. La dinamica è oltremodo rocciosa, davvero energica, a volte, nei fff, esplosiva, ma questo non significa che sia connaturata da colori artificiosi, da una timbrica dopata. Da parte sua, il palcoscenico sonoro ricostruisce in modo alquanto ravvicinato il pianoforte, ottimamente scolpito al centro dei diffusori, ma questa sua proiezione ravvicinata viene in qualche modo mediata mediante l’uso di un riverbero che ha il pregio di non apparire mai innaturale, senza andare ad inficiare allo stesso tempo il corretto decadimento degli armonici. È ovvio che l’andamento dialogico dato dal pianoforte necessiti di un parametro, come quello dell’equilibrio tonale, quantomeno corretto e fedele nella riproposizione dei registri, i quali devono sempre apparire ben distinti e messi a fuoco, proprio per mettere in luce il dialogo continuo dei due interpreti. Cosa che qui avviene puntualmente, con una presenza ottimale del registro grave e di quello medio-acuto, i quali risultano finemente scontornati. Infine, il dettaglio denota una pregevole matericità dello strumento, anch’esso messo a fuoco nella sua fisicità, in modo da non rendere stancante il beneficio dell’ascolto.
Andrea Bedetti
Camille Saint-Saëns - Complete Works for Piano 4 Hands
Marco Sollini & Salvatore Barbatano (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00492