È stato giustamente scritto che una parte della fortuna che ha avuto il Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen è dovuta alla sua particolarissima e drammatica storia, anche se è altrettanto vero che questa sua fortuna non sarebbe stata possibile se l’opera non fosse ciò che è. E questo fattore squisitamente tautologico rende ancora più preziosa e unica la caratura dell’opera che, come si sa, fu scritta dal compositore francese nel 1940 mentre era rinchiuso nel campo di prigionia di Görlitz, al confine tra Germania e Polonia, dopo essere stato catturato dai tedeschi nel giugno di quello stesso anno. Una caratura che fa di essa uno dei capolavori della musica del Novecento storico e il cui ascolto è già un viaggio impervio, apparentemente dissociato, votato quasi ad allontanare piuttosto che ad avvicinare.
Questo allontanamento/avvicinamento si rivela tale a seconda da come la si affronta, e questo non solo da un punto di vista spirituale o meno (fermo restando che la spiritualità e il cattolicesimo di Messiaen rappresentano un punto fermo della sua concezione estetica della musica), tenuto conto che l’idea di tutto il quartetto procede dal decimo libro dell’Apocalisse di Giovanni, allorquando l’Angelo annuncia “la fine del Tempo”, che il musicista francese visse sulla propria pelle come prigioniero di guerra, rinchiuso in uno Stalag pieno di baracche di legno, annichilito come uomo e vittima del feroce freddo proveniente dalle steppe russe. Ma componendo questo capolavoro, in nome del suo essere credente, Messiaen smise di essere semplicemente uomo, prigioniero di guerra, per diventare Uomo, carne che si fa simbolo alla ricerca di un Dio nel quale credeva fermamente, così come credeva nella salvezza ultima professata dal cattolicesimo (non per nulla, a tale proposito, Messiaen scrisse: «Sono convinto che la felicità esista, che l’invisibile esista più del visibile, la felicità è oltre il dolore, la bellezza oltre l’orrore»).
Ecco, queste parole si attagliano perfettamente alla dimensione ultima del quartetto, basato sulle polarità “felicità/bellezza” e “dolore/orrore”, senza dimenticare che l’apparente squilibrio dato dalla formazione strumentale (violino, violoncello, clarinetto e pianoforte), dovuto dai musicisti che Messiaen incontrò nello Stalag VIII A nel quale venne rinchiuso, il violinista Jean Le Boulaire, il clarinettista Henri Akoka e il violoncellista Etienne Pasquier, i quali eseguirono con lui l’opera, rappresenta in realtà un indubbio punto di forza per mostrare e far assimilare all’ascoltatore la propulsione trasversale di questo lavoro. Una propulsione trasversale che si basa, viatico della contemporaneità che avanza, sulla densità e sull’essenzialità, una prerogativa che fin dagli albori della tragedia greca accompagna le vicende dell’uomo nel corso dei secoli (se quanto affermo può apparire esagerato per qualcuno, ricordo che alla prima esecuzione del Quatuor pour la fin du Temps, che si svolse proprio nello Stalag VIII A, assistettero migliaia di prigionieri, che ascoltarono rapiti, in trepido silenzio, molti dei quali non certo avvezzi a un’opera così moderna e ardita nel suo linguaggio, testimonianza di un’indubbia e commovente catarsi).
Ebbene, questo capolavoro è stato recentemente registrato dall’Eurythmia Quartet, composto da quattro giovani, valenti interpreti appena usciti dagli studi musicali ma, a quanto pare, con le idee già molto chiare, visto che il loro intento è quello di specializzarsi nel repertorio contemporaneo, scegliendo come debutto discografico proprio il lavoro di Messiaen, che pone delle problematiche di lettura e di esecuzione non indifferenti, le quali scaturiscono dal fatto di rendere la densità e l’essenzialità di cui si è detto senza scadere in una sterile oggettività e in un suono freddo, repellente alle aggregazioni emotive e coinvolgenti presenti nell’opera. Questo significa restituire un suono che se sul pelo della superficie acustica può e deve risultare scarno, sotto di esso invece dev’essere di una ricchezza e di una profondità senza pari; una sorta di “suono riflesso” che scava nella mente, nell’anima, nella disponibilità o meno dell’ascoltatore (gli assoli di clarinetto, come quello che affiora nel terzo movimento, Abîme des Oiseaux, rappresentano un sublime piede di porco che deve scardinare le coscienze), senza dimenticare, allo stesso tempo, l’ostacolo più arduo da affrontare e superare, quello di rendere al meglio, sul filo dell’equilibrio timbrico/ritmico l’ossessiva “temporalità-atemporale” dell’opera, una patina vischiosa ma trasparente che permea il Quatuor dalla prima all’ultima nota.
Prerogative e problematiche estetiche ed ermeneutiche, queste, che i quattro componenti del quartetto (Elena Talarico al pianoforte, Sofia Manvati al violino, Emanuele Rigamonti al violoncello e Giona Pasquetto al clarinetto) hanno affrontato e dipanato più che egregiamente, dimostrando una maturità interpretativa che va, per l’appunto, ben oltre le peculiarità tecniche e compositive (in tal senso, è paradigmatico il sesto movimento Danse de la fureur, pour les sept trompettes, con l’unisono in cui devono confrontarsi i quattro strumenti, con il violoncello raddoppiato dalla mano sinistra del pianoforte, mentre a un’ottava superiore si pongono il clarinetto, il violino e la mano destra del pianoforte), e che si concentra nella dimensione interiore del suono, quello che si riesce a esprimere solo se si entra realmente nei meandri dell’opera e che si concentra soprattutto nell’ottavo e ultimo movimento, che per Messiaen aveva un significato simbolico fondamentale e ineludibile («Sette è il numero perfetto, i sei giorni della creazione santificati dal sabato; il 7 di questo riposo si prolunga nell’eternità e diventa l’8 della luce indefettibile, della pace immutabile»), Louange à l’immortalité de Jesús, una lode in cui il violino dipana una lunga e struggente melodia, tale da rendere un’eco continua, votata all’eternità, allegoria suprema e divina della “fine/finale” in cui si va a perdere il suono per proseguire idealmente nel cuore e nella mente di ogni ascoltatore (curiosamente, si tenga presente come tale assioma di un suono finito/infinito si ripresenti in un autore a dir poco agli antipodi rispetto a Messiaen, ossia Richard Strauss, negli ultimissimi accordi dell’Also sprach Zarathustra, che risale al 1896, e nell’ultimo dei Vier letzte Lieder, Im Abendrot, scritto nel 1946). Ebbene, nella lettura dell’Eurythmia Quartet si avverte distintamente questa capacità di andare oltre la fisicità di tale mantra centripeto, di penetrare la materia per renderla impalpabile, simile all’Io nel pensier mi fingo di leopardiana memoria, riuscendo a compiere e a proporre ciò che era nelle intenzioni e nelle speranze di Messiaen, quello di non uscire più da questo suono che si rende stupendamente eterno.
Anche la presa del suono, effettuata dal vivo al Conservatorio di Como è più che buona, capace di restituire una dinamica corposa, energica (la microfonatura è eccellente), oltre a ricostruire correttamente i quattro interpreti all’interno del palcoscenico sonoro. Anche il dettaglio è convincente, così come l’equilibrio tonale che, grazie alla buona microdinamica, riesce sempre a rispettare la timbrica di ogni strumento senza che uno possa andare a ledere quella altrui nei registri opposti.
Andrea Bedetti
Olivier Messiaen – Quatuor de la fin du Temps
Eurythmia Quartet
CD Da Vinci Classics C00117
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5