Il programma che il chitarrista napoletano Vincenzo Sandro Brancaccio ha voluto registrare per l’etichetta Da Vinci Classics nel CD dal titolo Rêverie italien (si può perdonare un piccolo errore grammaticale, visto che il sostantivo “rêverie” in francese è femminile e quindi l’aggettivo al quale si accorda ortograficamente diviene “italienne”) ha la bontà, il pregio di fornire un ottimo esempio di come la chitarra rappresenti un ideale elemento di transfert non solo trascrittivo in campo musicale, ma anche da un punto di vista propriamente psicoanalitico, tenuto conto che i brani incisi possono essere considerati un passaggio/superamento di ciò che sono diventati partendo dal loro punto di origine, così come il paziente, nella pratica psicoanalitica, nel corso dell’analisi tende a instaurare con l’analista un rapporto di dipendenza che mira come obiettivo all’indipendenza finale, attraverso un cammino disseminato di odio e amore, di attrazione e repulsione, di azione e reazione.
Così, gli autori e le opere presi in oggetto, vale a dire le Variazioni sul Carnevale di Venezia da Paganini di Francisco Tárrega, la Rêverie nocturne op. 19 di Giulio Regondi, la Rossiniana n. 1 op. 119 di Mauro Giuliani, il Capriccio diabolico op. 85 di Mario Castelnuovo-Tedesco e le Due canzoni lidie del compositore vivente Nuccio D’Angelo sono il risultato di un figlio (paziente) che cerca di emulare e superare il padre (analista), con la chitarra, a livello di strumento musicale e strumento simbolico, che assurge alla dimensione di uno specchio (confido che Jacques Lacan non si stia rivoltando nella tomba) con il quale i compositori in oggetto hanno voluto sfidare gli abissi e le tentazioni del transfert.
Nel caso di Tárrega, poi, abbiamo addirittura una filiera compositiva che non parte dal brano paganiniano sviluppato a livello di variazioni dal musicista spagnolo, visto che a sua volta il sommo artista genovese trasse spunto per il suo Carnevale di Venezia da un pezzo antecedente firmato dallo sconosciuto Giovanni Cifolelli a metà Settecento. La notorietà di tale brano raggiunse un livello tale da assurgere a composizione con la quale ricordare il suo autore, visto che in giro per il vecchio continente venne in seguito definita “La cifolella”. Paganini si appropriò dello specchio dato dalla melodia di questo brano e ne trasse, da par suo, una serie di variazioni orchestrali, le quali a loro volta, “specchio dello specchio”, come ricorda giustamente Chiara Bertoglio nelle note di accompagnamento, furono oggetto di trascrizione per chitarra da parte del compositore e chitarrista slovacco Johann Kaspar Mertz, la cui op. 6 fece da spunto (“specchio dello specchio dello specchio”) per Tárrega per comporre la sua versione di variazioni sempre per chitarra, facendo sì che la linea melodica, quasi fosse una sorta di Urklang, divenisse nel corso del tempo lo specchio creativo con il quale i compositori citati potessero riflettere, come immagine e come speculazione, lo svolgersi della loro sensibilità e del loro virtuosismo, accresciuto dalle potenzialità e dalla sfida armonica che lo strumento a corde permetteva di esprimere.
La figura di Giulio Regondi dev’essere ancora tratteggiata per come meriterebbe, visto che la storia della musica è in ritardo e in debito con questo compositore italiano nato a Ginevra nel 1822 e morto a Londra a cinquant’anni. Anche qui, la psicoanalisi ci potrebbe mettere lo zampino, visto che Regondi, bambino prodigio con la chitarra, strumento impostogli da un padre cinico e senza scrupoli al cui confronto Leopold Mozart avrebbe potuto essere il fondatore di Telefono azzurro, dopo aver girato da giovanissimo mezza Europa per esibirsi ed essere stato abbandonato a Londra dalla figura paterna ad appena nove anni, decise a sua volta di abbandonare la chitarra per dedicare le sue energie come compositore ed interprete della concertina, strumento simile alla fisarmonica. Prima, però, fece in tempo a scrivere alcuni pezzi per chitarra sola, tra cui la qui registrata Rêverie Nocturne op. 19, brano in cui abbonda uno sfrenato virtuosismo, più o meno celato da una fitta trama melodica, pruderie di quel romanticismo musicale (e non solo) sorto sul culto di Paganini e di Liszt, che può essere stigmatizzato o meno, e nei quali il dio della difficoltà tecnica ha trovato i suoi fedeli e prodighi Maometto.
Non fu da meno un compositore ben più noto in campo chitarristico, ossia Mauro Giuliani, del quale Brancaccio presenta la prima delle sei Rossiniane, il che apre le porte a un’altra caratteristica del romanticismo europeo, soprattutto italico, quella di coniugare le arie più celebri dell’opera lirica del tempo in chiave strumentale, sulla consueta asse melodia esecutiva-ricezione d’ascolto, falsariga d’antan di un juke-box capace di dispensare ovunque, nelle case, nelle strade e non solo quindi sui palcoscenici lirici brani musicali la cui orecchiabilità garantiva veicolazione e successo (anche economico). In questo caso, la prima Rossiniana vede imbastite arie provenienti dall’Otello, dall’Italiana in Algeri e dall’Armida, un curioso pot-pourri che mischia dunque le carte tra comicità e tragedia.
Paganini, e non potrebbe essere altrimenti, torna ad aleggiare attraverso il Capriccio diabolico di Mario Castelnuovo-Tedesco, il quale, tenuto conto dell’arditezza armonica, stilistica e timbrica di questa pagina, volle scriverla per un mostro sacro come Andrés Segovia, il quale per l’appunto può essere considerato il Paganini della chitarra, anche se non dobbiamo dimenticare che lo stesso compositore e violinista genovese fu un fior di virtuoso dello strumento a sei corde. Il fatto è che il dio del virtuosismo (l’aggettivo “diabolico” che specifica il capriccio, l’aura che circonda Paganini e le evidenti difficoltà tecniche che questo brano impone, lo evidenziano) non fu benevolo in questo caso, tenuto conto che Castelnuovo-Tedesco rimase deluso della lettura fatta dal grande artista andaluso, a testimonianza del fatto che dietro alla tecnica ci dev’essere sempre qualcosa d’altro per far sì che la tecnica stessa venga riconosciuta.
Altrettanto interessante è il brano del sessantaseienne compositore Nuccio D’Angelo, il quale in primis è un chitarrista, Due canzoni lidie, che rappresenta la sua opera più celebre, in cui l’espletamento del transfert avviene su una base “immaginifica”, in quanto il suono assume una proiezione visiva che materializza immagini/ricordi che hanno origine da entità arcaiche e che vengono riportati al presente attraverso il testimone/interprete, brani che permettono di sfruttare appieno la dimensione del “giano bifronte” incarnata dalla chitarra, quella che si potrebbe definire apollinea, data dal primo pezzo (Tranquillo) e quella dionisiaca (Agitato), che mette a dura prova l’esecuzione.
Sulla base di un tale programma discografico, è indubbio che il tasso di masochismo interpretativo di Vincenzo Sandro Brancaccio sia di un livello assai preoccupante, poiché queste opere sono un’autentica parete di sesto grado in quanto a difficoltà non solo tecnica, ma soprattutto “espressiva”. Questo significa che il grande rischio, quando si affronta questo tipo di brani, è di concentrarsi sull’aspetto derivato dal loro inevitabile virtuosismo, raccogliendo unicamente la sfida “paganiniana” che li riguarda, ossia come a dire “ascoltate-come-sono-bravo”; in realtà, brani come quelli scelti dal chitarrista partenopeo, senza la dovuta espressività che non dev’essere intesa esclusivamente sotto l’angolazione della resa melodica, sono solo lettera morta, materiale inerte che si vitalizza soltanto nel momento della rappresentazione acustica per poi tornare ad essere materiale inerte. La bravura, la profondità, la sensibilità di chi li suona, invece (e qui sta la caratura “masochistica”), deve puntare maggiormente sulla fatidica quadratura del cerchio, vale a dire immettere un’anima, una pulsione vitalistica tra le nervature virtuosistiche che li inzuppano; cosa che Brancaccio dimostra di saper fare in modo quasi esemplare, restituendo loro una dignità d’ascolto capace di andare ben oltre la semplice sfaccettatura virtuosistica e la pleonastica restituzione melodica.
Quindi, al chitarrista napoletano non interessa eseguire sull’onda dell’“ascoltate-come-sono-bravo”, bensì dell’“ascoltate-il-lato-nascosto-di-queste-pagine”, estrapolando dallo spartito sfumature, tensioni, emozioni che vengono riversate attraverso un attento e puntiglioso svolgersi timbrico (certo, siccome la coperta è sempre troppo corta, vi è il rischio che a voler bandire il virtuosismo sfacciato di queste opere, si possa poi generare più o meno volontariamente il côté virtuosistico che si annida nella capacità di manifestare, enunciare tali sfumature mediante lo strumento timbrico, ma Brancaccio riesce spesso e volentieri a calibrare questo rischio). Da qui, la capacità di rendere le trame sia con una fluidità di diteggiatura (e questo è il minimo sindacale), sia nell’evidenziare (ed ecco la qualità illuminante) lo spessore delle composizioni prese in esame attraverso un sottile pensiero, una debita speculazione capaci di restituire vita e respiro di dignità, come il Rabbi Löw fece nei confronti del Golem (se il leggendario rabbino praghese restituì la vita all’informe massa di argilla, scrivendo sulla sua fronte la parola ebraica mt, ossia “verità”, Brancaccio rende vita a queste pagine facendo sì che le sue dita scrivano “espressività” ogni volta che toccano le corde della splendida chitarra di Alessandro Marseglia realizzata nel 2007).
Lo zuccherino finale è dato dalla presa del suono, che è stata effettua presso lo Yay Music & Media Studio di Rotterdam da Yasar Saka; sebbene la microfonatura sia estremamente ravvicinata, avendo di conseguenza l’artista a meno di due metri di distanza dal punto di focalizzazione del suono, la ricostruzione all’interno del palcoscenico sonoro non risulta sfalsante o, peggio, irritante. La dinamica espressa è, a dir poco, anfetaminica, esplosiva, e questo aiuta a restituire una notevolissima tridimensionalità dello spazio sonoro in cui si è effettuato la registrazione. Va da sé che sia l’equilibrio tonale (lo sfregamento delle dita sulla chitarra e il decadimento degli armonici), sia il dettaglio (un’autobotte ha versato litri su litri di nero intorno allo strumento e all’interprete) sono a livelli tali da rientrare nei territori celesti dell’audiofilia.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Rêverie Italien
Vincenzo Sandro Brancaccio (chitarra)
CD Da Vinci Classics C00355