Venerdì 16 marzo alle 20,45, all’Auditorium Pollini, la 52ᵃ Stagione concertistica OPV, Teatri del suono prosegue con un programma dedicato al repertorio contemporaneo e novecentesco, che vedrà la prima esecuzione assoluta di un brano del nuovo compositore in residenza Giorgio Battistelli, Exforma2, commissionato da OPV. Prima dell’esecuzione di questa nuova opera, il compositore di Albano Laziale ne ha parlato con il direttore dell’OPV, Marco Angius

Giorgio Battistelli è uno dei compositori che nel panorama nazionale ha posto sempre al centro della propria ricerca estetica e musicale una riflessione filosofica, del suono come emanazione del pensiero e del pensiero come prosecuzione immateriale del suono stesso. In occasione della prima assoluta della sua nuova opera orchestrale, Exforma2, l’autore ne ha parlato, ampliandone i confini in un ambito che va a toccare l’attuale musica contemporanea, con Marco Angius, direttore dell’Orchestra di Padova e del Veneto che la eseguirà venerdì 16 marzo alle 20,45 all’Auditorium Pollini. Il programma, oltre alla prima assoluta di Exforma2, prevede anche il Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Maurice Ravel interpretato da Leonora Armellini e la Musica per archi, percussioni e celesta di Béla Bartók.
Ecco la trascrizione della stimolante conversazione tra Giorgio Battistelli e Marco Angius.

Il direttore d’orchestra Marco Angius.

Marco Angius: Proviamo ad avvicinarci alla genesi di Exforma2 attraverso il tema della stagione in corso ossia i Teatri del suono. In altre parole, il suono come rappresentazione. Non a caso abbiamo aperto con Beethoven e Mahler, due compositori che pur non dedicandosi particolarmente al teatro hanno creato organismi sinfonici in cui i temi e soprattutto gli strumenti sono i veri personaggi: la drammaturgia del suono, come quella dell’ascolto, non necessita tanto di una scena concreta quanto di suggestioni, di visioni e perfino allucinazioni. La musica si approssima al mondo ma non coincide con esso: lo trasfigura, piuttosto, sia in senso visionario che iperrealistico.

  

Giorgio Battistelli: È un aspetto cruciale per ogni epoca e ogni compositore. Se ci pensiamo, in una sinfonia abbiamo un ascolto strutturale ed uno estetico, uno di purezza della forma, riferito a un ideale di musica assoluta mentre, proprio all’atto dell’ascolto, si svelano riferimenti molteplici e il mondo si apre ai suoi visitatori mostrando una molteplicità di riferimenti, una drammaturgia del suono e dei suoi processi narrativi.
Proprio di fronte alla narrazione le avanguardie storiche hanno provato una sorta di paura ancestrale perché sinonimo di descrittivismo e di negazione del purismo lessicale, contrario cioè al concetto di musica assoluta. Solo in seguito si è scoperto (o riscoperto) che la purezza delle forme contiene elementi e significati che vanno ben oltre la struttura formale di una composizione, così come la forza espressiva e rappresentativa del suono si pone al di là del mero perimetro di un palcoscenico teatrale. Se dunque i personaggi di una trama sono invisibili, sarà ancora più forte la suggestione e il fascino che potrà emanare dal relativo percorso artistico.
Per un compositore, la dialettica del processo creativo è determinata proprio da un equilibrio o da uno squilibrio tra la struttura che sostiene il linguaggio e la perdita di controllo su di esso: si tratta di tradire il presupposto compositivo di partenza e puntare a un cambiamento cioè far fronte a una necessità esterna ma vincolante che finisce inevitabilmente con l’influenzare l’ordito interno di una composizione. Questo aspetto era particolarmente sentito dai compositori seriali della seconda metà del ‘900 e ha a che fare con le potenzialità creative poste di fronte alla deriva debordante della materia sonora. Il suono produce stordimento, uscita dai binari della percezione e questo disordine potenziale può spaventare.

Marco Angius: Se larga parte della storia della musica è governata da questa dialettica tra contenitore e contenuto, d’altra parte assistiamo a un processo inverso cioè a una tensione irrisolta tra una struttura che tenta di ordinare la materia e quest’ultima che sfugge al controllo dell’artefice, compreso il concetto di errore che trasferisce nell’arte un significato di ambito piuttosto tecnologico. Viceversa, è possibile partire da un dato extra musicale, per arrivare al nocciolo del problema: la nascita della forma sonora con tutte le implicazioni che ne derivano. È ciò che si può riscontrare anche nei presupposti di alcune tue composizioni a partire da Experimentum mundi (1981): materia in continua trasformazione i cui stati di aggregazione sono ottenuti dalla manipolazione ritmica e organizzata di alcuni gruppi di artigiani.

Giorgio Battistelli: Se ci riferiamo alla genesi di questo ciclo che ho scelto di intitolare Exforma, ispirandomi ad alcune ricerche filosofiche di Nicolas Bourriaud, il tema della perdita e del materiale che viene escluso gradualmente nei processi compositivi è assolutamente centrale nelle mie attuali composizioni oltre che nel mio modo di pensare le dinamiche creative. Il processo di elaborazione formale è per definizione selettivo ma ciò che mi attira risiede proprio in quella zona oscura che non rientra nell’ordine compositivo ma addirittura si oppone adesso proprio per la sua inerzia concettuale e per il costituirsi come anti-forma ottenuta dall’esclusione di alcuni elementi discorsivi (ex-forma, appunto). Qui il campo si amplia anche a ciò che è di tremenda attualità: il diverso, l’escluso, l’emarginato, viene appunto scartato o allontanato perché potrebbe compromettere l’ordine sociale di riferimento. Questo aspetto si innesta anche su di un altro ambito che mi sta estremamente a cuore ossia quello della perdita, di ciò che nella storia personale o universale non ci riesce di trattenere (cioè salvare) e da cui ci si distacca senza appello. Si vede allora come un problema compositivo, quello drammatico della scelta e della direzione che intraprende un’opera e il suo materiale, si riflette in uno più globale che interessa la collettività da cui l’atto artistico non può certo considerarsi scollegato. In definitiva c’è una difficoltà (o indifferenza) nella gestione della disarmonia, di ciò che non si adatta o non si può controllare con i mezzi tecnologici e scientifici a disposizione.

Marco Angius: Questo discorso ci immette nell’ambito più stretto della contemporaneità. Quando si pensa al contemporaneo si pensa esclusivamente al presente ma contemporaneità implica anche compresenza di stili, di pensieri e figure. In questo senso il rapporto tra presente e passato, che abbiamo spesso esplorato nella programmazione con l’Orchestra di Padova e del Veneto in questi anni con ottiche di lettura trasversali, conduce a una necessità di rileggere continuamente il preesistente, non tanto per deformarlo quanto per tentare di trasfigurarlo. Il passato, come la realtà, è irraggiungibile e possiamo solo ricostruirne delle forme presunte. Talvolta, nelle nuove composizioni, si avverte un senso unidirezionale della conoscenza e della percezione mentre il mondo è molto più vario e inafferrabile ovvero si espande in profondità come una radice.

Giorgio Battistelli: Bourriaud direbbe che è un atteggiamento “radicante” ossia che agisce in più direzioni e in modo assolutamente irregolare. Muoversi in superficie è solo una delle tante possibilità, quella diacronica, ma non certo esclusiva. Il gesto compositivo deve manifestare sempre la sua profonda necessità altrimenti avremmo soltanto copie decadenti di gesti replicati: sempre per rimanere in ambito francese, Deleuze e Derrida hanno molto indagato le implicazioni tra differenza e ripetizione. Radici sempre nuove si espandono dunque nello stesso terreno. Bisogna distinguere ovviamente la molteplicità dall’eclettismo cioè da un gesto gratuito che si appropria per comodità del pensiero altrui nel tentativo di colmare un vuoto inconsistente attraverso un fittizio allontanamento dei problemi cruciali.

Marco Angius: L’elemento “radicante” mi fa pensare al rizoma pitagorico, concetto che l’architettura più recente di Zaha Hadid ha espresso in modo emblematico. Poi c’è il discorso dello stile: la riconoscibilità dello stile, mi chiedo spesso, è un presupposto assoluto per un compositore? In passato uno stesso stile poteva raggruppare compositori relativamente simili o comunque avvicinabili mentre oggi si assiste piuttosto a un concentrato di individualità, ciascuna con una propria visione del mondo. In fondo, dopo le avanguardie storiche, si è verificata talvolta una rincorsa generazionale mentre il dilemma resta focalizzato sulla ricchezza del pensiero che un artista offre al pubblico. Oggi, almeno in Italia, si sta verificando un pericoloso revisionismo in cui la portata innovativa delle avanguardie storiche viene allontanata come musica non grata in un grave processo di responsabilità negazioniste.

Giorgio Battistelli: Nell’avanguardia storica c’erano figure antitetiche che però non negavano la propria reciproca consistenza e originalità. Un esempio per tutti potrebbe essere il binomio Henze-Nono. Quando invece non si possiede un pensiero compositivo da contrapporre al proprio competitor, allora si scade nella banalità della posizione arroccata sul vuoto di idee, sulla sterile polemica, se non addirittura nel totalitarismo che individua una musica come degenerata.
In fondo è l’atteggiamento di chi si illude di avere un contatto con la realtà o addirittura di compenetrarla, mentre si tratta piuttosto dell’illusione di un avvenire. Ci si auto-inganna, per rispondere a un’esigenza di musica confortevole convincendosi che la realtà coincida con una visione consolatoria e, soprattutto, autoassolutoria e disimpegnata del comporre.
Per questo stanno emergendo posizioni di irritazione aggressiva nei confronti di altre poetiche compositive, come se la presenza di un’altra visione del mondo possa in qualche modo nuocere alla propria. La mia scrittura, ad esempio, non solo non nega la diversità ma non ne è in alcun modo limitata. Il fatto che esistano da tempo correnti neoromantiche o post-minimaliste è anzi fonte di curiosità piuttosto che di terrore… non bisogna avere l’ansia di sostituirsi ideologicamente a una generazione precedente quanto piuttosto avere qualcosa di altrettanto se non di più interessante da comunicare al pubblico. L’antitesi del monarca è l’anarca e non il rivoluzionario: quest’ultimo vuole solo sostituirsi al primo per esercitare un potere esclusivo e insindacabile.

Marco Angius: Tornando ai processi compositivi, vorrei introdurre la prossima serie di Lezioni di suono che affronteranno il tema del tuo vasto teatro musicale partendo, quasi paradossalmente, dal Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi il prossimo 4 aprile. Un lavoro unico – se si eccettua la ricostruzione filologica del Duc d’Albe di Donizetti – in quanto prende le mosse direttamente dal madrigale dell’Ottavo libro per rileggerlo in senso estremamente stilizzato e visionario: un trio di tastiera, chitarra e basso elettrico diventa il nuovo continuo; una scrittura polverizzata degli archi avvolge le voci che invece, ad eccezione del prologo, restano conformi all’originale. La sorpresa è considerevole in virtù di alcuni elementi inattesi: alla scrittura dell’immanenza che lascia scorrazzare la materia sonora senza impedimenti costruttivi si associa qui un limite deliberato, quello di un originale da sfidare e con cui dialogare a distanza. Come si ricongiunge passato e presente essendo la prima una dimensione irrimediabilmente perduta e la seconda per definizione inafferrabile? Sono piuttosto tradimenti certificati di un pensiero autenticamente ineffabile?

Claudio Monteverdi.

Giorgio Battistelli: Con Monteverdi si riscopre la fascinazione dell’imperfetto, caratteristica tipica dei grandi compositori per il teatro. Da un lato mi si presentava un solco tracciato secoli addietro su cui proiettare la propria ombra e dall’altro lo slancio di reinventare una (la) storia. Ancora una volta alla struttura si contrappone l’elemento inatteso, imprevedibile, perfino estemporaneo per chi volesse rischiare la sorpresa dell’attimo. Le macchine teatrali e le invenzioni stesse dell’epoca monteverdiana erano a vista cioè dichiarate, compresi i rumori, i cambi di scena e il coinvolgimento del pubblico che entrava e usciva a proprio piacimento dal luogo dello spettacolo e dunque dal dramma stesso: ma lo spettacolo era evento tangibile, presente, parte integrante di una quotidianità condivisa. In questo senso Monteverdi incarna l’ideale forse più alto di drammaturgia sonora, al pari del Globe Theatre shakespeariano. Potrebbe apparire un’operazione concettuale ma, al contrario, vi era un’estrema compenetrazione con la vita nella sua forma più astratta e al tempo stesso realistica. Ancora una volta ho sentito il bisogno di impurità e mi trovo perfettamente d’accordo con Dahlhaus quando sostiene che il teatro musicale è l’unica forma musicale che può tollerare il kitsch ma non la purezza dell’espressione.
Andrea Bedetti