Quando, tra la seconda metà degli anni Settanta dello scorso secolo e i primissimi del decennio successivo, il mondo dell’industria discografica fu rivoluzionato dall'irruzione del Compact Disc, il dischetto argentato di policarbonato del diametro di dodici centimetri, tutti, tra appassionati e addetti ai lavori, pensarono che il nuovo supporto d’ascolto avrebbe messo definitivamente in pensione il vinile, la cui esistenza si era protratta per circa tre decenni. A quasi quarant'anni di distanza, le cose in realtà sono molto cambiate; il CD è stato ormai soppiantato dalla cosiddetta “musica liquida”, una delle tante conquiste date da Internet e dalla nuove tecnologie (il termometro della situazione è dato dalla decisione da parte della SONY, nel febbraio del 2018, di chiudere l’ultima fabbrica di produzione dei CD negli Stati Uniti, dopo il crollo delle vendite), mentre dopo nemmeno tre decenni di riposo forzato (anche se, a dire il vero, non aveva mai ceduto le armi), il vecchio, caro vinile, rappresentato dai dischi a 33 giri, è tornato progressivamente in auge e non solo tra coloro che a livello generazionale avevano già avuto modo di apprezzarlo e di amarlo, ma anche tra i più giovani, i cosiddetti millennials, i quali sono nati quando il CD era vivo e vegeto e che considerano i dischi in vinile e i giradischi non come un retaggio del passato, ma come qualcosa di assolutamente nuovo.
E che il vinile stia vivendo, pur sempre nel suo mercato di nicchia che si aggira attualmente intorno al 3,6 per cento a livello mondiale, una sorta di Renaissance è attestato anche dal fatto che il mondo del video e del cinema italiani, a livello documentaristico, ha voluto di nuovo dargli credito, alla sua storia e al fascino che il suono analogico riesce ancora a sprigionare. Ne fanno fede due documentari, non esenti da pecche e difetti, il primo del 2012 di Paolo Campana, intitolato Vinylmania. Quando la vita corre a 33 giri (che può essere visto o scaricato facilmente da YouTube) e il secondo di Fulvio Iannucci, del 2018, dal titolo Vinilici. Perché il vinile ama la musica, che è stato proiettato nelle sale cinematografiche e il cui DVD sarà in vendita entro la fine del 2020.
Le pecche e i difetti riguardano fondamentalmente due aspetti presenti in entrambi i documentari, vale a dire la mancanza di testimonianze e di accenni al mondo discografico legato alla cosiddetta musica classica (la quale, al contrario, è ben presente nel fenomeno del ritorno in auge del vinile) e, tranne un debito caso del quale farò riferimento, l’assoluta dimenticanza che il suono analogico, che contraddistingue il vinile, è parte integrante se non fondamentale del concetto di audiofilia.
Se Vinylmania è il risultato di un regista che è anche DJ, qual è Paolo Campana, in cui più del cinquanta per cento del documentario è incentrato sul mondo dei DJ e del loro rapporto con il vinile e quindi poco importa al discorso che intendo fare, ossia inerente al legame tra musica colta e vinile e tra il vinile e l’audiofilia, il film del napoletano Fulvio Iannucci, ben più complesso e variegato per ciò che riguarda l’apporto delle testimonianze, dei racconti e dei personaggi che coinvolge, merita una riflessione più attenta e motivata.
Anche in questa pellicola, comunque, tranne la testimonianza di un discografico e audiofilo come Giulio Cesare Ricci, coloro che sono stati chiamati a parlare appartengono nella quasi totalità al mondo della musica rock e pop, ossia i generi di musica massificata per eccellenza. Ecco, allora, apparire di volta in volta, personaggi come Red Ronnie, Renzo Arbore, un DJ come Claudio Coccoluto, Elio e le Storie Tese, Mogol, addirittura Bruno Venturini, Lino Vairetti (tra i fondatori del gruppo progressive Osanna negli anni Settanta) e l’immancabile contributo di Carlo Verdone, il quale, una volta tanto, è riuscito ancora a parlare di Jimi Hendrix. Sia ben chiaro, non nego che per motivi di strategia, di interesse, di curiosità, l’idea di questo documentario, riservato inevitabilmente a un pubblico di nicchia, di appassionati, sia stata quella di proporre nomi maggiormente noti e appetibili per un pubblico più vasto, ma non sarebbe stato vano coinvolgere anche artisti che appartengono alla musica classica, a cominciare magari da Salvatore Accardo (citato tra l’altro sia da Ricci sia da Arbore), il quale è anche un raffinato audiofilo, oltre ad essere un appassionato di vinili.
Ora, non so se questa è stata una precisa scelta da parte di Iannucci o se (dubito) artisti del mondo della classica si siano rifiutati di concedere la loro testimonianza, ma resta il fatto di una lacuna, di un vuoto, di una visione sproporzionata a favore di una musica, quella del genere rock e pop, che rappresenta, solo uno dei volti dell’universo della musica riprodotta, tenuto conto che nel documentario manca anche l’apporto sostanzioso dato dalla musica jazz e dal suo mondo legato al vinile.
Certo, il vinile (soprattutto il long-playing) vanta un’attrattiva maggiore per la forza d’impatto che riesce a trasmettere non solo a livello musicale, ma anche per ciò che riguarda l’apporto dato dalle cover e da ciò che si può trovare all'interno degli album, che si trasforma a volte in un vero e proprio caleidoscopio di immagini, catturando inevitabilmente l’attenzione dell’appassionato di rock e di pop, il cui linguaggio musicale è votato all’immediatezza, a un qualcosa che si può e si deve avere subito, sia a livello di fruizione, sia a livello di comprensione. Ecco, allora, in Vinilici la celebre banana da sbucciare di Andy Warhol presente sulla cover del primo LP dei Velvet Underground, The Velvet Underground & Nico, la leggendaria “fotografia ucronica” dei Beatles con altri personaggi celebri in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, la “psicopatologica” copertina di From the Inside di Alice Cooper, con l’interno dell’album che si apre mostrando una sala d’aspetto di un ospedale dove ne accadono di tutti i colori e con tanto di una porta che si apre e che mostra il cantante di Detroit chiuso in una camicia di forza.
Il punto è proprio questo, nel senso che se una pecca dev’essere riconosciuta a Vinylmania sta proprio nel fatto che tutto il bandolo della matassa, tutte le testimonianze, tutta l’impostazione del film sono basati su un concetto di “immediatezza”, compresa la presenza di collezionisti il cui obiettivo non sta tanto nel piacere di ascoltare la musica quanto di possedere l’oggetto che trasmette la musica, ossia il disco stesso. Insomma, è come se il vinile, e questo lo affermo in nome delle nuove generazioni che devono scoprire la musica anche attraverso gli LP, fosse sinonimo esclusivo di rock e di pop.
L’altro punto dolente, come ho già accennato, è il fatto che il documentario non mette sufficientemente in debita correlazione il fascino del vinile, e quindi del suo suono, con la dimensione audiofila che mira ad esaltare tale suono. Certo, in tal senso, i contributi sebbene minimi non mancano, come quelli del già citato Ricci, di Paolo Corciulo, direttore del mensile “Suono”, del tecnico del suono Massimiliano Pone e, soprattutto, di Alex Cereda, che personalmente considero tra quei pochissimi specialisti che in Italia capiscono realmente l’arte della riproduzione del suono musicale. Ma se un documentario, oltre che a raccontare e a illustrare un determinato fenomeno, ha anche in mente di essere propositivo e in alcuni casi propedeutico, una maggiore attenzione all’arte di come si deve ascoltare la riproduzione analogica della musica non avrebbe di certo fatto male.
Se la musica digitale, a cominciare da quella “liquida”, può essere ascoltata in mille modi, quella analogica presuppone delle leggi, delle norme, una vera e propria “filosofia”, che non possono non essere prese in considerazione, così come accade per l’altra forma di ascolto analogico, quello che riguarda le registrazioni dei nastri in bobina, anch'esso tornato in auge negli ultimi anni, anche se rimane un fenomeno ancor più di nicchia rispetto allo stesso vinile.
Andrea Bedetti
Fulvio Iannucci - Vinilici. Perché la musica ama il vinile
Film-documentario prodotto da IUPPITER.EU
Giudizio artistico 3/5