Una recentissima registrazione discografica pubblicata dalla Da Vinci Classics presenta due lavori orchestrali e due concertistici che il loro autore, il compositore milanese contemporaneo Filippo Del Corno, ha creato appositamente per una delle più rappresentative istituzioni culturali meneghine, l’Orchestra I Pomeriggi Musicali, lavori che sono stati diretti da un altro nome di primo piano della scena musicale attuale, il compositore e saggista Carlo Boccadoro. I quattro lavori in questione sono il brano orchestrale A coda di rondine, composto proprio quest’anno, il concerto per clarinetto e orchestra Passaggi, che risale al 1996 e che vede l’islandese Dimitri Ashkenazy, figlio del grande pianista Vladimir Ashkenazy, nel ruolo di solista, la pagina orchestrale Six memos del 1994 e il concerto per pianoforte e orchestra Not In My Name, scritto nel 2007, con Emanuele Arciuli al pianoforte.

La cover del CD Da Vinci Classics dedicato a composizioni orchestrali e concertistiche di Filippo Del Corno.

Questo disco può essere considerato, per chi non conoscesse questo compositore, un ottimo “biglietto da visita” della sua musica, in quanto la sua produzione si concentra quasi esclusivamente in tali ambiti, oltre a quello operistico. Prima di affrontare le quattro pagine di questo disco bisogna anche ricordare un altro aspetto precipuo di Filippo Del Corno, ossia il suo côté engagé, che in passato lo ha portato a occuparsi attivamente di politica, con ruoli ricoperti sia in campo partitico, sia in quello propriamente istituzionale (è stato per diversi anni assessore alla Cultura nel Comune di Milano); questo suo impegno a favore della res publica si riflette indubbiamente nella sua musica, anche se recentemente ha lasciato il mondo della politica per tornare a fare il musicista, oltre a insegnare Composizione al Conservatorio meneghino.

Non è questa la sede adatta per affrontare il rapporto arte e politica e di come la seconda possa influenzare la prima, ma è indubbio che nelle opere orchestrali e concertistiche di Del Corno, a cominciare da quelle raccolte in questa registrazione, vi sia, a livello compositivo, una manifesta organicità del suono proposto, un’organicità che riflette e coinvolge indubbiamente la sensibilità del compositore milanese riguardo a problematiche di stampo sociale, economico e culturale rispetto alla massa, così come vennero affrontate, per esempio, dalle riflessioni, per restare nel campo nostrano, di Antonio Gramsci. La criticità del connotato sociale, l’importanza della sua tradizione culturale e di come quest’ultima possa e debba raffrontarsi con l’irruzione della modernità, depositaria del virus della “spersonalizzazione”, sta molto a cuore a Del Corno, il quale nel brano iniziale del CD, quello di composizione più recente, affronta la materia sonora di una celebre canzone appartenente alla musica popolare italiana, in questo caso di quella piemontese, vale a dire La Girometta, che permea il punto di partenza e di continua mutazione costitutiva di A coda di rondine. Questa canzone popolare, sbocciata nel cuore della cultura contadina biellese, in realtà divenne famosa nel corso della seconda metà del XVI secolo a Venezia, al punto da spingere qualche decennio dopo Girolamo Frescobaldi a creare un Capriccio per organo basato proprio sul tema melodico di questo brano popolare, che racconta di una contadinella che dalla montagna scende al piano, ha visto il suo processo di fruizione “massificata” continuare fino ai nostri giorni anche tramite una “mediazione” belcantistica, con la versione data da Luciano Pavarotti.

Il compositore e didatta milanese Filippo Del Corno (© Manuel Cicchetti).

Qui Filippo Del Corno, nei panni di un Ernesto De Martino in modalità sonora (non mi sembra che sia il caso di riprendere Béla Bartók e il suo magnetofono), prende il tema melodico della canzone e lo spalma su sei variazioni, manipolando la linea originaria per dare vita a un procedimento esplorativo in ognuna di esse, andando a lavorare e a trasmutare la dimensione ritmica, così come la conformazione armonica. Il titolo del brano, come vi potrebbe spiegare ogni falegname, deriva da una tecnica artigianale che riguarda l’arte del legno, ossia la capacità di assemblare e unire due o più assi, come si fa quando si costruisce un cassetto, le cui estremità vanno a combaciarsi e a incastrarsi grazie a una serie di appendici che hanno proprio la forma di una coda di rondine; lo stesso avviene “artigianalmente” nel brano del compositore milanese, la cui opera di incastro armonico/ritmico/melodico si attua sulla base di un medesimo principio, che si manifesta per cinque volte, facendo così combinare le sei variazioni, attraverso un elemento musicale neutro sempre identico a se stesso.

Sono propenso nel credere che l’autore abbia voluto mettere A coda di rondine in cima alla playlist in quanto questo lavoro “artigianale” ad incastro possa rappresentare idealmente l’elemento decodificante per comprendere meglio gli altri tre brani del disco. Questo a cominciare dal concerto per clarinetto Passaggi, nel quale lo stesso autore non fatica ad ammettere la componente “urbanistica” in cui è centrata la composizione. Del Corno con questi “passaggi” vuole intendere un sistema di gallerie la cui funzione è di collegare le piazze di una città (da parte mia, tale immagine mi ha rimandato alle teorie urbanistiche di Antonio Sant’Elia, in quanto la precisa “meccanicità” che governa l’impianto costruttivo del brano rimanda a quelle stesse gallerie che il grande architetto futurista immaginò quali arterie “sanguigne” grazie alle quali la visione di una città ex-novo avrebbe potuto vivere e prosperare tramite questo sistema organico di pompaggio comunicativo, come a dire che l’organicità non è altro che la necessità del collegamento). La medesima capacità di collegamento è qui data dal tessuto clarinettistico, con una capacità di saper “incastrare” le inevitabili differenze ritmiche, armoniche, melodiche, dissonantiche rappresentate dalla diverse piazze sonore, quattro per la precisione, che va a incrociare e a unire. Questo concerto, escogitato in un tempo unico, va poi a confluire in una coda, anch’essa collegata a un’immagine architettonica, una sorta di quinta piazza, nella quale però la dimensione inevitabilmente spaziale, data dalla necessità materiale della costruzione, confluisce in una dimensione temporale o, meglio, a-temporale, in quanto si trasforma, sempre a detta del compositore milanese, in un “luogo della memoria”, il che ci fa comprendere con maggiore nettezza come all’interno di esso la linea del tempo venga frantumata e annullata dal riversarsi del ricordo, il quale non è quasi mai sistematico, organico e cronologicamente ordinato. Una coda, quindi, che musicalmente resetta e scombina in-organicamente quanto costruito in nome di un’auspicata logica non solo urbanistica, ma anche sociale.

Il clarinettista islandese Dimitri Ashkenazy.

Così, ci troviamo di fronte a un’altra sfaccettatura del sentore engagé che artisticamente Del Corno vuole proporre, quello di una sorta di rappel à l’ordre, che viene rappresentato dagli ultimi due brani, Six memos e Not In My Name.

Non so se sia stato scritto un saggio o sia stata discussa una tesi di laurea in cui è stata spiegata l’influenza che le Lezioni americane di Italo Calvino hanno avuto a livello ideo-logico sulla cultura progressista del nostro Paese, visto che anche Filippo Del Corno si è andato a iscrivere nella lista di coloro che hanno visto in questo libro del 1985 un paradigma dal quale germinare e procreare altre espressioni artistiche, come appunto succede nel brano Six memos che, tra l’altro, fu il titolo scelto dallo stesso Calvino poco prima di morire, per l’esattezza il titolo completo era Six Memos for the Next Millennium, nel quale il compositore milanese volge in suono i sei lemmi scelti dallo scrittore, ossia leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza, i quali dovrebbero essere considerati ineludibili promemoria per colui che vuole consacrarsi all’arte. Anche qui, in un certo senso, Del Corno continua a operare in modalità “coda di rondine”, poiché il suo lessico musicale, che intende essere una sorta di affettuosa e ammirata risposta al lessico letterario e saggistico di Calvino, lo stimola a incastrare organicamente questi sei termini in altrettanti valori sonori che si fondono, si mischiano, si alternano, come a voler rappresentare un’ideale multi-società, rappresentata dall’elemento orchestrale, che si proietta nel futuro.

Infine, Not In My Name per pianoforte e orchestra, in cui l’impegno prende sotto braccio la protesta, poiché il titolo di questa composizione riprende lo slogan lanciato da un’organizzazione statunitense, The September Eleventh Families for Peaceful Tomorrows, costituita da un gruppo di familiari delle vittime dell’attentato contro le Torri Gemelle di New York, che ha manifestato la propria protesta, dissociandosi contro le azioni militari portate avanti in nome delle vittime americane del terrorismo. Qui, il linguaggio musicale è potentemente simbolico, a cominciare dal rapporto dissociativo portato avanti tra lo strumento solista e l’accompagnamento orchestrale; inoltre, la valenza dello slogan, il quale a livello lessicale viene enunciato sempre attraverso un’emissione sostenuta da una precisa efficacia ritmica, nel brano in questione vede le quattro parole che lo compongono spalmate, frazionate, suddivise a titolo degli altrettanti tempi che lo formano, come a dire che ogni tempo vuole rappresentare in ampiezza e in altezza sonore la dimensione di una protesta, incarnata dal pianoforte, il quale si ribella (i primissimi accordi del pianoforte, con le sue caratteristiche note ribattute, riprendono tel quel l’incipit dell’Allegro moderato con il quale si apre il Quarto concerto beethoveniano, che Del Corno ripropone storicamente per ricordarci come in quel caso lo strumento solista si ribellò per la prima volta al dominio dittatoriale dato dall’orchestra, enunciando così per primo il tema da sviluppare) per poter affermare il proprio principio rispetto all’assolutezza data dallo “scompagnamento” orchestrale. È bene ricordare che Not In My Name è il secondo capitolo di una trilogia intitolata Confront Reality che, con il brano Critical Mass per orchestra d’archi e Shock and Awe per grande orchestra, vuole affrontare/denunciare il rapporto ambiguo che persiste tra l’arte contemporanea e la società attuale, riprendendo un ulteriore rappel à l’ordre lanciato da un altro compositore engagé, l’inglese Steve Martland, il quale durante la sua breve vita (è morto nel 2013, a soli cinquantotto anni) si è battuto per un’arte che non deve riflettere la realtà, ma affrontarla.

Il pianista Emanuele Arciuli.

Al di là delle finalità sociali e “politiche” delle sue composizioni, la musica orchestrale e concertistica di Filippo Del Corno merita naturalmente delle considerazioni che riguardano l’ambito artistico; la prima considerazione da fare è la capacità tecnica di esporre compositivamente la materia sonora. Il musicista milanese, allievo di Azio Corghi, si è posto fin dall’inizio della sua attività compositiva di dare vita a una musica che andasse incontro all’ascolto e non viceversa (in tale senso dev’essere ricordata la sua iniziativa, realizzata nel 1997 con lo stesso Carlo Boccadoro e Angelo Miotto, che ha portato alla fondazione del gruppo Sentieri Selvaggi, con lo scopo di diffondere e divulgare una musica contemporanea capace di attrarre e coinvolgere il pubblico), vale a dire una materia sonora non indirizzata alla sperimentazione, ma concentrata su strutture che contemplano un linguaggio tonale articolato e approfondito nelle sue possibilità ultime di sfruttamento armonico e melodico. Il che significa una metodologia compositiva capace di esaltare le possibilità timbriche offerte a livello orchestrale, con un accuratissimo lavoro delle varie sezioni, a cominciare da quella degli ottoni (le cui sonorità e le scelte in cui intervengono mi hanno ricordato quanto fece a suo tempo Aaron Copland), al punto che sento di spingermi di considerare il plasmarsi e l’articolarsi del suono “disorganicamente organizzato” (si ascoltino proprio A coda di rondine e Six memos) di Del Corno alla stregua di quello splendido, intenso, unico di Charles Ives, la cui capacità di scandagliare e agglomerare la densità sonora orchestrale ha pochi eguali nel Novecento storico. Infine, la capacità nel musicista milanese di lavorare non solo nel cesellamento sezionale, ma anche di fornire una bellezza del tutto nelle arcate architettoniche delle sue composizioni, nella capacità di modulare assai bene i vari piani su cui si distende l’eloquio espressivo della materia sonora (e qui il pensiero corre a quello che è stato uno dei maggiori sinfonisti del secolo scorso, Carl Nielsen).

Carlo Boccadoro alla direzione dell'Orchestra i Pomeriggi Musicali.

Certo, tale complessità e tale bellezza abbisognano di interpreti all’altezza e qui, per fortuna, a cominciare da Carlo Boccadoro e continuando con i due solisti Dimitri Ashkenazy ed Emanuele Arciuli, senza contare la validissima esecuzione dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, l’esecuzione permette di apprezzare al meglio la ricchezza espositiva dei brani presenti in questa registrazione. Ciò vale soprattutto per il fatto che la scrittura di Del Corno tecnicamente è assai impegnativa, irta di difficoltà la cui funzione, però, non è quella di evidenziare un virtuosismo fine a se stesso, e ciò vale innanzi tutto per la linea espressiva del clarinetto e del pianoforte, ma di inserire e di “bilanciare” (ancora una volta il richiamo dell’“organicità”) ciò che è singolo nel tutto come il tutto nel singolo.

Consigliato a chi voglia avvicinarsi alla musica contemporanea, a patto di farlo con un ascolto consapevole e “intelligente”.

Per finire, il responso tecnico della registrazione. Sono rimasto piacevolmente impressionato dalla presa del suono effettuata dal solito affidabilissimo Gabriele Zanetti, in quanto non era facile mettere in risalto tutte le sezioni orchestrali potentemente sollecitate dalla scrittura di Del Corno, restituendole adeguatamente nel loro insieme. Ciò è stato reso possibile da una microfonatura capace di cogliere ogni sfumatura, continuando con una dinamica energica, potente (a dir poco necessaria per riprodurre l’ampiezza del timbro orchestrale) e, allo stesso tempo, naturale e veloce nei transienti. Di conseguenza, il parametro del palcoscenico sonoro ne guadagna in densità, ossia nel rappresentare ottimamente la compattezza orchestrale senza sacrificare le peculiarità delle varie sezioni, oltre a irradiare il suono, posto a una discreta profondità, ben oltre i diffusori sia in altezza che in ampiezza. Ottimi anche l’equilibrio tonale e il dettaglio: il primo restituisce fedelmente le differenze basilari dei registri, a cominciare da quelli contrapposti tra gli strumenti solisti e l’accompagnamento orchestrale, e il secondo capace di offrire una sontuosa matericità.

Andrea Bedetti

Filippo Del Corno – A coda di rondine

Dimitri Ashkenazy (clarinetto) - Emanuele Arciuli (pianoforte) - Orchestra I Pomeriggi Musicali - Carlo Boccadoro (direzione)

CD Da Vinci Classics C00793

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5