A chi fa notare a Paolo Castaldi, musicista tra i più accesi sostenitori della dimensione contemporanea della musica vista come arte altamente disaggregante nei confronti del sistema tonale e del Novecento storico, quindi nemica di ogni forma rappresentativa di melodia, che i compositori odierni rifuggono dalla necessità e dalla richiesta del pubblico di opere capaci di restituire una lettura in grado di soddisfare il senso, il desiderio di un’(apparente) comprensione subitanea di ciò che si sta ascoltando proprio grazie alla presenza di una linea melodica, il compositore milanese risponde che il comporre, ossia il mettere assieme l’arte dei suoni, non rappresenta un esercizio che deve tenere conto delle richieste e dei desideri di chi deve ascoltare, altrimenti l’arte musicale si trasformerebbe in uno sterile “venire incontro”, scadendo a livello di un artigianato dei suoni ad uso e consumo di chi dovrebbe “usare” ciò che viene presentato a livello musicale per appagare il suo orecchio e, parallelamente, l’“orecchiabilità” di ciò che sta ascoltando.

Ma è altrettanto indubbio che nel corso degli ultimi cinque decenni la frattura tra chi compone musica contemporanea colta in ambito “classico” (faccio fatica a usare tale termine, ma se lo faccio è per rendere più semplice ed evidente la sua assimilazione in chi legge) e chi è preposto al suo ascolto si è ormai dilatata a un punto tale da creare una sorta di dimensione esoterica in chi fa musica, si occupa a livello critico e chi ascolta quel tipo di musica in cui si identifica lo stesso Paolo Castaldi, e questo vale soprattutto nel nostro Paese, dove la diffusione della musica contemporanea “dura e pura” rientra sempre più in un discorso altamente elitario, con le sue etichette discografiche, i suoi festival e le sue rassegne e, conseguentemente, con il suo tipo di pubblico “selezionato”, il quale è in grado di recepirne e di assimilarne le sue connotazioni.

Questo pistolotto iniziale serve solo per comprendere meglio la figura del compositore piemontese Fabio Mengozzi e la registrazione in questione, intitolata Mistero e poesia, in cui lo stesso musicista esegue al pianoforte diciotto suoi pezzi che probabilmente farebbero mestamente scuotere la testa a Paolo Castaldi e a coloro che intendono per musica contemporanea una dimensione sovrastrutturale basata sull’uso di suoni distinti che non mirano a riproporre un impianto basato sul linguaggio tonale, ma su un’aggregazione sonora che è stata, e che continua ad esserlo, di volta in volta esposta e manifestata dalle varie correnti e “scuole” nate dalla frammentazione e dal pulviscolo teorici che si sono venuti a creare, almeno in ambito occidentale, a partire dal post Scuola di Darmstadt.

Questo perché Fabio Mengozzi, come altri musicisti attuali che hanno voluto seguire una concezione compositiva à rebours, controcorrente, esalta al contrario una musica impregnata, esaltata, manifestata dal linguaggio tonale. Linguaggio che viene usato necessariamente, come avviene nel caso del compositore astigiano, per potenziare l’afflato evocativo che il fraseggio melodico esprime nelle linee armoniche, in questo caso, del pianoforte. Un’evocazione che viene corroborata e fissata, almeno per coloro che ascoltano la musica attraverso la proiezione mentale di immagini, sensazioni scaturite da un vissuto personale fatto di ricordi ed emozioni (con buona pace di Eduard Hanslick e di coloro che considerano la musica come forma fine a sé stessa) anche dal potere illustrativo dato dai titoli. Così i titoli che identificano i diciotto brani che fanno parte di questo disco possono essere suddivisi grossomodo in due distinte sezioni, quella che rimanda a un’identificazione “misterica” (desunta anche dal titolo stesso del CD), come nel caso di “Mysterium”, “Ianus”, “Nauta”, “Artifex”, “Era”, “Sfinge”, “Ananke”, e quella che rimanda a elementi e richiami legati a una dimensione poetica o il cui fine è ricondurre determinate cose, essenze o strutture all’immagine stessa di una poesia che si concretizza sotto l’impulso del suono musicale, “Rivo di cenere”, “Scintilla”, “Commiato”, “Reverie IV”, “Faro notturno”, “Viride”, “Sempiterna ruota”, “Cometa nella notte”, “Estro”, “Ceruleo vagare”, “Anelito al silenzio”.

L’uso dei titoli di questi brani riveste indubbiamente una grande importanza, soprattutto alla luce di quanto lo stesso compositore piemontese afferma riguardo la sua concezione musicale. Mengozzi, infatti, come afferma egli stesso, rifugge l’assioma “musica contemporanea=dissonanza” (anche se poi effettivamente la musica colta attuale non prende nemmeno più in considerazione la presenza o meno della dissonanza, in quanto quest’ultima è legata fondamentalmente al linguaggio tonale), ma punta a un’armonia che risulti essere un luogo di facile approdo per la dimensione melodica, in quanto il suo scopo è di rendere oltremodo fruibile e accessibile quanto compone. Tale fruibilità viene, per così dire, “incentivata” proprio dalle immagini evocate dai rispettivi titoli dei brani, veri e propri passepartout affinché chi ascolta possa calarsi nella rarefazione evocativa espressa da questi pezzi. Ascoltandoli, mi è tornato in mente come un grande del recente passato, Erik Satie, abbia in un certo senso utilizzato la stessa strategia per quanto riguardava i suoi brani pianistici, soprattutto quelli dedicati alla sfera esoterica ed occulta (basterà ricordare titoli come Sonneries de la Rose+Croix, Préludes du Nazaréen, Préludes du Fils des Étoiles, Prélude de la Porte Héroique du Ciel drame ésoterique de Jules Bois, tutti facenti parte del cosiddetto corpus delle Œeuvres mystiques), anche se non si deve dimenticare che il beffardo compositore francese, oltre a interessarsi attivamente al sapere occulto ed esoterico, è stato anche un patafisico, quindi un adepto di Alfred Jarry e della cosiddetta “scienza immaginaria”, dietro la quale si celava la colta celia e il paradosso più raffinato.

Ora, non conosco naturalmente il grado di conoscenza che Fabio Mengozzi possiede nel campo delle scienze esoteriche, un fenomeno che ha coinvolto spesso e volentieri l’arte musicale (sempre per restare nella musica francese a cavallo tra Ottocento e Novecento non si può fare a meno di ricordare come l’opera musicale di Debussy, in particolar modo proprio quella pianistica, vanti un aspetto decisamente esoterico, legato principalmente alla simbologia dell’acqua, come ha ben rilevato il giovane musicista e musicologo Alessandro Nardin nel suo intrigante libro Debussy l’esoterista – Sulle tracce del mistero, edito da Jouvence), ma sempre nelle note che accompagnano il disco, il musicista astigiano, per ciò che lo riguarda, parla apertamente di influsso a opera della filosofia pitagorica, legata non solo all’universo numerico, ma ad un preciso richiamo spirituale e mistico che si annida dietro questa “matematica sonora”. Filosofia pitagorica che Mengozzi, non so fino a che punto nei panni di un novello Ippaso di Metaponto (ossia il filosofo greco che svelò a livello essoterico alcuni insegnamenti segreti confidati da Pitagora ai suoi discepoli), applica nelle sue opere pianistiche nella forma della sezione aurea. Ora, senza entrare in merito a cavillosi tecnicismi matematico-musicali, per coloro che non sanno che cosa sia la sezione aurea, basterà dire che prendendo come punto di partenza la costante matematica pi greco (che corrisponde a π = 3,1459…), determinata dal rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro, si giunge a un’altra costante, chiamata phi (φ = 1,6180339887…), meglio conosciuta appunto come sezione aurea, che ha in comune con π il fatto di essere un numero irrazionale, ovvero avente una parte decimale infinita e non periodica. È quantomeno curioso, non dico aporistico, il fatto che il compositore piemontese intenda rendere fruibile il suo costrutto musicale a un gran numero di persone (quindi in chiave essoterica) partendo da un impianto creativo basato su una dimensione esoterica, o quantomeno conosciuta da pochissime persone in grado di determinare, leggendo lo spartito musicale, dove va a cadere la sezione aurea presente nelle pagine pianistiche di Mengozzi (comunque, ricordo che anche la musica del Novecento, con Stravinskij e Bartók, e la musica contemporanea, con, tra gli altri, Xenakis, Stockhausen, Nono, Ligeti, Manzoni e Gubajdulina, hanno attinto a piene mani dalla sezione aurea e dalla derivante sequenza dei numeri di Fibonacci).

Ma, a parte tali questioni concettuale-compositive, resta indubbio il fatto che i diciotto brani che fanno parte di questa registrazione riescono nel compito di avvolgere l’ascoltatore in una temperie evocativa, da cui deriva una chiave squisitamente emotiva (la “chiave di volta” per giungere nel cuore dei molti). E Mengozzi questo lo fa con un pianismo delicato, introspettivo, che fa scavare con i suoni gli animi di chi ascolta, proietta immagini (i titoli sono fili conduttori dai quali si dipana la misura infinita della fantasia), riporta alla mente ricordi vicini o lontani.

Per qualcuno, questo approccio compositivo sarà un modo “furbo” per coinvolgere coloro che si sentono allontanati dai meandri metacomunicativi della musica colta attuale (un approccio che ha preso avvio, almeno nel nostro Paese, con Ludovico Einaudi fino ad arrivare alle controverse e discutibili pagine di Giovanni Allevi), ma per il sottoscritto è un’“altra” proiezione sonora che non va a colpire la mente (ciò è riservato solo a chi andrà a scoprire la sezione aurea nelle opere del musicista astigiano), ma direttamente il cuore dell’ascoltatore.

Più che buona la presa del suono, che restituisce il pianoforte al centro dei diffusori, in uno spazio sonoro leggermente avanzato. La dinamica è efficace, anche se inevitabilmente compressa in fatto di velocità e di naturalezza del timbro. Anche il dettaglio e l’equilibrio tonale non mostrano difetti da comprometterne un valido ascolto da un punto di vista tecnico.

Andrea Bedetti

Fabio Mengozzi – Mistero e poesia

Fabio Mengozzi (pianoforte)

CD Stradivarius STR37094

 

Giudizio artistico 3/5

Giudizio tecnico 4/5