Con il trascorrere del tempo, la celebre affermazione del musicologo francese Jean-Jacques Nattiez, secondo il quale l’elemento rivoluzionario che diede il via all’irruzione della musica contemporanea è da ricercarsi nell’opera di Claude Debussy, assume un contorno sempre più veritiero e profetico. Debussy è la modernità, rappresenta l’applicazione primigenia di un approccio completamente differente alla materia sonora e al suo plasmarsi; Debussy è colui che chiude una porta, quella che dava accesso al pianismo ottocentesco da Beethoven fino all’arcipelago tardoromantico, prima di aprirne un’altra, dalla quale farà il suo ingresso il Novecento con tutti quegli elementi di frattura/rottura rispetto al passato (cosa che farà, sia ben chiaro, anche Johannes Brahms, ma per vie e sentieri del tutto diversi e meno prorompenti, almeno a livello di una percezione immediata di tali mutamenti in atto). E a chiudere quella fatidica porta è il giovane Debussy, quello che matura nel corso dell’ultimo decennio del XIX secolo un modo di fare pianismo nello stesso modo in cui il giovane Nietzsche, nel passare dalla concezione filologica a quella filosofica, si metterà a fare filosofia, come scrisse egli stesso, usando il martello.

E a questo momento particolare della visione artistica e pianistica del giovane Debussy il pianista Matteo Fossi ha dedicato il suo ultimo disco, pubblicato dall’etichetta francese Éditions Hortus, label con la quale ha avviato un percorso di attente e meditate registrazioni formato finora da CD dedicati a Brahms, Schumann e Schubert (vedi intervista con lo stesso Matteo Fossi), concentrandosi su quelle composizioni che vanno dal 1890 (Rêverie, Danse, Ballade, Valse Romantique) fino al 1904 (Masques), passando attraverso la Suite Bergamasque (1890-1895), la Mazurka (1891), il trittico de Pour le piano (1896-1901), D’un cahier d’esquisses ed Estampes (1903). Anni e lavori fondamentali, ineludibili, in un certo senso traumatizzanti per via della ricerca attraverso la quale Debussy obbliga il pianoforte a intraprendere una dimensione espressiva affatto diversa, facendo però attenzione, come si è detto, a chiudere una porta prima di aprirne un’altra, portando a compimento, ossia a dissoluzione, quanto era stato concepito in precedenza. Insomma, quel decennio o poco più per il compositore francese è una sorta di camera stagna all’interno della quale dà vita a un laboratorio in cui la tastiera smette di essere ciò che era stata per divenire qualcosa di altro, di diverso. E le opere prese in esame da Matteo Fossi rappresentano proprio la materia mutevole e cangiante di questo progressivo chiudersi di una porta e all’aprirsi di un’altra, partendo da posizioni addirittura “salottiere” (Rêverie, Danse, Ballade, Valse Romantique) passando a una dimensione timbrica che già prefigura il percorso ultimo dato dai due libri dei Preludes (si pensi alla Sarabande de Pour le piano) fino a quell’autentica frattura traumatica data da D’un cahier d’esquisses, in cui il Novecento di nome e di fatto bussa violentemente a quella porta che sta per essere aperta.

Ora, la lettura che fa Matteo Fossi di questo iter di brani assume il contesto di un poetico e idealizzato sismografo interpretativo attraverso il quale l’artista toscano dipana una linea precisa e attenta, in cui si alternano agglomerati di densità timbrica (Estampes e Masques) ad altri in cui l’impalpabilità microdinamica del ppp (ancora D’un cahier d’esquisses!) assume contorni miracolosamente sfumati (personalmente trovo stucchevole l’annosa allegoria del pianismo debussiano in chiave pittorica, ma è indubbio che la tavolozza timbrica di Fossi assurga a nuances che rimandano necessariamente a dimensioni raffigurative) e in altri ancora in cui l’incedere teneramente solenne che vanta in sé matrici classiche, apollinee (si pensi appunto alla Sarabande) assume sapori emotivamente quasi nostalgici, richiami fugaci di cenni che tendono verso un passato evocato, ma mai compiutamente realizzato. E allora, sulla base di ciò, il pianista toscano riesce a materializzare compiutamente, sull’esiguo cavo di un’interpretazione portata a termine nei panni di un sagace equilibrista, quanto Manuel de Falla disse a proposito del pianismo di Debussy, vale a dire frutto di una verità che non conosce autenticità, di visioni che si materializzano pur non esistendo, di immagini composte unicamente da vibrazioni emotive, pronte a dissolversi placidamente, in modo indolore, con il placarsi timbrico e armonico dello strumento.

La presa del suono, effettuata alla Concert Hall Fazioli di Sacile, vicino a Pordenone, è di ottima fattura e propone una dinamica (e una microdinamica, fondamentale in Debussy) precisa, naturale, con una riproposizione corretta degli armonici. Lo strumento è scolpito al centro dei diffusori, proiettato leggermente in avanti, con un dettaglio capace di rendere molto la fisicità e la matericità dello splendido Fazioli F-278.

Andrea Bedetti

 

Claude Debussy – Le jeune Debussy

Matteo Fossi (pianoforte)

CD Éditions Hortus 152

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 5/5