Una delle caratteristiche più evidenti che contraddistinguono il comporre in Johannes Brahms è che fu un musicista il quale non fece mai il passo più lungo della gamba quando si trattò di affrontare un nuovo genere musicale, soprattutto allorquando non era ancora convinto di essere in grado di plasmare perfettamente la materia sonora, non solo rispetto ai suoi desideri e ai suoi bisogni, ma anche rapportandosi con la grande tradizione data dai maestri del passato. Non per nulla, quando si trattò di affrontare il genere del quartetto per archi e quello della sinfonia, che erano stati fissati e canonizzati in modo mirabile da Beethoven, Brahms lo fece solo in età relativamente avanzata, mentre per altre forme espressive rientranti nell’alveo cameristico, il genio di Amburgo non si fece troppi problemi fin dall’epoca giovanile, come avvenne per i suoi due Sestetti per archi, un genere affrontato raramente dai maestri del passato, come nel caso di Louis Spohr con il Sestetto op. 140 composto nel 1850.
Il primo dei due Sestetti brahmsiani, quello in si bemolle maggiore op. 18, rappresenta, con il Trio op. 8, il primo grande capolavoro per ciò che riguarda il catalogo cameristico del compositore amburghese, un’opera composta tra il 1858 e il 1860, grazie alla quale dimostrò di essere già conscio dei suoi mezzi espressivi. Solitamente, la difficoltà maggiore insita in un sestetto risiede nell’accoppiamento dei sei strumenti, formati da due violini, due viole e due violoncelli, con il rischio di concepire una struttura in modo monocromatico; al contrario, Brahms nel Sestetto n. 1 riuscì a plasmare armonicamente gli strumenti attraverso una serie di sagaci combinazioni, con tre gruppi di due strumenti o due da tre, senza contare la brillante scelta di arricchire il flusso musicale con passaggi contrappuntistici a sei parti reali e, nel versante timbrico, a raddoppi del violino con il violoncello, creando così effetti di spessore quasi orchestrali. Da quest’ultimo punto di vista, non bisogna dimenticare che il Sestetto n. 1 rappresentò a tutti gli effetti per il giovane Brahms una tappa d’avvicinamento alla Sinfonia, questo per le ampie dimensioni (l’opera sfiora i quaranta minuti di durata) e per la straordinaria densità armonica della quale è permeata. Ciò però non significa che il Sestetto in si bemolle sia già proiettato in una dimensione e in un respiro sinfonici, poiché il tutto è vincolato in un’aura di grande misura e perfetto rapporto timbrico, con i sei strumenti che non vogliono sognare in grande, ma che restano ancorati a una connotazione squisitamente cameristica, non solo nell’approccio, ma anche nelle finalità tali da colpire l’amico (ma anche severo censore alla bisogna) Josef Joachim, il quale si mostrò entusiasta al punto di presentare il Sestetto a Hannover il 20 ottobre 1860 e, poco dopo, a Lipsia e Amburgo, riscuotendo sempre un grande successo. Anche Brahms considerò questa sua pagina tra le migliori che avesse composto, come ricordò ancora poco prima di morire, poiché attraverso di essa diede inizio a quell’operazione di recupero della grande tradizione classica, presa a insostituibile modello per tutta la sua opera musicale.
Il Sestetto n. 2 in sol maggiore op. 36 venne iniziato da Brahms nell’estate del 1864 a Baden-Baden e ultimato nell’inverno successivo a Vienna, per essere eseguito la prima volta a New York, anche se il debutto “ufficiale” ebbe luogo nella capitale austriaca il 3 febbraio 1867. La biografia del genio di Amburgo ci spiega che in questa composizione si annidano gli strascichi e i riflessi di una vicenda che lasciò una traccia indelebile nell’animo e nella vita dell’autore. Nell’estate del 1858, durante un soggiorno a Göttingen, Brahms conobbe la giovane Agathe von Siebold e se ne innamorò perdutamente, al punto che all’inizio dell’anno seguente tra i due si parlò apertamente di matrimonio, giungendo perfino all’impegnativo scambio degli anelli. Ma il tanto agognato matrimonio non si realizzò mai, poiché il musicista amburghese, probabilmente spaventato dall’idea di un’unione stabile e duratura, lasciò precipitosamente Göttingen, per poi vivere nel rimpianto al pensiero di quanto avrebbe potuto essere e non fu. Così, durante la stesura del Sestetto n. 2, il compositore tedesco volle inserirvi un omaggio alla giovane donna da lui abbandonata; come spesso è capitato grazie alla notazione musicale anglosassone e germanica che si basa sulle lettere dell’alfabeto, Brahms inserì nel primo tempo un motivo che utilizza proprio le lettere del nome AGATHE (ossia La-Sol-La-Si-Mi, con la lettera T che, come si sa, non corrisponde ad alcuna nota). Rispetto ai toni elegiaci del Sestetto n. 1, il secondo appare più denso, più profondo nelle analisi e nelle soluzioni armoniche grazie alle quali qui la musica brahmsiana raggiunge autentici vertici di lirismo e di magia timbrica, che si riscontrano soprattutto nei tempi opposti, pur non raggiungendo l’ampiezza e la monumentalità espressiva del Sestetto in si bemolle.
Questi due Sestetti sono stati registrati per NovAntiqua Records dal Sestetto Stradivari, composto da elementi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia; la loro lettura pur non discordandosi da un’impostazione classica, nel puro senso brahmsiano del termine, non è immune da interessanti peculiarità stilistiche. La prima da evidenziare riguarda un’aura nostalgica che impregna entrambi i Sestetti, come a voler inserire nell’impianto di questi capolavori il lavorio incessante del tempo, la sua azione corrosiva e annichilente, che si deposita sulle cose e sulle persone come un velo di polvere. Da qui una resa timbrica ed espressiva che rifiuta l’apollineo in sé, ma trascende verso nuovi orizzonti, in cui il senso del ricordo, della rimembranza fanno presagire ciò che sarà il secondo Brahms, quello più maturo e amareggiato, vinto dal peso del passato. Questa particolare aura, che non abbandona nemmeno il trascinante Scherzo del Sestetto n. 2, fa da volano a una dimensione sonora nella quale i sei componenti del gruppo cameristico (David Romano e Marlène Prodigo ai violini, Raffaele Mallozzi e David Bursack alle viole, Diego Romano e Sara Gentile ai violoncelli) concorrono a raffigurare un quadro sonoro nel quale il richiamo della tradizione, pur non cedendo il campo alla “modernità” tout court, deve sempre fare incessantemente i conti con l’implacabile e geniale apporto dato dalla composizione brahmsiana (a tale proposito, risultano illuminanti le note di accompagnamento curate da Sergio Prodigo), attraverso la quale si aprono degli improvvisi squarci innovativi che proiettano l’ascoltatore a sondare il terreno del futuro (ancora una volta, sarà proprio Arnold Schönberg a coglierlo perfettamente), dando così vita a un suono che è melodiosamente geometrico nel celeberrimo Andante ma moderato del Sestetto n. 1, così come teneramente spettrale, quasi presago di connotazioni espressionistiche, nell’Adagio del Sestetto n. 2.
La coesione, la forza compatta degli attacchi, la lucida visione di insieme, che si estrinseca magnificamente nei frangenti contrappuntistici, rendono così questa incisione un possibile punto di riferimento per ciò che riguarda la discografia di questi due capolavori in questi ultimi anni.
Un plauso va anche a Igor Fiorini & Daniele Zazza per la cattura del suono, contraddistinta da una dinamica piena, articolata, dotata di energia e di dolcezza (vedasi capitolo microdinamica), grazie alla quale i sei strumenti ad arco sono ricostruiti perfettamente nello spazio del palcoscenico sonoro; l’equilibrio tonale è fedele e non ammette sbavature o invasioni timbriche tali da sovrastare i registri degli strumenti, così come il parametro del dettaglio, capace di restituire una notevole fisicità ai violini, alle viole e ai violoncelli, per via delle abbondanti dosi di nero nei quali sono avvolti.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – String Sextets op. 18 & op. 36
Sestetto Stradivari dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
2CD NovAntiqua Records NA26
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5