A volte la musica concepita da un artista non lascia trasparire l’amarezza, l’infelicità, la disperazione con le quali dovette fare i conti venendo alla luce; questo perché a volte la scienza dei suoni ha la capacità di offuscare i reali sentimenti e i profondi pensieri che l’hanno condita nell’atto della sua creazione, camuffando alle orecchie dell’ascoltatore le reali dimensioni interiori e intellettive del musicista. In ciò nessuno come Mozart (forse il solo Šostakovič riuscì a eguagliarlo) fu in grado di celare dietro la sua musica tutto il dolore, il mare di incomprensione e di privazioni che dovette affrontare per poter sopravvivere, soprattutto negli ultimi anni della vita nella capitale austriaca. E un’opera cardine della letteratura cameristica come il Quintetto per clarinetto e quartetto d’archi K. 581 ne rappresenta una perfetta e commovente testimonianza.
Questo quintetto fu ultimato alla fine di settembre del 1789, in un periodo di terribili difficoltà economiche per Mozart, testimoniate dalle diverse lettere e suppliche che il compositore salisburghese inviò in quell’anno ad amici, conoscenti e mecenati affinché potessero aiutarlo. Tra coloro ai quali Mozart spedì queste missive ci fu il ricco commerciante tessile e amico Johann Michael von Puchberg, il quale non rimase insensibile di fronte a queste richieste di aiuto, garantendo somme di denaro che permisero al musicista di andare avanti, soprattutto quando la moglie Costanze fu ricoverata in ospedale a causa di un’infezione a un piede, con Mozart costretto ad affrontare il costo delle ingenti spese mediche e a sfamare i figli, poiché nessuno gli commissionava più opere e con gli editori musicali che non si mostravano interessati alle sue partiture.
Eppure, ascoltando il Quintetto K. 581 (conosciuto anche con l’appellativo di Stadler-Quintett, in quanto scritto per il clarinettista Anton Stadler, grande virtuoso di questo strumento), non vi traspare alcuna stilla di tristezza e disperazione; semmai, questo capolavoro cameristico rappresenta un meraviglioso elogio, pacato, luminoso, sereno, del clarinetto e delle sue possibili estensioni tecniche e timbriche, capaci di coniugarsi alla perfezione con l’eloquio e l’espressività dei quattro strumenti ad arco, dando vita a un’indimenticabile pagina di apollinea bellezza, la quale chiude tutta la produzione mozartiana nel genere dei quartetti e quintetti per strumento a fiato.
Quello del genio salisburghese fu un amore tardivo con questo strumento, sebbene lo avesse scoperto ad appena otto anni, durante il lungo viaggio che fece in Inghilterra con il padre Leopold. A quell’epoca, il clarinetto era ancora uno strumento di fresca invenzione e faceva fatica a trovare una sua precisa e stabile dimensione orchestrale, cosa che avvenne solo oltre un decennio più tardi, quando le sperimentazioni timbriche portate avanti dall’orchestra di Mannheim ebbero modo di inserirlo nei fiati, esaltando il suo particolarissimo timbro. Così, fu solo nel corso dei suoi ultimi due anni di vita che Mozart concepì delle pagine che videro il clarinetto al centro di un ruolo solistico, grazie alla conoscenza di quello straordinario virtuoso che fu Anton Stadler (anche quella musicale è una storia fatta di ricorsi, visto che quasi un secolo dopo la stessa cosa avvenne con Johannes Brahms, quando conobbe il grande clarinettista Richard von Mühlfeld, per il quale compose il Trio op. 114 e il Quintetto op. 115), il quale illustrò al genio salisburghese le straordinarie capacità espressive dello strumento, anche se il clarinettista austriaco preferiva esibirsi con il clarinetto di bassetto, il quale differiva dal clarinetto per una maggiore estensione nel registro grave. Mozart, affascinato dalle potenzialità dello strumento, scrisse per Stadler non solo il Quintetto K. 581, ma anche il Trio in mi bemolle maggiore K. 498 (detto Trio dei birilli) e il celeberrimo Concerto K. 622, oltre ai passaggi concertanti di due arie de La clemenza di Tito (Parto ma tu ben mio, che viene cantata da Sesto, e Non più di fiori da Vitellia, anche se a dire il vero quest’ultima fu concepita per corno di bassetto, strumento affine allo stesso clarinetto).
Se si ascoltano i coevi Quintetti per archi che Mozart scrisse in quello stesso periodo (quelli che vanno dal 1787 fino al 1791, culminanti con il Quintetto n. 5 in re maggiore K. 593 e il Quintetto n. 6 in mi bemolle maggiore K. 614) non si può non ammettere la loro complessità elaborativa ed espressiva, che armonicamente è proibitiva da raggiungere con la presenza di uno strumento a fiato, come infatti accade con la Stadler-Quintett, dove i due violini, la viola e il violoncello operano autonomamente come un quartetto per archi o in funzione di sostegno e di mirabile accompagnamento al clarinetto e non certo per imbastire con esso elaborati confronti timbrici e melodici. Ciò che conta è, come si è già accennato, lo straordinario eloquio che il genio salisburghese ottiene dallo strumento a fiato, esaltando la sua dolce sensualità, mirando alla notevolissima estensione che riesce a esprimere, evidenziando una raffinatezza melodica che ha pochi riscontri nella letteratura cameristica.
Questo capolavoro è stato recentemente registrato per l’etichetta Da Vinci Classics da uno dei maggiori giovani clarinettisti italiani, Domenico Calia, con il Quartetto d’Archi di Milano, composto da Fulvio Liviabella e Igor Della Corte ai violini, G. Roberto Mazzoni alla viola e Giuseppe Laffranchini al violoncello, unitamente a un’altra pietra miliare della musica cameristica, il Quintetto per clarinetto e archi in si bemolle maggiore op. 34 di Carl Maria von Weber, con il clarinettista siciliano accompagnato dal Quartetto Liberty, formato da Michela Pastafiglia e Gianfranco Messina ai violini, Elena Ianina Puscasu alla viola e Luca Russo Rossi al violoncello.
Se lo Stadler-Quintett nacque nel corso di uno dei periodi più infelici della vita di Mozart, anche quello di Weber fu il frutto di un momento assai difficile affrontato dal compositore tedesco, visto che all’inizio del 1810, dopo essere stato incarcerato per qualche settimana per debiti, l’autore di Der Freischütz fu scortato dalla polizia fino alla frontiera dello Stato del Württemberg con l’obbligo di non rimetterci mai più piede. Così, Weber si stabilì dapprima a Heidelberg e poi a Darmstadt, dove fece amicizia con alcuni musicisti, tra cui, durante un suo soggiorno a Monaco di Baviera a metà marzo 1811, con Heinrich Joseph Baermann, un virtuoso del clarinetto le cui capacità espressive e tecniche affascinarono il compositore tedesco al punto da spingerlo a scrivere appositamente per il clarinettista sei opere: un concertino, due concerti, una serie di variazioni con l’accompagnamento del pianoforte, il Grand Duo Concertante, sempre per clarinetto e pianoforte, e il Quintetto in si bemolle maggiore.
Iniziato nel 1811 e concluso quattro anni più tardi, questo Quintetto si contraddistingue per il fatto di vantare maggiormente una struttura concertistica piuttosto che cameristica, un’impostazione tipica per un compositore come Weber votato alla musica operistica, in grado di dare vita a efficaci e articolate melodie votate a suscitare emozioni e a creare effetti drammatici. Per ottenere questo risultato il compositore germanico impiegò il clarinetto e le sue caratteristiche timbriche non tanto per esaltare il virtuosismo del solista (come accade invece nel mozartiano Stadler-Quintett), ma per elaborare una ricca e complessa tessitura sulla quale si appoggia e fornisce il suo contributo anche il quartetto degli archi. Bisogna ricordare che poco prima di conoscere Weber, Baermann prese possesso di un clarinetto a dieci tasti Griessling & Schlott che apriva nuove possibilità tecniche allo strumento, come per l’appunto avvenne con il Quintetto in si bemolle maggiore, come si può notare soprattutto nel primo tempo, Allegro, in cui le note acute si uniscono a quelle del registro grave con maggiore facilità grazie all’innovativa meccanica, così come l’elaborazione delle scale cromatiche. Anche il tempo lento, Fantasia, comprende due passaggi in cui il clarinetto si innalza su una lunga scala cromatica, ripetuta pianissimo prima di riprendere la raffinata melodia di stampo squisitamente operistico, così come nel Menuetto l’interprete riesce a gestire agevolmente le diteggiature che prima dell’avvento del nuovo strumento avrebbero potuto essere a dir poco ostiche.
Mi piace pensare che Domenico Calia abbia voluto presentare questi due capolavori considerandoli altrettanti opposti estremismi, destinati a toccarsi e a unirsi in un’ideale prosecuzione formale nell’ottica evolutiva del clarinetto; se lo Stadler-Quintett vede lo strumento solista in un ruolo apertamente accentratore in cui il peso dell’elaborazione e dello sviluppo virtuosistico pende a suo favore, nel Quintetto weberiano l’amalgama strumentale (si noti come il clarinetto sia prossimo alla dimensione vocale di ambito operistico e in grado, quindi, di comunicare e di colloquiare con gli archi, con questi ultimi strutturati come un’orchestra, come si può evincere nel Rondò finale) risulta essere strutturalmente più equilibrata, maggiormente calibrata timbricamente.
Proprio partendo da quest’ottica si pone la lettura fatta dal giovane clarinettista siciliano; se la pagina weberiana viene così cantata, con il clarinetto che mostra una voce capace di esprimere una serie di arie perfettamente incastonate nella tessitura generale dell’opera, nel capolavoro mozartiano lo strumento assurge a una posizione dominante senza però essere allo stesso tempo pervicace. È un fattore di sensibilità esecutiva, che Domenico Calia dimostra di possedere, dando così adito a due volti del clarinetto, dominatore assoluto e strumento capace di evidenziare anche equilibrio, disponibilità al dialogo, veicolo allo stesso tempo virtuosistico e comunicatore.
Certo, non sfugge a un ascolto attento come il clarinettista siciliano abbia voluto instillare nella pagina mozartiana una sfumatura teneramente malinconica, una fuggevole ombra che accompagna il sentiero luminoso nel corso di tutta la composizione, memore di quanto dolore, di quanta disperazione siano forieri in questo Quintetto. Per ciò che riguarda i due quartetti appare tecnicamente più convincente il Quartetto d’Archi di Milano, sempre preciso, capace di esprimere un suono che si coniuga idealmente con il timbro del clarinetto, mentre il Quartetto Liberty, pur garantendo un’esecuzione valida, timbricamente non appare allo stesso livello, soprattutto alla luce di come gli archi, nella composizione weberiana, debbano essere altrettanto risoluti e assertivi per poter donare maggior equilibrio e spessore a tutta la composizione.
Patrick Pecchennini si è occupato della presa del suono, con un risultato finale più che accettabile, tenuto conto che timbricamente e spazialmente il clarinetto è uno strumento che in sede di registrazione è alquanto invasivo e prevaricante nei confronti degli archi. La dinamica è sufficientemente veloce e garantisce un’energia espressiva capace di esaltare lo strumento solista, anche se a livello di palcoscenico sonoro la ricostruzione sonora degli archi risulta essere leggermente troppo arretrata rispetto al clarinetto. Di buona fattura anche il dettaglio, capace di mettere a fuoco adeguatamente la matericità degli strumenti.
Andrea Bedetti
Wolfgang Amadeus Mozart-Carl Maria von Weber – Clarinet Quintets
Domenico Calia (clarinetto) – Quartetto d’Archi di Milano – Quartetto Liberty
CD Da Vinci Classics C00142
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5