Non è certo un mistero che il panorama della musica della nostra Italietta nel corso dell’Ottocento sia stata purtroppo catalizzata dalla melma melodrammatica, dal divertimento assicurato dai palcoscenici teatrali a scapito, purtroppo, di quella strumentale, la quale invece fu continuamente e sanguinosamente sacrificata sull’altare delle trame operistiche rossiniane, belliniane, donizettiane e verdiani (e chi più ne ha, più ne metta). È uno scotto, questo, che ci portiamo ancora addosso e me ne frego altamente se qualche o più “vociomani” ne risulteranno irritati od offesi, ma è indubbio che se siamo ancora (giustamente) considerati il popolo dedito alla melodia da mandolino, al “bel canto”, alle romanze, alle arie da palcoscenico o da salotto (già, dimenticavo il caro, buon e insopportabile Tosti) è perché il DNA musicale che abbiamo dentro non può essere di certo sradicato da quanto poi fatto, o cercato di fare, nel corso del Novecento. Tali siamo e tali rimaniamo.
Ma è pur vero che qualche mosca bianca nel corso del secolo imbevuto di retorica vocale ci è stata, anche se poi dalla lavagna della storia e del ricordo i loro nomi sono stati prontamente cancellati e restituiti alla pattumiera dell’oblio. A rigor di logica e di onestà intellettuale qualcuno, a dire il vero, è sopravvissuto fino a noi, sinfonisti come Mercadante, Faccio, Pedrotti e Foroni, cameristi quali Pacini, Bazzini e Croff, oltre a pianisti “internazionalisti” come Sgambati e Martucci, ai quali aggiungo, per amor di carità, quel genio di Caetani, anche se con lui già sforiamo, e di brutto, nel secolo scorso. Per quanto riguarda quest’ultima categoria, dobbiamo ora aggiungere un’altra mosca bianca, anch’essa cancellata dall’anagrafe storica della musica strumentale italica, il piemontese Giuseppe Unia, il quale, semmai, viene ricordato solo se si va a spulciare la storia della famiglia Savoia e il suo excursus pre e post periodo dell’Unità, in quanto il pianista nato in quel di Dogliani nel 1818 e morto, sembra, in quel di Recanati nel 1871, ma anche il luogo e la data stessa della morte non sono certi (e questo fa capire come il suo nome sia stato cancellato con indubbia efficacia dai posteri), fu per diverso tempo pianista e compositore di corte, come pomposamente venivano definiti i nostrani Hofmeister. E se il nome di Unia è stato recentemente rigurgitato, lo dobbiamo grazie a due pianisti e musicologi italiani, Massimiliano Génot e Andrea Vigna-Taglianti, che per l’etichetta discografica Tactus hanno registrato in prima assoluta mondiale dodici brani per pianoforte del nostro, estrapolandoli da un catalogo che vanta oltre duecento numeri, la stragrande maggioranza dei quali appartengono proprio al repertorio pianistico.
Da quanto si apprende dalle ricche note di accompagnamento al disco, redatte dai due pianisti e studiosi (tra l’altro, Vigna-Taglianti è anche l’autore di un saggio su Giuseppe Unia pubblicato nel 2011 dal Centro Studi Piemontesi), si può inscrivere il nome del pianista e compositore di corte nella cerchia dei cosiddetti “internazionalisti”, nel senso che Unia non può essere di certo essere tacciato di provincialismo, senza aver mai messo il naso fuori dalle Alpi, visto che trascorse un periodo considerevole della sua vita, soprattutto in età giovanile, facendo un debito apprendistato in altri Paesi, soprattutto quelli di area germanica (ossia la culla della musica strumentale), oltre ad andare a sciacquare i panni compositivi in acque francesi. Questi soggiorni permisero al compositore piemontese di entrare in contatto con valenti rappresentanti della musica europea del tempo, a cominciare da Johann Nepomuk Hummel, il quale fu allievo di Mozart e Haydn, nonché amico di Beethoven e Schubert, con cui studiò durante la sua permanenza a Vienna, oltre a fregiarsi dell’amicizia con Sigismond Thalberg.
A proposito di Schubert, Unia rimase letteralmente folgorato, quando lesse le partiture del grande viennese e ne ascoltò alcune composizioni pianistiche, cosa che avvenne probabilmente nella stessa capitale austriaca, al punto da considerarlo poi il modello assoluto al quale rifarsi. Ora, sia ben chiaro, il fatto che nel titolo di questo scritto abbia voluto considerare il compositore lo “Schubert italiano”, non significa che la produzione pianistica di Unia sia pari o simile a quella schubertiana (se proprio dobbiamo affermare le cose come stanno, il musicista piemontese non vale l’unghia del minimus predi sinistro del viennese), ma vuole semplicemente spiegare allegoricamente che il compositore di Dogliani fu tra i pochi nella nostra Italietta dell’epoca a rendere merito e ad ammirare la produzione del sommo artista, facendo sì che in alcune sue opere vi siano impresse fuggevoli o meno rimembranze stilistiche (e il che ci fa comprendere la situazione di assoluta povertà musicale, almeno per ciò che riguarda la sfera strumentale, nella quale versava un Paese impregnato di retorica operistica e ancora alle prese con la propria indipendenza).
Un altro spunto d’interesse, e non solo biografico, è quello che riguarda la parentela acquisita che Unia ebbe con la famiglia Leopardi di Recanati, e quindi con lo stesso, immenso poeta Giacomo (anche se o lo conobbe mai di persona); ciò avvenne attraverso il suo matrimonio, avvenuto nel 1844, con la pianista Angela Teja, la quale ebbe una sorella, Teresa che, dopo la morte del marito, divenne l’istitutrice dei figli del conte Antonio Carradori de’ Flamini, trascorrendo lunghi periodi a Recanati, luogo del quale la nobile famiglia era originaria. Fu proprio durante uno di questi soggiorni che Teresa conobbe Carlo e Paolina Leopardi, fratello e sorella di Giacomo. In breve tra Teresa e Carlo sbocciò un idillio che culminò nel matrimonio, celebrato nel 1858. Al di là di questa curiosità parentale, resta il fatto che anche Unia, come il sommo poeta e filosofo recanatese, fu affascinato dalle speculazioni intorno al concetto della morte (cosa invero assai rara nella cultura non solo musicale nell’Italia del tempo), come si può evincere da una delle sue più rilevanti composizioni pianistiche, quella Marcia funebre inclusa nel disco in questione, oltre a vantare delle assonanze d’immagini tra la sua musica e l’opera poetica leopardiana (il brano pianistico La cloche du village, presente anch’esso nella registrazione della Tactus, fin dai versi in apertura dello spartito sembra alludere alle atmosfere de Il sabato del villaggio).
Concentrandoci sui dodici brani presenti nel disco, con Génot e Vigna-Taglianti che si sono suddivisi equamente la loro esecuzione, alcuni risultano indubbiamente interessanti, altri offrono spunti di attenzione e, infine, altri ancora rientrano nella pacata stucchevolezza della musica strumentale italica, ammorbata inevitabilmente dagli immancabili richiami del repertorio operistico nostrano. Cominciamo dai primi; i richiami di una musica che può essere avvicinata alla tradizione pianistica dell’epoca, soprattutto quella in chiave tedesca e austriaca (a cominciare dal venerato Schubert) possono essere colti in brani come Notturno patetico e Pensiero fuggitivo, i cui titoli già li investono di uno spessore compositivo nel quale si annidano speculazioni “leopardiane” o quantomeno tali da offrire piani di spessore metafisico. Lo stesso si può affermare per la già citata Marcia funebre, dedicata a Carlo Leopardi, e anche per una pagina dal sapore lisztiano, almeno a livello di immagine ma non nella sua struttura musicale, ossia la Passeggiata sul lago d’Orta, e lo stesso può valere, per lo sviluppo tematico e per l’impianto di costruzione formale, per la Barcarolle Célébre, nata sulle rimembranze de Der Freischütz di Weber. Poi, ci sono le pagine cosiddette salottiere, a cominciare da Lovely, Redowa Capricieuse, dedicata alla cagnolina di razza Breton appartenuta a Paolina Leopardi, e il Divertimento brillante sull’opera Marta di Flotow, in omaggio alla contessa Teresa Leopardi, che immergono l’ascoltatore già nelle dimensioni future del crepuscolarismo gozzaniano (non siamo a livello di Nonna Felicita, ma poco ci manca), utili per comprendere, a livello sociologico, il milieu nel quale Giuseppe Una si mosse, ulteriormente rinfocolato dalle frequentazioni ufficiali presso la famiglia Savoia (la regina Margherita fu una sua allieva).
Non potevano mancare, come già accennato, le sirene del richiamo operistico, dato da pagine come Le Diable Boiteux-Gran galop diabolique pour piano, la cui ascendenza rossiniana appare a dir poco scontata (Unia probabilmente, durante il suo soggiorno parigino, ebbe modo d’incontrarsi con il pesarese), e richiami diretti in pagine come la Grande Fantaisie pour piano seul sur des motifs de l’Ernani de Verdi e Casta Diva Norma (a dire il vero, lo sviluppo delle variazioni che si dipanano nella seconda parte di quest’ultimo brano non sono per nulla disprezzabili), tali da suscitare l’entusiasmo e gli squittii delle dame di società (a tale proposito, si ascolti Il Vessillo d’amore Valzer).
Ma di fronte a queste debolezze, almeno per le nostre orecchie a posteriori, a queste ovvietà, a queste ingenue banalità (ma questa era ciò che dispensava l’Italia dell’epoca, prendere o lasciare), se alla fine degli oltre settanta minuti di musica si riesce ad arrivare senza lasciarsi prendere dallo sconforto, lo si deve grazie alla lettura fatta da parte di Massimiliano Génot e di Andrea Vigna-Taglianti, i quali sono riusciti a infondere in questi brani una verve, una ragione d’essere che esula da ciò che esprimono per andare a sfondare la barriera del documento storico che ha sempre la sua validità e il suo interesse. Ecco, se consideriamo questo progetto discografico sotto tale luce, i due pianisti e musicologi riescono a trasmettere pienamente il ritratto di un’epoca, e non solo in chiave musicale, ma anche culturale, storica e sociale che merita di essere conosciuta e vagliata. Le loro esecuzioni, anche di fronte a momenti di palese debolezza compositiva, sono sempre all’insegna della brillantezza, della piena comunicazione, quella che Unia immette a piene mani per entrare in sintonia con il bel mondo della società nobiliare e nelle stanze delle dimore dei Savoia, così come riescono a imprimere nelle orecchie e negli occhi degli ascoltatori le indubbie profondità presenti nelle pagine “schubertiane” e in quelle in cui la volontà di scrittura riesce ad andare oltre le semplici necessità contingenti date dai suoi incarichi istituzionali o salottieri.
Piergiorgio Miotto si è occupato della presa del suono, con un risultato complessivamente positivo; l’energica corposità della dinamica riesce a trasmettere in modo soddisfacente l’ottima timbrica dello strumento, mentre il palcoscenico sonoro ricostruisce il pianoforte in una piacevole e naturale profondità, scolpendolo al centro dei diffusori. L’equilibrio tonale e il dettaglio non sono da meno: il primo risulta essere corretto nella riproposizione dei registri, che sono sempre debitamente scontornati e messi a fuoco, mentre il secondo focalizza il pianoforte, infondendo una buona matericità.
Andrea Bedetti
Giuseppe Unia – Opere per pianoforte
Massimiliano Génot & Andrea Vigna-Taglianti (pianoforte)
CD Tactus TC 812101
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5