Ammirato da immortali come Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Händel e Johann Adolf Hasse, considerato all’epoca uno dei più grandi compositori della seconda metà del Seicento, prosecutore della grande scuola musicale veneziana e nominato, quarant’anni dopo un sommo quale fu Claudio Monteverdi, maestro di cappella della Basilica di San Marco, oggi Giovanni Legrenzi è purtroppo solo uno dei tanti nomi che affollano le storie della musica, un buon artigiano dei suoni, da “ricordare” per la sua produzione artistica, come quella di altri colleghi italici del tempo, da Gregorio Allegri ad Adriano Banchieri, da Tarquinio Merula a Michelangelo Rossi, passando per Gioseffo Guami, Giovanni Bassano, Biagio Marini, Girolamo Diruta, Marco Uccellini, Bernardo Pasquini, solo per citare alcuni delle decine e decine di depositari di mirabili composizioni, la stragrande maggioranza dei quali sono ingiustamente finiti, nel corso dei secoli, nelle pastoie del dimenticatoio temporale.
Nato nel 1626 a Clusone, in provincia di Bergamo, all’epoca facente parte dei territori della Serenissima (se vi capita di visitare questo incantevole centro della Valle Seriana, e questo vale non solo per gli appassionati d’arte, andate ad ammirare il prodigioso affresco del Trionfo e danza della morte del pittore locale Giacomo Borlone de Buschis, che si trova sulla facciata dell’Oratorio dei Disciplini, uno dei capolavori assoluti del primo Rinascimento, creato tra il 1484 e il 1485), Legrenzi, grazie alle spiccate doti dimostrate per l’arte dei suoni, fu avviato a rigorosi studi musicali fatti con personaggi quali Benedetto Fontana, eccelso organista presso la Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo, e il maestro di cappella Giovanni Battista Crivelli. Com’era consuetudine dell’epoca, per conciliare la creazione artistica con le implacabili leggi invocate dallo stomaco, Legrenzi, dopo essere stato dapprima organista nella stessa Basilica di Santa Maria Maggiore, fu nominato maestro di cappella all’Accademia dello Spirito Santo a Ferrara, posto che occupò fino al 1665. Ma per un musicista del tempo, prima o poi, la città estense poteva rappresentare un ponte, un trampolino di lancio per cercare fortuna in quella che era la città musicale per eccellenza e per trovare posto nella scuola delle scuole, ossia Venezia, fulcro di un linguaggio musicale che equivaleva all’ipse dixit di aristotelica memoria.
Nella capitale della Serenissima, scelta che cadde anche per via del fatto che Legrenzi aveva tentato invano di trovare un impiego presso la corte degli Asburgo a Vienna, a quella parmense dei Farnese e di Luigi XIV a Parigi, così come al Duomo di Milano e a San Petronio a Bologna, altri centri musicali laboriosi della prima metà del Seicento, il musicista bergamasco ebbe un posto come insegnante dapprima all’Ospedale dei Derelitti e poi a quello dei Mendicanti. Nel 1676, cercò inutilmente di succedere a Francesco Cavalli (altro nume tutelare della musica) al posto di maestro di cappella a San Marco, in quanto la scelta cadde sul vicemaestro della cappella stessa, Natale Monferrato. Alla luce del detto che la montagna non può andare da Maometto, ma è quest’ultimo che deve andare alla montagna, Legrenzi nel gennaio del 1681 divenne vicemaestro di Monferrato per poi pazientemente attendere la morte di quest’ultimo, avvenuta nell’aprile di quattro anni più tardi, per divenire finalmente maestro di cappella della basilica marciana, posto occupato fino alla sua morte, avvenuta a sessantaquattro anni nel maggio 1690.
Nel corso della sua attività di musicista, Legrenzi fu autore di un cospicuo numero di opere che andarono a infoltire i generi dell’oratorio, del dramma lirico (questi ultimi concentrati soprattutto durante il periodo veneziano, scrivendo lavori per il Teatro San Salvatore e il Teatro San Giovanni Grisostomo) e quello della musica sacra, in cui confluiscono i suoi risultati migliori, anche se la maggior parte di essi sono rimasti per secoli lettera morta, confinati nelle stampe dell’epoca e conservati in biblioteche e archivi. Quindi, è stato solo nel corso degli ultimi decenni che per opera e merito di specialisti lungimiranti (soprattutto Riccardo Favero) è stato possibile tirare fuori dalla polvere e dalla muffa partiture, stampe, opere legrenziane, le quali hanno tutti i sacrosanti diritti di essere registrate, apprezzate e ammirate da coloro che fanno ancora dell’ascolto motivo di arricchimento e di dovuta riflessione e non esclusivo, sollazzante passatempo.
Alla concisa lista dei benemeriti si va ora ad aggiungere il nome del milanese acquisito musicologo, direttore e docente Giovanni Acciai, la cui instancabile e dotta opera di interpretazione e registrazione discografica di sommi compositori quali Monteverdi, Palestrina e Buxtehude si somma a quella, ancor più importante e meritoria, di (ri)scoperta di autori finiti nel setaccio del dimenticatoio sopra menzionato, quali, tanto per dirne solo alcuni, Gian Giacomo Arrigoni, Lodovico Grossi da Viadana, Giovanni Contino, Giacomo Moro, Isabella Leonarda, oltre ad aver registrato, in prima assoluta mondiale, quel gioiello rappresentato dai Responsoria di Leonardo Leo. E ora, per l’appunto, la sua ultimissima fatica discografica si è fissata su un altro capolavoro mai inciso prima, le Compiete con le lettanie et antifone della Beata Vergine a 5 op. 7 di Giovanni Legrenzi, pubblicato dall’etichetta Naxos, con i fedeli componenti della Nova Ars Cantandi e con Ivana Valotti all’organo.
La Compieta (in latino il termine è Completorium) nell’ambito liturgico rappresenta l’ultima ora canonica dell’Officium, ossia l’antica suddivisione della giornata sviluppata nella Chiesa cattolica per la preghiera in comune, introdotta da San Benedetto. La Compieta, nella forma canonizzata dalla Chiesa, si componeva di due parti; la prima, l’Officium capituli, comprendeva la cosiddetta “lectio brevis” Frates: Sobrii estote (testo tratto dalla Prima lettera di Pietro), il Confiteor e l’assoluzione; la seconda, l’Officium chori, comprendeva tre salmi con antifona, l’inno Te lucis ante terminum, il “capitulum” Tu autem(tratto dal libro di Geremia), il “responsorium” breve In manus tuas e il versetto Custodi nos, il “canticum Simeonis” Nunc dimittis (tratto dal Vangelo di Luca) con l’antifona Salva nos, l’orazione Visita quae sumus, la benedizione finale e una delle quattro antifone mariane.
Legrenzi compose queste Compiete durante la sua permanenza a Ferrara, per compiacere il suo protettore, il marchese Ippolito Bentivoglio, e per ingraziarsi l’establishment ecclesiastico. E per farlo, come scrive giustamente lo stesso Acciai nelle note di accompagnamento, scelse un ambito liturgico che veniva raramente preso in considerazione dalla musica, a differenza della Messa e del Vespro. Il musicista di Clusone prese quindi il materiale della Compieta, la dimensione emotiva del suo testo, ricco di prefigurazioni simboliche, oserei dire escatologiche, plasmandolo sulle concezioni squisitamente monteverdiane della seconda prattica, vale a dire mettendo a disposizione la musica per esaltare il potere e la forza proiettante della parola, da intendere, naturalmente, come verbo. Non dimentichiamo un paletto del quale bisogna tenere assolutamente conto: quando Legrenzi compose quest’opera, ossia nel 1662, aveva trentasei anni ed era all’inizio della sua attività di compositore, vale a dire relativamente giovane per scrivere musica, rispetto ai dettami del tempo, e conscio di affrontare una sfida creativa alquanto impervia.
Un corretto e indispensabile approccio all’ascolto di un’opera simile non può e non deve derogare da una precisa osservazione: se il Seicento e il Settecento accomunarono il suono all’immagine, l’Ottocento accomunò alla musica la parola letteraria, mentre il Novecento, secolo totalizzante sotto vari punti di vista, accomunò il suono/rumore al tutto. Quindi, ascoltare le Compiete legrenziane significa fare un incessante ricorso alla forza dell’immagine pittorica (la citazione dell’affresco dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone, quindi, ha una sua valenza), poiché si tratta di un’espressione sonora dotata di un’incontestabile tridimensionalità spaziale, di una profondità il cui manifestarsi non si cela solo dietro a una dimensione spirituale, ma anche e soprattutto fisica. L’uomo barocco pensava e immaginava attraverso il mistero dello spazio, mediante il suo potere ricettivo, con figure, azioni e gesti che si muovevano all’interno di tale “spazio”.
Cosa che fa per l’appunto Legrenzi quando immagina con il potere dei testi liturgici dell’opera in questione, poiché qui ci troviamo di fronte a una rappresentazione che, attraverso la decodifica monteverdiana della seconda prattica, pone la parola, il verbo, come personaggio assoluto, canto che diviene cantante, con un potere proiettivo perfettamente calato nelle cinque voci, soprano, contralto, due tenori e basso, le quali divengono strumenti, da intendere innanzitutto come artefici prima ancora che vocali. Ed ecco, allora, che l’immagine sonora diviene visiva, con un’ineguagliabile forza proiettante, capace di scavare nel cuore e nel pensiero.
Ciò che colpisce, e qui entriamo nel cuore della lettura fatta da Acciai e dai componenti della Nova Ars Cantandi, è prima di tutto come è stato reso il testo latino nel suo essere intellegibile, ossia pienamente comprensibile (altra prerogativa dettata dalla seconda prattica), un essere intellegibile che va ben oltre alla dimensione del comprendere-ciò-che sta-avvenendo, evocato attraverso la forza semantica di ciò che viene cantato, ma che si situa nel saper rap-presentare quella profondità spaziale dalla quale si irradia il testo stesso (penso, a tale proposito, alla magnifica resa del controtenore Alessandro Carmignani nel Confiteor Deo omnipotenti, capace di riempire la totalità della materia spaziale, creando continue immagini proiettate con la forza del canto-strumento).
E ciò vale anche quando il canto si sovrappone in più linee per poi, come tanti affluenti che confluiscono in un unico fiume, convergere in una visione unica (l’incipit del Converte nos, Deus), le quali restano sempre intellegibili mediante una purezza che contraddistingue l’emissione del canto (quella stessa purezza che aveva contrassegnato la precedente registrazione dei Responsoria di Leo). Altro aspetto da non sottovalutare: il ritmo interiore che Giovanni Acciai ha infuso a tutta la lettura delle Compiete, un ritmo che, partendo dall’emissione dell’organo, si propaga nelle voci che sono in grado di “cantare interiormente”, il quale, fino a prova contraria, deve sempre restituire simbolicamente quanto enunciato dalle prime parole del Vangelo di Giovanni, ossia che il Verbo è tutto. Un canto capace di trasformarsi in “respiro” (si ascolti il In te Domine, speravi), che si materializza proprio grazie a questo “ritmo interiore”, ulteriore dimostrazione di quel mirabile lavoro di scavo, di bulino sonoro fatto da Giovanni Acciai e da quell’autentica macchina da guerra corale che è la Nova Ars Cantandi, con il primo consolidato punto di riferimento della grande musica rinascimentale e barocca, restituita nella sua integrità non solo filologica, ma soprattutto emotiva, e con la seconda che si pone come una delle conclamate realtà esecutive a livello internazionale. In breve, una registrazione ineludibile.
La presa del suono è avvenuta nello scenario della Basilica palatina di Santa Barbara a Mantova ed è stata effettuata da Jean-Marie Quint, il quale ha il merito di aver ottimamente ricostruito fisicamente l’immagine degli interpreti, partendo da una dinamica molto veloce nei transienti, il che, unita alla sua naturalezza, permette di vedere materializzata la Nova Ars Cantandi al centro dei diffusori, con la presenza discreta ma indispensabile del timbro organistico (e questo lo si nota da come è reso il registro basso dello strumento). L’equilibrio tonale non tradisce l’emissione timbrica delle cinque voci, che restano sempre ben distinte e senza sbavature, così come il dettaglio, splendidamente materico e “tattile”.
Andrea Bedetti
Giovanni Legrenzi - Compiete op. 7
Nova Ars Cantandi - Ivana Valotti (organo) - Giovanni Acciai (direzione)
CD Naxos 8.579086
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5