Insieme a Michele Papadia alle testiere, Stefano Tamborrino alla batteria e con ospite il vocalist John De Leo, il trombonista Gianluca Petrella ha registrato dal vivo alla Casa del Jazz di Roma un lavoro che sarà edito dal Gruppo Editoriale L’Espresso per la nuova collana “Jazz Italiano Live 2016”

«Abbiamo grandi aspettative e siamo entusiasti di quello che sta per nascere. È la prima volta che un mio gruppo riesce a provare un repertorio con continuità, e spero di realizzare un concerto dal quale ne possano poi scaturire degli altri, per poter crescere come gruppo e continuare a sperimentare nuove situazioni». Queste erano le premesse di Gianluca Petrella a pochi giorni dal concerto che il suo “Trio 70’s”, completato da Michele Papadia alle tastiere e da Stefano Tamborrino alla batteria e con ospite John De Leo, ha tenuto lo scorso 26 febbraio alla Casa del Jazz di Roma. Una performance importante, sia per la voglia di Petrella di mettere in pratica la sua nuova idea basata su musica originale, sia perché registrata per andare a far parte della collana di pubblicazioni curate dal Gruppo Editoriale L’Espresso dal titolo “Jazz Italiano Live 2016”. Le sensazioni per una buona riuscita c’erano tutte, a cominciare dal sold out ottenuto al botteghino, un avvenimento sempre più raro, anche in occasioni di oggettiva rilevanza, in una piazza romana caratterizzata da un pubblico spesso sedotto e impigrito dalle comodità del divano anziché curioso e vivo. Visto sul palco si ha l’impressione che Petrella, nato a Bari nel 1975, potrebbe essere stato partorito in un campo della Louisiana all’inizio dello scorso secolo, data l’aderenza della sua musica alle radici del blues e a tutto ciò ne abbia attinenza. Il suo suono è scuro, tenebroso, sofferto. È come se tra un solo e l’altro intinga il trombone in un pozzo d’inchiostro, sempre più profondo, sempre più nero. Supera qualche iniziale problema tecnico, e nelle dinamiche del trio la sua presenza si fa sùbito centrale. C’è la melodia nella cifra espressiva d’insieme, con improvvisazioni sempre coerenti, anche in momenti liberi dal tema, ma mai completamente avulsi dal discorso. Il trio coniuga gli anni Settanta in vari modi, ottenendone un idioma personale. C’è il groove ritmico di Tamborrino, capace di scolpire trame regolari con incessante precisione quanto di frastagliare pattern in tempi dispari, logaritmici, flettendosi con movimenti rapidi e con lo sguardo perso in un’apparente indifferenza al contesto. Papadia imbastisce funk o disegna scenari che richiamano in mente le ipnotiche spirali della kosmische musik tedesca, proiettandoci su pianeti lontani che Battiato amerebbe definire come “mondi lontanissimi”. Il tastierista è circondato da un modernariato strumentale composto dal Moog, l’organo Hammond, il pianoforte elettrico Wurlitzer, scatole e marchingegni elettronici riesumati dal passato. La nostra solidarietà è tutta per colui che a fine serata sarà chiamato a riavvolgere i cavi di questa strumentazione, districandoli da una matassa impressionante. Petrella scioglie un po’ di tensione con una battuta: «Questo brano non ha un titolo, noi lo chiamiamo “Brano 5”, perché siamo fantasiosi…», e quando entra in scena John De Leo le percezioni si amplificano, il trio diventa quartetto, una sorta di animale a due teste che non trova similitudini. Il vocalist è un fuoriclasse. Troppo sottovalutato, al punto che è irritante sentirlo sempre appellare come “quello cha cantava con i Quintorigo”. Pochi, pochissimi, sanno “suonare la voce” come lui. Canta il blues, registra ritmi che manda in loop e sui quali poi inventa melodie, ricorre allo scat, pronuncia onomatopee, imita le corde di un contrabbasso in duo con Tamborrino, scambia molecole di improvvisazione pura con Petrella, e inoltre soffia, urla, sussurra, sorride, mette il broncio ed esplora la gamma vocale in maniera sempre nuova, diversa, rischiosa. Assistiamo un’orgia sonora che si protrae per un’ora e mezza, e che comprende anche un doppio bis chiamato a gran voce e con applausi furiosi dai presenti. E poi, luci accese e fine del viaggio spazio temporale. Raggiunto in camerino Petrella si mostra segnato in viso da un sforzo enorme, ha l’aria di un limone spremuto dimenticato da giorni in frigo, ma è risolto e soddisfatto del risultato ottenuto: «Ci siamo impegnati tantissimo, è stato un grande stress, ma tutti questi applausi ci ripagano. Sono felice».

Roberto Paviglianiti