Il violinista e musicologo valtellinese, che con il pianista Michele Pentrella ha appena pubblicato per la Brilliant Classics un disco dedicato alle Sonate di Aleksandr Gëdicke, ci spiega in questa intervista la sua passione verso quegli autori emarginati dalla storia e dal tempo, ai quali dedica concerti e registrazioni sovente in prima assoluta mondiale
Maestro Parrino, quali sono i motivi che hanno spinto lei e il Maestro Pentrella a registrare le due Sonate per violino e i Dieci Pezzi op. 80 di Aleksandr Gëdicke? Che cosa vi ha colpito di questo musicista che è stato storicamente emarginato?
La nostra conoscenza di questo autore era limitata ai pochi lavori che hanno goduto di una relativa diffusione. Ciò che ci ha colpito di queste opere è la molteplicità di riferimenti stilistici e di genere, tòpoi musicali integrati da una voce compositiva autentica e il cui intenso lirismo slavo poggia su solide e rigorose basi contrappuntistiche di ascendenza tedesca. È stato davvero sorprendente passare dalle atmosfere legate a Čajkovskij e Rachmaninov, riconoscibili nel Konzertstück op. 11 per pianoforte, agli accenti brahmsiani di alcuni momenti del Concerto op. 41 per tromba, per poi giungere ai colori quasi straussiani del Concerto per corno op. 40 e all’asciuttezza neoclassica dell’Étude concertante op. 49 per tromba. L’impressione che si ricava dallo studio e dall’ascolto di questi lavori è di un artista disponibile a cogliere le più diverse suggestioni presenti “nell’aria”, sia provenienti dal passato che dalla propria contemporaneità. C’è qualcosa di letterario nella maniera in cui Gëdicke “legge", “annota” e “commenta” nelle proprie opere tòpoi che appaiono anche in opere altrui e in questo senso viene da fare un parallelo con il nostro Ferruccio Busoni. Non sembra essere semplicemente un caso che Gëdicke, come Busoni, sia stato un importante studioso, interprete e trascrittore di Bach nonché un influente didatta. Ciò ci ha naturalmente orientati a perlustrare il suo repertorio per violino e pianoforte, eseguendolo prima in concerto, per vagliare sul campo le nostre impressioni riguardo il suo valore artistico, e poi portandolo in sala d’incisione. Anche in questi lavori si riscontra il pluralismo estetico di Gëdicke per cui alla Sonata op. 10 n. 1, pregna della Zeitgeist di fine Ottocento e con citazioni da Rachmaninov e rimandi a Čajkovskij, si affianca la Sonata op. 83 n. 2, il cui preponderante oggettivismo (con l’eccezione del Largo) evoca Bach e i neoclassici ma anche una declinazione umanizzata della poetica “macchinistica”. Anche i Dieci Pezzi op. 80 ci hanno convinto e ci è piaciuto eseguirli. È evidente che i fini educativi di Gëdicke erano di altissimo livello, mirando a sviluppare nella gioventù un elevato gusto musicale, anche qui improntato all’apertura alle più disparate poetiche del passato e del presente. A nostro giudizio si tratta di lavori che ancora oggi possono rivelarsi preziosi nel curriculum di studi dei giovani violinisti e pianisti.
Durante le ricerche relative al materiale storico e musicale che poi è confluito nella registrazione discografica della Brilliant (leggi qui la recensione del disco), vi siete per caso imbattuti in altri autori sovietici di quel periodo, ma la cui opera è ancora del tutto o quasi sconosciuta e che meriterebbe di essere portata finalmente alla ribalta?
Si, certamente! Il numero di compositori sovietici ancora poco o punto eseguiti è decisamente cospicuo. Le ragioni di questo oblio possono essere le più disparate ma saltano sovente agli occhi motivazioni politiche. Ad esempio, il futurista Nikolai Roslavets, artista estremamente affascinante che ha recentemente goduto di una certa fortuna discografica, subì una vera persecuzione a partire dalla fine degli anni Venti. Michail Fabianovič Gnesin, noto oggi soprattutto quale pedagogo, meriterebbe una riscoperta che faccia giustizia delle discriminazioni subite negli anni Trenta. Tra le numerose altre figure che reputiamo degne d’interesse ci piacerebbe esaminare anche le opere di Lev Knipper e Julian Krein. Un’altra personalità affascinante ad aver pagato un prezzo significativo all’avvento del regime sovietico fu Aleksandr Nikolaevič Čerepnin che, a seguito della Rivoluzione di Ottobre, lasciò la Russia per emigrare prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Il problema è riuscire a rintracciare tutte le partiture e le altre fonti significative relative a questi autori: cosa non facile, anche in considerazione della pandemia e degli eventi bellici a cui stiamo assistendo.
La sua discografia vede la presenza di autori famosi come Henri Vieuxtemps ad altri decisamente meno frequentati, quali Leo Ornstein (un altro russo, ma naturalizzato americano) e il nostro Bartolomeo Campagnoli, ed ora appunto Aleksandr Gëdicke. Questa scelta presenta in fondo un filo rosso sotterraneo che li unisce oppure si tratta del risultato di interessi del tutto autonomi che l’hanno portata, di volta in volta, a concentrare la sua attenzione e il suo studio nei loro confronti?
La mia discografia può essere compresa se vista da almeno due prospettive, la storiografica e la filosofica. Dal lato storiografico, vi si riscontrano dei precisi filoni: i violinisti virtuosi tra fine Settecento e Ottocento (Cambini, Campagnoli, Viotti, Vieuxtemps, Spohr), gli autori che in maniere diverse hanno fatto propri gli stimoli e le istanze sia della fin de siècle che del modernismo novecentesco (Gëdicke, Ornstein, Gian Francesco Malipiero, Giorgio Federico Ghedini, Nino Rota, Bohuslav Martinů) e in ultimo gli artisti a me contemporanei che ho personalmente conosciuto e con molti dei quali ho avuto la fortuna di collaborare (Luciano Chailly, Bruno Bettinelli, Giorgio Gaslini, Franco Donatoni, Flavio Emilio Scogna, Giorgio Colombo Taccani). L’incontro con le opere di questi compositori può essere il frutto dell’esplorazione sistematica delle interrelazioni storiche ed ermeneutiche dei repertori da me studiati ma anche semplicemente il risultato di serendipità. Quello che è fondamentale è che si sia convinti del valore di una partitura e conseguentemente spinti a proporla al pubblico. Carlo Maria Giulini parlava del rapporto dell’interprete con la partitura come di una relazione amorosa: innamoramento, corteggiamento, fusione di anime e d’intenti. È un’idea che condivido. Dal punto di vista filosofico, v’è fondamentalmente in me una fascinazione per gli outsider, quelle personalità che volenti o nolenti si ritagliano uno spazio fortemente autonomo e indipendente da qualsiasi convenzione artistica o sociale. Mi interessa la capacità di queste persone di attuare l’“esistenzialismo ottimista” descritto in ambito letterario da Colin Wilson nel libro The Outsider, ossia operare il passaggio da una profonda consapevolezza storica, imprescindibile conoscenza dello “stato dell’arte” e successiva realizzazione di vivere in una “nazione dei ciechi” al compimento di un percorso quasi iniziatico che conduce all’“Outsider quale visionario”. In questo senso, tutti gli autori ai quali ho dedicato attenzione hanno mostrato la capacità di saper essere contemporaneamente dentro e fuori la storia: degli attuali inattuali o viceversa, a seconda dei casi. Naturalmente questa posizione riguarda anche me stesso e il fatto che molti di questi dischi siano prime registrazioni assolute racconta del mio confrontarmi quotidiano con la questione de “il reale e il possibile”, posta da Henri Bergson e variamente declinata dai filosofi della Scuola di Francoforte fino a giungere a Giorgio Agamben. Lo scoprire una partitura di valore dimenticata dalla Storia ed esclusa dai nostri canoni è per me comparabile all’esperienza raccontata da Agamben, quando in una grotta paleolitica della Francia fu assieme ai primi che scoprirono delle magnifiche pitture e incisioni rupestri mai più fruite dall’epoca dei loro artefici: l’annullamento del tempo “normale” e la meraviglia per l’apertura di una dimensione “altra”. Un possibile che fino a un dato momento è completamente insospettato può improvvisamente divenire reale, mostrandosi - per usare le parole di Bergson - come “il miraggio del presente nel passato”.
Tornando alle Sonate di Aleksandr Gëdicke si resta colpiti da come, soprattutto nella Seconda Sonata, il rapporto tra violino e pianoforte sia assolutamente paritario. Da qui l’importanza dello strumento a tastiera e, di conseguenza, della scelta di un partner con il quale avere il massimo affiatamento e la stessa visione interpretativa. E tutto ciò lo ha trovato nel Maestro Michele Pentrella…
Effettivamente la parte pianistica delle Sonate fa trasparire chiaramente il magistero strumentale di Gëdicke e mette in giusto rilievo il valore dei suoi interpreti. Trovo il rapporto paritario tra violino e pianoforte un punto di forte attrazione di questi lavori e sono felice di averli potuti affrontare e registrare con Michele. Ci siamo conosciuti diversi anni fa, quando eravamo docenti presso il Conservatorio di Trapani, e da quel momento è nato un rapporto di amicizia e professionale davvero forte. Dal punto di vista artistico, ammiro moltissimo Michele per la grande facilità strumentale, il rigore etico nell’approccio alle partiture, la grandissima autodisciplina e la versatilità nelle scelte dei repertori solistici e cameristici. Per me è però altrettanto importante il profilo umano: non riuscirei mai a dialogare e collaborare con un collega senza il rispetto reciproco. Nel caso di Michele, il calore e la generosità tutti mediterranei, la forte sensibilità e comprensione nei confronti degli altri, la franchezza e la lealtà della persona sono tratti che facilitano e arricchiscono le relazioni interpersonali e giocano un ruolo importante nel complesso della sua personalità musicale. Con questi presupposti, la condivisione del taglio interpretativo non avrebbe potuto essere più unitaria.
Un’ultima domanda, Maestro Parrino. Ci può già anticipare quali saranno i suoi prossimi progetti discografici? Sono già in essere oppure ancora relegati a un sogno nel cassetto?
Essendo del segno zodiacale del toro, prima o poi tanti dei miei sogni nel cassetto tendono a realizzarsi! Scherzi a parte, la lista di progetti è davvero numerosa ed è legata ai miei interessi violinistici, cameristici e musicologici. Quelli più immediati sono la prossima uscita del doppio album dedicato ai duo per flauto e violino di Alessandro Rolla, registrati durante la pandemia con mio fratello Stefano. Si tratta di due serie di sei lavori che ben rappresentano l’evoluzione poetica di questo affascinante musicista. La prima collezione, composta nel 1795, risente ancora degli influssi galanti e del tardo stile classico mentre gli altri sei duo, concepiti nel secondo decennio dell’Ottocento, presentano un felice innesto del lessico melodrammatico italiano nel tessuto strumentale i cui modelli sono rinvenibili nei Classici viennesi e in Giovan Battista Viotti. Rolla è un’altra figura non adeguatamente conosciuta, un outsider della storia della musica a dispetto del ruolo cruciale svolto nella Milano d’Ottocento. Per questa ragione sto attualmente lavorando sia da un punto di vista discografico che musicologico sulle sue Intonazioni per violino solo, il prossimo tassello di un progetto Rolla che sogno di portare avanti negli anni a venire anche come direttore artistico del Valtellina Festival LeAltreNote, naturalmente senza trascurare tutti gli altri outsider che meritano di aver voce.
Andrea Bedetti