Tra le figure di quel magmatico fenomeno che fu il verismo italiano di fine Ottocento e dell’inizio di quello successivo, quella del calabrese Francesco Cilea quantomeno fu musicalmente la meno sguaiata e triviale, tenuto conto che le sue opere non offrono agli occhi e alle orecchie altrui coltelli a serramanico, sbudellamenti vari, duelli rusticani all’ultimo sangue, tabarri che celano cadaveri, compari fedifraghi e pagliacci assetati di vendetta che anticipano quelli descritti da Stephen King. Tutt’al più nel teatro musicale cileano si avvertono maggiormente gli aromi un po’ stantii di un crepuscolarismo che rimanda alle “buone cose di pessimo gusto”, senza disdegnare un minimo di grand-guignol aggraziato e liofilizzato, tra storie d’amore che finiscono con un rassicurante lieto fine (Gina), femminicidi d’antan (La Tilda), suicidi originali, ossia lanciandosi nientemeno che da un fienile (L’Arlesiana), arsenici e vecchi merletti de’ noaltri (Adriana Lecouvreur) e, per finire in Gloria (nomen omen), con un sano e paesano maquillage delle vicende di Romeo e Giulietta.

Insomma, un verismo disseminato di colori macchiaioli, di rotondità timbriche, di arie che più che a far immaginare scene di Gomorra riadattate ai tempi addietro che furono, rimandano a un certo Massenet e ad altri esponenti della scuola operistica francese del secondo Ottocento poco conosciuti nel nostro Paese, come Benjamin Godard e Félicien David, anticipatori di un gallicano “verismo” charmant che al posto di pane e cicoria e rosso pugliese proponeva, in chiave simbolica, blinis caldi ripieni di caviale beluga, come li preparava Chez Maxim’s ai tempi di Toulouse-Lautrec.

Ma Cilea, oltre al teatro lirico, sempre facendo l’occhiolino alla Francia musicale in bilico tra i due secoli, ebbe modo di comporre anche musica cameristica, pregevoli il Trio per violino, violoncello e pianoforte e, soprattutto, la Sonata per violoncello e pianoforte (Offenbach docet), diversa musica pianistica e le immancabili, annose romanze da salotto per voce e pianoforte. Queste ultime, almeno per ciò che riguarda le sedici Liriche da Camera, nell’edizione critica curata dal tenore Giuseppe Filianoti che la Ricordi ha pubblicato nel 2016, sono state registrate dal soprano Lenny Lorenzani accompagnato al pianoforte da David Boldrini, unitamente a sette pezzi per piano, in un disco della Da Vinci Classics. Sia ben chiaro, nulla di che, tenuto conto che nell’arco di tempo in cui Cilea compose queste sedici pagine (e che vanno dal 1883, quand’era ancora diligente e scrupoloso studente, fino al 1944, ossia sei anni prima della morte), si alternarono, tanto per restare in tema d’oltralpe, le romanze, le chansons di tipetti mica da ridere come Debussy, Ravel e colui che potrebbe avvicinarsi idealmente, ma non musicalmente, a quanto concepito dal musicista calabrese, ossia Saint-Saëns.

Sono pagine che devono fare i conti con la solita Italietta culturale del tempo, un mix di Collodi e buoni sentimenti, di De Amicis e melasse di lacrimose intenzioni umbertine, di languori e frissons predannunziani e dannunziani (non per nulla tra gli autori dei testi vi è anche il “leggendario” Sem Benelli, definito testualmente da quella linguaccia al vetriolo di Giovanni Papini la “ciabatta smessa del dannunzianesimo”), di dive mica tanto caste immortalate in traballanti immagini in bianco e nero alla Cabiria, e di una società che avrebbe dapprima invocato e poi pagato lo scotto del primo conflitto mondiale (da qui, il fatto che nelle note che accompagnano il disco non siano stati inclusi anche i testi delle liriche è da ritenere non una manchevolezza, ma una benedizione). A parte ciò, musicalmente, nonostante che nelle stesse note si faccia abbondantemente notare le “conquiste armoniche” di questi brani, non è che si rimanga folgorati sulla strada di una Damasco musicale portentosamente innovativa. Basta ascoltare brani come “Serenata (L’aere imbruna)” su testi (si fa per dire) di Giuseppe Pessina, o il brano per pianoforte “L’arcolaio”, che potrebbe essere preso e usato con risultati indubbiamente più azzeccati per i film comici muti di Mack Sennett, quelli con plotoni di poliziotti che cadono rovinosamente uno sull’altro e con torte in faccia a go-go. O ancora la portentosa marcetta della “Mazurka”, sulla quale si sarebbe volentieri sbizzarrito l’indimenticabile Paolo Poli, appassionato com’era di fenomeni freaks letterari e musicali. E siccome oggi mi sento buono, il resto ve lo risparmio.

Ma al peggio, come potrebbe confermare la sempre valida legge di Murphy, non c’è mai fine, perché quando ho cominciato ad ascoltare il disco, mi sono guardato intorno preoccupato, per il semplice fatto che ho temuto di essere su “Scherzi a parte”. Questo perché l’interpretazione del soprano Lenny Lorenzani lascia senza parole, nel senso che raramente, o forse mai, mi è capitato di ascoltare una cantante con evidenti carenze di tenuta di canto, al punto da non poter tenere le note se non strozzandole in gola, oltre a una dizione tale da rendere irriconoscibili i versi (e, ripeto, forse questo non è neanche un male), senza tener conto del fatto di manifestare problemi sul registro acuto, che si concretizzano in un sovente “ingolamento”. Spero e confido che la giovane cantante abbia solo avuto dei problemi momentanei che sono coincisi purtroppo con la registrazione di questo disco. Da parte sua, il coraggioso David Boldrini, come ogni capitano di lungo corso che si rispetti, non ha voluto abbandonare il naviglio mentre stava affondando, e ha cercato (inutilmente) di tenere in piedi la baracca con innegabile senso di sacrificio, giostrandosi alla meglio tra la pochezza musicale di queste pagine (mi raccomando, non fate mai ascoltare la “Ninnananna popolare savoiarda” ai vostri bambini se non volete vederli rovinati da adulti), di cui si salvano solo pochissime note, quasi tutte concentrate nello “Scherzino” per pianoforte e nella prima versione della lirica “Salute”, e le “folkloristiche variazioni canore”, per usare un eufemismo, da parte del soprano.

Leggermente meglio, ma non di molto, la presa del suono, in quanto il palcoscenico sonoro ripropone la voce troppo avanzata rispetto allo strumento e di ciò ne soffre l’equilibrio tonale. Per il resto, la dinamica è più che passabile, così come il dettaglio, almeno per ciò che riguarda il pianoforte.

Andrea Bedetti

 

Francesco Cilea – Complete Art Songs & Piano Works

Lenny Lorenzani (soprano) – David Boldrini (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00101

Giudizio artistico 2/5

Giudizio tecnico 3/5