Abbiamo intervistato il direttore e compositore ternano, responsabile artistico del Festival Operaincanto, che ci confessa il fascino che prova per la musica del secolo scorso, soprattutto per l’opera di Stravinskij (ha appena portato in teatro e registrato l’Histoire du soldat), e per quella del barocco, affrontata con scrupolo e fedeltà storici
Maestro Fabio Maestri, leggendo la sua formazione, le sue preferenze direttoriali, la sua produzione discografica, viene fuori la figura di un artista equamente affascinato e stimolato da un passato musicale remoto, legato alle dimensioni poliedriche del Barocco, e dalla presenza costante, oserei affermare rassicurante, di un presente del mondo dei suoni, con le sue tensioni, i suoi esperimenti, le sue ricerche, le sue domande che chiedono una possibile risposta rispetto a un momento storico apparentemente “impazzito”. Manca, invece, quasi del tutto il passaggio romantico, quasi come se condividesse quanto scritto da Glenn Gould, ossia che il Romanticismo musicale in fondo è stato solo un “accidente”, che ha interrotto per un secolo il processo di sviluppo e di articolazione di un linguaggio nato con la polifonia fiamminga e che si è poi riannodato a partire solo dal Novecento storico.
Credo che la curiosità abbia sempre guidato i miei interessi e le mie scelte: andando molto indietro nel tempo, agli anni dei miei studi, mi vedo scoprire le partiture grafiche di Bussotti ma anche Pierrot e Sacre e anche Varèse; da qui la scoperta di tutti gli autori più importanti del ‘900 compresi quelli più “anomali”, per così dire, come Ives. Ma mi vedo anche scoprire le novità della filologia, degli strumenti originali con i loro suoni spesso inediti. In definitiva posso trovare un legame molto stretto tra questi suoni nuovi del ‘900 e i suoni “nuovi” del barocco. Ma personalmente non sono granché d’accordo con l’affermazione di Gould: se frequento poco il repertorio romantico è perché non mi capita spesso di dirigerlo; ho sempre avuto molti interessi anche in questo periodo della musica, soprattutto nel repertorio lirico.
Lei è stato allievo di Franco Donatoni, una delle voci più straordinarie della seconda metà del Novecento, forse l’unico nel saper raccontare e spiegare esemplarmente con i suoi suoni la dimensione della malattia, vissuta e sperimentata sulla sua pelle per buona parte della sua vita. Eppure, anche artista e didatta di rara lucidità, perfino amicitiarum appetentissimus, con i rituali delle nutrite tavolate in trattoria, con allievi e fidati collaboratori. Che ricordo ha di lui? C’è un aneddoto, un particolare che vi riguarda, al quale è particolarmente legato, che potrebbe raccontarci?
Ricordo che ebbi la “rivelazione” di Donatoni (che ovviamente conoscevo tramite le composizioni degli anni ’60) grazie a un concerto diretto da Marcello Panni in cui erano presenti due brani che ritengo fra i capolavori di Franco: Ash e, soprattutto, Spiri. Quest’ultimo mi aprì letteralmente un mondo e decisi di tentare di diventare suo allievo, cosa che fortunatamente mi riuscì (studiai con lui per tre anni all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in seguito fui suo assistente al corso di Composizione alla Chigiana per altri sette anni). Franco mi insegnò molte cose, non solo di tecnica compositiva, ovviamente, ma soprattutto sul modo di concepire e vedere la musica; e all’inizio non fu per niente facile: mi sentivo in sintonia col suo modo “felice” (in quel momento) di comporre, ma confesso che ebbi qualche difficoltà ad entrarvi dentro, capire il suo modo di approcciarsi alla materia musicale.
Lei sta per dirigere nuovamente un’opera alla quale ormai è assai affezionato, l’Histoire du soldat di Stravinskij. Una pagina che, a livello simbolico, riecheggia il ciceroniano Mala tempora currunt sed peiora parantur, se sommiamo il lungo periodo della pandemia unito, ora, a una guerra della quale non possiamo ancora immaginare possibili, nefasti sviluppi futuri. Anche per questi motivi intende riproporla? E oggi il violino del soldato e il libro magico che ne ottiene in cambio con che cosa sono stati sostituiti?
Effettivamente è una partitura con la quale convivo da decenni e che negli ultimi anni ho avuto modo di riproporre in svariate occasioni, sia sceniche che ‘concertanti’ ed è una delle composizioni che ho diretto di più. Inoltre ritengo Stravinskij, mi si passi l’iperbole, il ‘genio’ del ‘900 (o almeno della sua prima metà) per la gran quantità di invenzioni: parafrasando quanto Liszt disse sulle sonate per pianoforte di Beethoven, potremmo dire che non c’è una composizione di Stravinskij uguale all’altra; ogni volta sorprende per l’invenzione sonora e ritmica che lo rende riconoscibile immediatamente, anche nelle composizioni dell’ultimo periodo, quello dodecafonico, in cui può ben competere con i più agguerriti serialisti degli anni ’60. La storia del soldato stravinskiana è una storia universale e la versione “partenopea” di Peppe Servillo, che ne è anche voce recitante, mette bene in evidenza questa universalità. Naturalmente quando abbiamo programmato le recite di Histoire, circa un anno fa, non potevamo immaginare che sarebbero capitate proprio in questo momento così tragico e delicato.
Un’ultima domanda: quando tornerà in studio di registrazione? Ci sono già dei progetti che saranno attuati a breve oppure i già citati mala tempora attuali ne consigliano l’arrivo, si auspica, di migliori per la produzione di un nuovo disco?
Col mio Ensemble In Canto abbiamo appena realizzato un disco per la Brilliant con la suite dell’Histoire du soldat, alla fine delle recite con Servillo. Quasi tutto il Cd è impostato sul numero sette: infatti ci sarà anche il Septet di Stravinskij del 1953, insieme con La Piège de Méduse di Satie e Le Gendarme incompris di Poulenc, anch’essi scritti per sette strumenti (curiosamente l’organico è quasi del tutto identico a quello dell’Histoire: l’unica differenza è che al posto del fagotto troviamo un violoncello).
Andrea Bedetti