Disco del mese di Maggio 2022 

Dopo aver registrato, in prima assoluta, il Compiete op. 7 (del quale abbiamo scritto su MusicVoice), Giovanni Acciai, l’ensemble Nova Ars Cantandi e l’organista Ivana Valotti proseguono la loro meritevole impresa di riportare in auge opere purtroppo dimenticate e mai incise del bergamasco Giovanni Legrenzi. L’ultima loro fatica discografica, sempre in prima assoluta mondiale, riguarda l’Harmonia d’affetti devoti, op. 3, pubblicata ancora dalla Naxos, opera stampata a Venezia nel 1655, ossia un anno dopo che il musicista di Clusone fu letteralmente cacciato (probabilmente a causa di un’accusa di gioco d’azzardo, una colpa inammissibile per un uomo di chiesa) dal suo incarico di organista presso la Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo.

La cover del doppio CD Naxos con l'.op 3 di Giovanni Legrenzi.

Dedicata al Duca di Parma Alessandro Farnese, l’Harmonia d’affetti devoti rappresenta un ulteriore step nell’innovazione del cosiddetto genere del concertato applicato alla musica sacra del Seicento, che prese piede proprio a metà di quel secolo. Il suo stile riprende quello delineato da Claudio Monteverdi nella celebre raccolta Selva morale e spirituale, pubblicata quindici anni prima, basata sul rivoluzionario concetto della seconda prattica, la quale valorizzava la dimensione testuale della voce e con la musica votata ad esaltarne il messaggio emotivo. Si può ben sostenere, quindi, come fa Giovanni Acciai nelle sue erudite e approfondite note di accompagnamento al disco, che l’op. 3 di Legrenzi sia il risultato del meditato e attento studio che il musicista di Clusone fece dello stylus modernus monteverdiano. Questo, però, non significa che tale lezione fu sviluppata da Legrenzi in modo pedissequo e imitativo, ma inserita e sviluppata attraverso la propria straordinaria inventiva, basata su un approccio straordinariamente melodico, unitamente al contesto armonico e contrappuntistico, della materia musicale. Una musica che, attraverso l’esaltazione del testo, doveva divenire altamente espressiva, in grado di essere persuasiva non solo nella sua dimensione estetica, ma anche in quella spirituale.

Il frontespizio della prima versione dell'Harmonia d'affetti devoti, stampata a Venezia nel 1665.

L’Harmonia d’affetti devoti fu composta per un numero limitato di voci (quattro, anche se diversi dei suoi quattordici brani che la compongono sono previsti per due o tre voci, con il discreto accompagnamento dell’organo), il che ci fa comprendere il suo utilizzo che fu pensato soprattutto per venire incontro alle necessità di quelle realtà ecclesiastiche che non potevano vantare una massa corale più nutrita per evidenti problemi di natura economica. Ma povertà di mezzi offerti non significava un’altrettanta povertà in termini di espressività e di bellezza, poiché l’op. 3 è un miracoloso scrigno nel quale si celano pagine e momenti di altissimo pregio musicale ed espressivo, grazie a un geniale equilibrio stilistico dato da un linguaggio in cui trovano posto sfumature timbriche, idee armoniche e un utilizzo sagace del già citato stile concertato contrappuntistico tra le parti, tale da far scaturire in coloro che ascoltavano un moto di coinvolgimento e di grande e totale emozione.

I testi scelti per l’opera, forse dello stesso Legrenzi, sono del tutto originali e non sono tratti invece dal tradizionale repertorio liturgico del Proprium, dell’Ordinarium Missae o dall’Officium divinum. Tali testi non sono il risultato di una profonda riflessione teologica, ma tendono a proporre immagini e sensazioni votate a una grande semplicità espressiva, in modo da generare nell’ascoltatore, anche quello più incolto, un moto di stupore et maraviglia, poiché lo scopo primario, proprio sulla base di quanto enunciato dalla seconda prattica, mirava a ciò: coinvolgere in modo diretto, senza fare ricorso a un inutile sfarzo armonico e melodico, ma puntando sull’essenziale bellezza di una melodia anche mediante un’accurata struttura ritmica capace di attirare, fin dal primo ascolto, l’attenzione del fedele. Tale essenzialità, però non era scevra, come accade del resto nel repertorio madrigalistico del primo Seicento, di un apparato colmo di metafore e di analogie (lo stesso che si può cogliere nella pittura sacra e profana dell’epoca), la cui funzione era di aumentare l’attenzione e il coinvolgimento dell’assemblea di fedeli. Così, melodia e testo vanno di pari passo, con la prima che aiuta, armonicamente e ritmicamente, a sostenere e a incentivare la piena comprensione del secondo. Da qui, una pletora di vere e proprie “rappresentazioni sceniche” capaci di proiettarsi nell’immaginazione e nell’animo dell’ascoltatore, il quale viene avvinto, quasi a livello catartico, nell’esplorazione di diversi stati emotivi a seconda della proiezione generata; così, tanto per fare qualche esempio, si va dal moto della contrizione che scaturisce dal secondo brano, Quam amarum est Maria, passando attraverso la colpa e la fragilità umane (Cadite montes, n. 4), fino al concetto della dannazione eterna e della sofferenza che redime (O santictissimum, n. 7).

Una pagina dell'opera, più precisamente dal terzo brano, Occurite celestes. 

Da queste poche annotazioni, anche senza averla ancora ascoltata, si può intuire come l’Harmonia d’affetti devoti sia un’opera che, al di là della sua quotidiana funzione liturgica, abbisogna non solo di una pura ed altamente espressiva capacità canora tra le voci del soprano, del contralto, del tenore e del basso, ma anche e soprattutto di un’indubbia capacità nel rendere le minime e quasi impercettibili sfumature psicologiche che impregnano questi quattordici brani. E qui intervengono in modo stupefacente le quattro voci del Nova Ars Cantandi (ricordiamole: Alessandro Carmignani, soprano; Andrea Arrivabene, contralto; Gianluca Ferrarini, tenore; Marcello Vargetto, basso), le quali, sotto il gesto preciso e amorevole di Giovanni Acciai, riescono a rendere con una sorprendente e apparente semplicità tali requisiti stilistici. Attenzione, però: un’opera del genere, per essere resa degnamente, non deve passare solo attraverso le capacità espressive della voce, ma deve anche generare un’impressione “teatrale” dell’atto canoro stesso (lo so, mi sto ripetendo, ma quando ascolto le registrazioni di questo ensemble, non posso fare a meno di mettere in risalto, repetita iuvant, quello che è indiscutibilmente il loro DNA artistico, basato per l’appunto su questa straordinaria capacità di rendere “teatrale” quanto da loro interpretato); questo significa che le sue letture risultano essere incredibilmente “tridimensionali” nello loro portata espressiva, in quanto le quattro voci riescono a restituire perfettamente un’interiorità, un’immanenza di quanto dev’essere reso con la voce. E quando ciò accade, lo spazio circostante (e questo anche grazie alla presa del suono, vedi giudizio tecnico) viene investito da una saturazione squisitamente emotiva del gesto canoro, con il risultato che il semplice, si fa per dire, canto diviene miracolosamente teatro, spazialità acquisita, palcoscenico interiore/esteriore, con l’unidimensionalità della voce restituita dall’apporto registrato che magicamente si irradia in una tridimensionalità emotiva, assoluta.

Se le quattro voci restituiscono pienamente il rigore espressivo del testo, nel loro modo di attuarlo in un teatro emotivamente palpabile, l’apporto dato da Ivana Valotti all’organo è come la rassicurante presenza materna, un’ombra che accudisce la dimensione canora, la custodisce e la fa crescere, il discreto sentiero ritmico che fornisce l’ossigeno artistico ed estetico affinché il canto stesso si possa propagare nella debita spazialità interiore. Provate, a un secondo ascolto, ad escludere la vostra attenzione dalle voci e concentratevi unicamente sulla linea sonora dell’organo e capirete l’importanza di questo apporto, di questa sensibilissima carezza che è come un nido accogliente senza il quale buona parte della costruzione finale andrebbe a perdere inesorabilmente il suo fascino.

L'ensemble Nova Ars Cantandi con, al centro, Giovanni Acciai.

Infine, Giovanni Acciai. Al di là del suo inestimabile lavoro di musicologo, ricercatore e appassionato studioso, capace di riportare in superficie pagine ed opere meravigliose (e ciò già basterebbe per farne un intellettuale da ringraziare e ammirare), vi è il lato dell’artista, dell’interprete che governa il gesto, l’accenno, la direzione da dare alle voci e all’organo, il deus ex machina che regola e indica. È un vero peccato non poter vedere il suo gesto, la sua capacità di far tramutare i segni in qualcosa di vivo, di finalmente realizzabile nella fisicità dell’atto artistico; possiamo, tutt’al più, immaginarlo. E questo è già elemento di conforto e di ulteriore ringraziamento. Da tutto ciò, ne consegue un solo risultato, almeno per ciò che ci riguarda direttamente, ossia che questa registrazione non può non essere considerata disco del mese di maggio 2022. E ho detto tutto.

Un ulteriore tassello alla preziosità di questo progetto discografico è dato dal lavoro effettuato per la presa del suono (fatta da Jean-Marie Quint), la quale è stata realizzata nella magnifica Basilica Palatina di Santa Barbara a Mantova, un luogo magico, e non solo per i tesori che vi sono custoditi, ma anche per ciò che riesce a fare, in sede di spazialità e di fisicità, nell’emissione e nella propagazione del suono, vocale o strumentale che sia. La dinamica è oltremodo energica, precisa, piacevolmente veloce nei transienti; ciò permette di cogliere ogni minima inflessione, ogni minima sfumatura delle quattro voci e dell’organo, in modo che la loro restituzione all’interno del palcoscenico sonoro risulti a dir poco scolpita, con i quattro cantanti e lo strumento posizionati al centro dei diffusori, a una discreta profondità, la quale viene fisicamente esaltata da un riverbero che non risulta mai artificioso o scorretto, ma capace di delineare la spazialità nella quale gli interpreti si trovano. L’equilibrio tonale non è da meno, visto che i vari registri risultano essere sempre perfettamente scontornati, affinché le linee canore rimangano sempre distinte, anche quando le quattro voci e l’organo sono simultaneamente presenti. Infine, il dettaglio è piacevolmente materico, ricco di nero, con l’impressione, se si chiudono gli occhi, di immaginare la presenza fisica del Nova Ars Cantandi nella propria sala d’ascolto.

Andrea Bedetti

Giovanni Legrenzi – Harmonia d’affetti devoti, op. 3

Nova Ars Cantandi – Ivana Vallotti (organo) – Giovanni Acciai (direzione)

2CD Naxos 8.579123-24

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5