Il francese Ernest Chausson appartiene di diritto, malgré soi, a quella pletora di compositori destinati, nonostante la loro indubbia importanza, a restare perennemente all’ombra dei più grandi, come se fossero dei cespugli rigogliosi costretti a non vedere mai la luce del sole a causa delle onnipresenti fronde di alberi che vantano dimensioni ben maggiori, confinati così perennemente in un sottobosco dal quale possono attirare l’attenzione altrui solo quando viandanti o visitatori solitari si addentrano tra sentieri e passaggi poco battuti. E così è per il nostro autore, voce autorevole, sconvolgente per alcune sue opere, le quali però, solo per restare nell’alveo della scuola francese del secondo Ottocento, senza contare colossi quali Ravel e Debussy, devono fare i conti con quelle di colleghi come Fauré, Massenet, Gounod, costringendo Chausson, anche per via di esecrabili abitudini di ascolto e di risicata proposta in ambito concertistico e discografico, a vestire i poco nobili panni di un borderline, tutt’al più ricordato per l’ancora misteriosa morte che lo colse mentre si trovava in vacanza a Limay il 10 giugno 1899, quando si andò a schiantare con la bicicletta contro un muro di mattoni alla fine di una ripida discesa a soli quarantaquattro anni.
La banalità dell’incidente e l’evidente mancanza di tracce di una frenata sul terreno alimentarono fin da subito la tesi che il compositore parigino avesse deciso di farla finita con la vita in un modo a dir poco bizzarro e atroce, tesi suffragata dal fatto che in quel periodo Chausson stava attraversando il buio tunnel della depressione (chi abbia voglia di saperne di più può rivolgersi a quanto riportato da due studiosi, Edward Lockspeiser, che nella sua fondamentale biografia dedicata a Debussy, tradotta in italiano dalla casa editrice I Dioscuri, avalla l’ipotesi del suicidio, e Ralph Scott Grover, che nel suo studio Ernest Chausson: The Man and His Music, ovviamente mai tradotto in italiano, rigetta completamente tale ipotesi, puntando invece su una ben più prosaica fatalità causata probabilmente da un ciottolo che avrebbe fatto perdere l’equilibrio al compositore francese, determinandone l’impatto fatale). Ma, ipotesi biografiche a parte, ciò che maggiormente importa è la caratura dell’artista, la sua visione musicale ancorata negli stilemi di un tardo romanticismo capace di accomunare raffinatezza e spessore compositivo, sulla scia di un wagnerismo metabolizzato e rivisto alla luce di una sensibilità estrema, tale da condizionare la vita del musicista, anche a causa di una salute malferma e di un’ipocondria manifesta.
Questa accesa sensibilità fu costantemente eccitata e stimolata dai molteplici interessi culturali e artistici che Chausson ebbe nel corso del tempo, facendo di lui un promotore culturale (fu segretario della prestigiosa Société Nationale de Musique, oltre che apprezzatissimo anfitrione del suo salotto aperto e frequentato dalle maggiori personalità dell’establishment culturale del tempo), attento studioso della letteratura russa dell’Ottocento e del simbolismo poetico francese e collezionista d’arte, con importanti amicizie nell’ambiente impressionista. Questi interessi confluirono indubbiamente nell’athanor della sua creatività musicale, fornendole una sua precisa identità stilistica al punto da permettere all’autore di giungere nel cuore della sua maturità a un affascinante individualismo compositivo, avulso se vogliamo dalle correnti e dalle scuole del tempo. In un certo senso, Chausson rappresenta così una sorta di “anarca” musicale che si va a stagliare non solo nei contorni del panorama dell’arte sonora francese, ma anche in quella europea di fine Ottocento.
Questa formazione culturale e artistica a tutto tondo che contraddistingue l’uomo e il musicista Chausson si riflette anche in quello che resta l’aspetto più affascinante della sua ricerca che lo rende assai simile a uno dei personaggi più enigmatici e intriganti della letteratura francese del XIX secolo, quel Balthazar Claës protagonista di uno dei capolavori della balzachiana Comédie humaine, vale a dire La recherche de l’absolu, che consacra la sua vita e tutte le sostanze economiche di famiglia all’attività di alchimista, cercando di individuare e circoscrivere l’essenza dell’Assoluto. Anche Chausson, nella sua ricerca musicale, al di là delle influenze, delle imitazioni, delle spinte creative, rivolge l’attenzione a una costante, per certi versi allucinante, “ricerca dell’assoluto” da fissare attraverso il plasmare dei suoni, che nel loro concretizzarsi vengono convogliati dal compositore francese in un’architettura, in una struttura che presenta spesso e volentieri l’elemento della ciclicità formale, come dimostra ampiamente quello che è il suo capolavoro operistico, Le roi Arthus, concepito negli stessi anni del Pelléas et Mélisande debussyano, nel quale cerca di coniugare il Parsifal con il Tristan und Isolde. D’altronde, tale “ricerca dell’assoluto” non poteva che partire da posizioni squisitamente wagneriane per poi assurgere a una sua autonomia stilistica ed espressiva, la quale più che nella musica operistica e in quella concertistica (quest’ultima rappresentata dall’annoso e scontato Poème op. 25 per violino e orchestra) è da ricercarsi in quella cameristica, vero punto di forza e d’approdo dell’estetica chaussoniana.
E parlare di musica cameristica in Chausson significa soprattutto, inevitabilmente, affrontare quel capolavoro visionario che è il Concerto in re maggiore op. 21 per violino, pianoforte e quartetto per archi, composto tra il maggio 1889 e il luglio 1891, registrato recentemente dal violinista Paolo Ghidoni, dal pianista Leonardo Zunica e dal Quartetto Boito (formato da Giacomo Invernizzi e Nicola Tassoni al violino, Luciano Cavalli alla viola e Gregorio Buti al violoncello) per l’etichetta discografica Da Vinci Classics. Un’opera travagliatissima, questa, frutto di esplorazioni, periodi di scoraggiamento (leggendo le sue missive scritte a colleghi e ad amici, come appare così prossima la tensione psichica tra malattia e salute in questo autore con il nostro Franco Donatoni!), continue cancellazioni e aggiunte, segni tangibili e ineludibili, questi, di quella recherche de l’absolu da lui instancabilmente vagheggiata. È proprio quest’opera a rappresentare genialmente non solo una recherche (“lemma-emblema” di tutta la cultura musicale-pittorico-letteraria francese nel passaggio tra i due secoli), ma anche la sua incessante “evoluzione” attraverso il ricorso di un’indispensabile e rassicurante ciclicità della forma e dei suoi sviluppi. Organizzata in quattro tempi (Décidé, Sicilienne, Grave, Très animé) e predisposta per un originalissimo organico, che rimanda alla preziosità barocca del concerto così cara a Rameau e a Couperin, quest’opera fu dedicata dall’autore a Eugène Ysaÿe ed eseguita in prima assoluta a Bruxelles il 4 marzo 1892, ottenendo un vasto consenso di critica e di pubblico.
La ciclicità di cui si è accennato si presenta, scolpita imperiosamente, fin dall’incipit del primo tempo, prima attraverso il pianoforte e poi dalla viola e dal violoncello, grazie a un inciso costituito da tre note (re-la-mi) che ha il compito di continuo e insostituibile liquido amniotico dal quale prende atto la funzione rigeneratrice di buona parte del materiale tematico che va progressivamente a costituirsi nel corso dell’intero Décidé, il quale è suddiviso in due precise idee che si sviluppano linearmente nel corso del movimento. Pagina drammatica e lirica allo stesso tempo, sfuggente (oltre alla recherche, non dobbiamo dimenticare di aggiungere fin troppo proustianamente anche il concetto di temps) nel suo evocare immagini mai pienamente fissate, che lascia poi spazio a quello scrigno trasognato che è la Sicilienne, intrisa di una purezza idilliaca, quasi arcadica nelle linee evanescenti che la propongono, incarnante una trasposizione rarefatta, immaginifica, di una danza sacra, come se le Danseuses de Delphes avessero trovato nuovo conforto, attingendo non più dal primo Preludio di Debussy, ma da quello proposto qui da Chausson.
Ma come ogni evanescenza che si rispetti (sembra di leggere una poesia di Pierre Louÿs o ammirare un paesaggio innevato immortalato da Katsushika Hokusai) nel momento che fa interruzione la glacialità del Grave la magica atmosfera si stempera e svanisce essendo scritta nell’acqua. Tratteggiato dal dolente incedere del violino, il Grave è un segmento che presenta una melodia crocefissa dal languore dello strumento ad arco e dagli interventi vanamente salvifici del quartetto e del pianoforte, dominato da un disegno cromatico discendente, che sovente diventa scivoloso e al quale non si può opporre appiglio o speranza di sorta. La chiave di volta, la decostruzione del tutto, il cuore dell’uovo Fabergé risiede però nell’ultimo tempo, dis-velamento ed emanazione di quell’assenza/presenza data dall’idea dell’absolu che viene evocato dall’apporto di una ciclicità che avrebbe trovati concordi sia Giambattista Vico sul piano storico, sia René Guénon su quello esoterico, attraverso una struttura che si apre focosamente con il tema in re maggiore (!) dato dal pianoforte e che vede il trionfo di tale tonalità nel momento stesso in cui allo strumento a tastiera si affianca il violino, i quali elaborano un respiro che è un abisso che sale al cielo, indagando felicemente sul registro acuto, allargando gli scorci, frugando fra i recessi timbrici, fino a quando sul finire di questo impianto costruito sulle fondamenta della forma-sonata il sentore ciclico, l’eterno ritorno di ciò che può far intuire l’assoluto si ripresenta con il motivo che ha aperto la composizione, un bisturi che è anche punti di sutura, alfa che si coniuga all’omega, lasciando spazio e tempo al mistero del retrouvé.
La complessità di quest’opera non lascia scampo a chi l’affronta senza il giusto cipiglio interpretativo, se i due principali strumenti non manifestano coesione, passionalità, trasfigurazione e se viene a mancare un preciso impianto comune con l’apporto del quartetto per archi, capace di fornire l’idea di un concerto nel quale però non deve mai venire a mancare l’intimità del gesto, dell’idea, del movimento cameristico. Un’opera di quasi cinquanta minuti percorsi sul filo del rasoio. Ed è qui che si innesta la lettura fatta da Leonardo Zunica, da Paolo Ghidoni e dal Quartetto Boito, i quali sono stati in grado non solo di rispettare questi propositi interpretativi, proponendo la giusta ricetta esecutiva, ma ampliandola e connotandola di spunti, ricchezze, illuminazioni disseminati nel corso dei quattro tempi.
Prima di tutto, è da rimarcare il respiro che soprattutto il duo Ghidoni & Zunica riesce a dare a tutta la composizione, le cui arcate sono costantemente attraversate da una contrazione interiore, la quale insuffla il debito fremito, il necessario slancio impulsivo (e questo avviene soprattutto nel primo tempo), per poi richiedere le proporzioni di un discorso che il violino e il pianoforte devono sempre ribadire con il suono della “prima volta”, ossia un suono dal sapore vergine, idilliaco, diafano nella sua innocenza (la Sicilienne!), proseguendo con un senso drammaturgico, sotteso a una dimensione spaziale che deve riproporre la dinamicità di un gesto persino ieratico, solenne (come dev’essere illustrato nel Grave) e, infine, con quel senso di liberazione, di illusorio trionfo che pone fine alla composizione (che cos’è il Très animé, se non un assoluto travestito da un senso di rivincita illusoria nei confronti del destino, un modo di intenderlo con l’afflato cameristico, nello stesso modo in cui Čajkovskij lo esprime sinfonicamente nel terzo tempo della Patetica?).
Ecco, scandagliando l’interpretazione fatta in questa registrazione si ha tutto ciò, con gli interpreti che sono stati in grado di restituire, tassello dopo tassello, il quadro intero del puzzle, incorniciando una lettura pressoché ideale, connotandola di un esprit i cui slanci, le cui ombrose interiorità sono intrisi di quell’essenza di maladie che è insita nell’opera chaussoniana (il finale del Grave, in tal senso, è stupendamente paradigmatico). Insomma, una resa artistica da parte di Zunica, Ghidoni e del Quartetto Boito che fa sì che tale incisione si ponga, senza se e senza ma, tra i punti di riferimento in ambito discografico del capolavoro del compositore francese. Folgorazione.
Maurizio Carrettin si è occupato della presa del suono, riuscendo a riproporre un timbro più che buono nei quattro parametri; la dinamica è contraddistinta da un’ottima velocità nei transienti e da un’accettabile naturalezza, quasi esente da enfasi digitali, così come il palcoscenico sonoro, così delicato per la particolare formazione cameristica proposta, vede la corretta ricostruzione dei vari strumenti con una spazialità ariosa, il che permette al dettaglio di fornire la debita matericità agli stessi strumenti. Infine, nulla da obiettare sull’equilibrio tonale, sempre rispettoso nella corretta riproposizione timbrica, presente anche nei momenti di maggiore climax.
Andrea Bedetti
Ernest Chausson – Concert in D Op. 21 for piano, violin, and string quartet
Paolo Ghidoni (violino) - Leonardo Zunica (pianoforte) - Boito Quartet
CD Da Vinci Classics C00290