Dopo tre lavori da leader realizzati in trio e il recente episodio in duo con Mattia Cigalini “Right Now” (CAM Jazz, 2015), “Piano Tales” (CAM Jazz, 2016) è il primo album in pianoforte solo di Enrico Zanisi. Con il giovane pianista, classe 1990, abbiamo parlato di questo snodo importante della sua vicenda artistica
Un album in solo, per un musicista in genere e per un pianista in maniera particolare, è una prova di maturità. Cosa ti ha spinto a incidere “Piano Tales” (CAM Jazz, 2016) in questo momento?
Prima di realizzare questo disco mi era già capitato di essere contattato da alcuni promoter e organizzatori di rassegne per suonare in pianoforte solo, dunque nel tempo mi sono appassionato a questa formula e ho cercato di studiare per migliorarmi. Quando è arrivata la proposta di andare in studio di registrazione ho pensato fosse una cosa naturale, sebbene fossi consapevole dell’importanza di questo passo.
Prima della registrazione, avevi già in mente cosa avresti suonato?
Sapevo che avrei dedicato molto più spazio all’improvvisazione che ai brani veri e propri, ma avevo comunque portato diverso materiale. Nella cartellina c’erano brani miei, un foglietto con su scritta una lista di standard, un paio di estratti di musica classica e qualche altro spunto, ma alla fine la maggior parte delle idee musicali che si trovano nell’album sono venute direttamente in studio.
Il produttore della CAM Jazz Ermanno Basso ti ha lasciato molta libertà o ti ha consigliato su qualche aspetto?
È stata una registrazione molto naturale, mi sono sentito completamente libero nella mie scelte.
Qual è la caratteristica del disco che ti soddisfa maggiormente?
C’è una certa tranquillità. Mi sento di dire che non c’è stata fretta nel registrarlo, ho cercato di prendermi il tempo necessario per la realizzazione di un lavoro così importante e impegnativo, ma allo stesso modo così stimolante e coinvolgente. Credo, inoltre, che dal disco trapeli un certo intimismo, caratteristica che sento rispecchiata anche nei miei concerti di pianoforte solo.
Hai tenuto fuori del materiale?
Sì, ho lasciato fuori diverso materiale, soprattutto per una questione di scaletta. Alcuni brani che avevo registrato non mi sembravano avessero quella urgenza espressiva che altri avevano, e sicuramente, mancando di tensione, avrebbero impoverito la tracklist.
Molti brani sono di breve durata. C’è un motivo particolare?
Non c’è un motivo particolare, se non il fatto che sul momento molte improvvisazioni hanno assunto quasi la forma di brevi capitoli di una storia più completa. Alcune improvvisazioni che nella scaletta del disco sono separate in realtà in studio le ho suonate di fila, quasi fossero una suite con episodi diversi.
Molto spazio è stato lasciato all’improvvisazione.
Sì, direi che la maggior parte del disco è improvvisata. Ho deciso, così come nei miei concerti dal vivo, di lasciare spazio a molte improvvisazioni libere. I brani “canonici” del disco sono tre mie composizioni, uno standard e una melodia di Wagner, dove comunque l’improvvisazione predomina.
A parte l’improvvisazione, il lavoro è tenuto insieme da un comune denominatore?
Non è un disco programmatico, dunque non c’è un’idea di fondo specifica alla quale mi sono ispirato. I titoli delle improvvisazioni sono postumi, li ho dati in base alle suggestioni che mi arrivavano dal loro ascolto. Il titolo del disco è arrivato alla fine del percorso, e, rispetto al mood dei brani, “Piano Tales” mi è sembrato calzante.
Quali sono le influenze, studi, autori, correnti, che hanno determinato il tuo stile?
Sono cresciuto con la musica (i genitori di Enrico Zanisi sono entrambi musicisti diplomati, NdR) e ho suonato e ascoltato molti generi diversi. Per formazione pianistica sono un appassionato e studioso della musica classica, ma ho suonato diversi anni fa anche molto rock progressive, pop e altro. Il jazz è entrato nella mia vita a quindici anni, quando rimasi folgorato da un disco di Oscar Peterson, “The Sound Of The Trio” (Verve, 1961). Da quel momento decisi seriamente di intraprendere la strada dell’improvvisatore, studiando il più possibile l’arte di tutti quei musicisti che mi appassionavano di volta in volta, come Thelonious Monk, John Coltrane, Bill Evans, Keith Jarrett, solo per citarne alcuni, cercando sempre di aggiungere un nuovo tassello alla mia concezione musicale.
Sei molto giovane, ma allo stesso tempo la critica e il pubblico riconoscono in te un certo spessore. Che effetto ti fa?
Fa sempre piacere ricevere la stima di chi ascolta e segue il tuo lavoro, ma l’importante è continuare a studiare e a migliorarsi sempre, proseguendo con sincerità ed entusiasmo nella propria ricerca musicale.
Il tuo modo di essere musicista è influenzato da altre forme artistiche?
Il mio modo di essere in generale è influenzato da molte cose. Credo si possa dire, sebbene non in assoluto, che il nostro carattere e ciò che siamo si riflette in ciò che facciamo. Penso di non essere molto diverso da come suono, e i miei interessi, come la lettura, il cinema, viaggiare, l’arte in genere, influenzano me e il mio approccio alla musica.
Dedicare così tanto tempo alla musica, pensi ti abbia precluso altre esperienze di vita?
Penso di essere stato molto fortunato nell’avere avuto la possibilità di intraprendere questo percorso, e sinceramente non mi sento assalito da alcun tipo di rimorso. Così come nella musica anche nella vita bisogna prendere delle decisioni, fare delle scelte, rischiare qualcosa. Anche nei momenti più difficili bisogna sempre desiderare di fare quello che si ama, e cercare di ottenerlo, con grande umiltà e determinazione.
Hai un sogno o un obiettivo da raggiungere?
Difficile da dire, i sogni sarebbero tanti, alcuni utopistici. Per il momento preferisco concentrarmi sui progetti attuali, il piano solo e il mio trio, poi si vedrà!
Roberto Paviglianiti