Edoardo Strabbioli, raffinato interprete del repertorio romantico e docente di pianoforte, è anche un apprezzatissimo esecutore di musica da camera e in questa intervista spiega che cosa significa suonare insieme con altri artisti, soprattutto con quelli di levatura internazionale
Maestro Strabbioli, quali sono le doti, le qualità che servono a un musicista per ambire a far parte di un ensemble cameristico? Mi riferisco, in particolar modo, a chi è pianista come lei.
Direi che una delle doti fondamentali richieste sia senza dubbio il senso ritmico. Spesso mi capita di sentire commenti ammirati circa la capacità di essere insieme durante l’esecuzione, prendendo questo parametro a paradigma per una qualche dimostrazione di ore di prove… Nulla di più falso: quando si suona con grandi artisti questa è la parte più facile essendo il loro senso ritmico semplicemente perfetto. Di fatto non è quello il punto su cui si concentra il lavoro: fin dalla prima lettura l’insieme è automatico una volta staccato il tempo iniziale. Certamente bisogna che tutti i musicisti di un ensemble, sia esso un duo o un quintetto, abbiano questa capacità, specialmente se si affrontano capolavori molto complessi da questo punto di vista, penso ad esempio alle due Sonate di Bartók per violino e pianoforte. Anche la velocità nel comprendere le caratteristiche peculiari del proprio partner sono decisive. Vede, bisogna comunque specificare che esistono due possibilità di svolgere questo magnifico lavoro: la prima è costituire un gruppo stabile, un trio, un quartetto, un quintetto. In questo caso le prove saranno regolari e prolungate nel tempo, settimana dopo settimana, anno dopo anno o, se si è fortunati, decennio dopo decennio come insegnano il Trio di Trieste o il Quartetto Italiano. Si cresce e ci si evolve insieme con la ricerca di un pensiero comune, sviluppando una sonorità globale che tenda ad essere il più possibile omogenea nella resa e nei contenuti.
La seconda possibilità è invece diventare quello che una volta si definiva (erroneamente, sia chiaro !) un “accompagnatore”. In questo caso ti troverai ad interagire con musicisti assai diversi tra loro e la tua capacità di essere veloce e flessibile sarà fondamentale. La velocità, la prontezza e la preparazione diventano fondamentali anche perché spesso i grandi solisti non hanno tempo per prove prolungate. Si deve arrivare alla prova perfettamente preparati e bisogna avere i nervi saldi dal momento che ti può capitare di dover salire sul palcoscenico magari con poche ore di prova fatte il giorno prima o addirittura il giorno stesso della performance. Non a caso ho evitato di inserire il Duo nella precedente esemplificazione. È un fatto che non esistano quasi Duo stabili perché il mercato spesso considera lo strumentista che sta alla destra del pianista come l’unica fonte di interesse per il cartellone. Si cerca il nome di richiamo del violinista o del violoncellista famoso e di fatto non ci si preoccupa minimamente di chi sarà il suo pianista. Ovviamente la prospettiva cambia se quest’ultimo sarà a sua volta una superstar, cosa che oggi accade sempre più frequentemente, anche per la mutata sensibilità dei tempi verso questa esclusiva forma di musica. Quando ero un giovane studente al Conservatorio di Milano non potevo nemmeno immaginare un Pollini o un Michelangeli che facessero duo. Fortunatamente Ashkenazy e Martha Argerich hanno in seguito dimostrato a tutti quanto si possa essere grandi solisti e grandi cameristi allo stesso tempo. Certo, poi diventa un problema di costi assemblare questi gruppi di solisti che solo grandi festival internazionali dotati di grandi sponsor possono permettersi. E, naturalmente, questa partecipazione dei grandi solisti all’interno dei festival cameristici ha anche innalzato (ma questo mi pare un aspetto positivo!) quello che potremmo definire il livello d’ingresso (sia dal punto di vista tecnico, sia di quello interpretativo) a questo mondo per tutti quei pianisti che appunto una volta venivano chiamati “accompagnatori”!
Molti appassionati, ma che non sono addetti ai lavori, si chiedono quali differenze possano esserci, a livello esecutivo, timbrico, tecnico, tra un pianista che fa musica da camera con altri artisti e un pianista, invece, che accompagna un cantante. Ce le può spiegare?
Secondo me nessuna. Di fatto quello che più ho cercato negli anni suonando con altri strumentisti è stato di cercare di minimizzare o meglio neutralizzare quelle caratteristiche che io reputo sgradevoli del mio strumento: la percussività dovuta al naturale percuotere la corda da parte dei martelletti. Noi pianisti non possiamo vibrare, non possiamo crescere durante un accordo (come a volte richiede Beethoven dandoci così la dimostrazione di quanto lui pensasse sempre all’orchestra anche quando componeva per pianoforte solo!), non possiamo di fatto legare se non ricorrendo a una serie di accorgimenti che implicano l’uso sapiente del rubato e del pedale. Tutte caratteristiche che sono comuni invece negli strumenti ad arco o negli strumenti a fiato così come nei cantanti. Ma poiché alla fine tutti cerchiamo sempre di imitare lo strumento più perfetto che la natura ha creato, cioè la voce umana, il problema direi che sia inesistente!
Lei ha avuto e ha modo tuttora di suonare con grandissimi interpreti del panorama internazionale: quali sono gli aspetti caratteriali, le motivazioni, le caratteristiche artistiche e anche umane di questi artisti che la colpiscono in modo particolare?
Premetto che finora ho avuto la fortuna di incontrare solo grandi artisti che si sono dimostrati essere anche delle persone meravigliose. Direi che quello che apprezzo di più è la loro semplicità e la loro capacità di essere “normali” una volta messo da parte lo strumento. Kyoko Takezawa, Wen-Sinn Yang o Sergej Krylov, solo per citarne alcuni, sono persone gradevolissime, divertenti e generose. A nessuno di loro verrebbe mai in mente di far pesare il loro status di star nè in prova nè nella vita di tutti i giorni. E l’amicizia e l’affetto che spesso scaturisce da questi incontri non fa che migliorare la qualità della musica che si cerca insieme. Naturalmente quando poi si esce e si va in palcoscenico tutto cambia e senti tutto il peso della responsabilità collegata comunque alla fortuna di poter suonare con loro…
Lei ha affermato che non ha voluto consacrarsi alla carriera solistica in quanto suonare da solo, alla fine, l’avrebbe annoiato. Può spiegare meglio questo pensiero?
Il concetto che avevo espresso era, in realtà, un po’ più complesso… ho parlato della durezza della vita del solista da tutti i punti vista. Penso sempre, quando vedo il calendario dei miei amici che sono impegnati quasi ogni settimana con varie orchestre sparse per tutti gli angoli del mondo, alla loro solitudine, ai pranzi, alle cene da soli, alle fredde camere degli alberghi, ai viaggi…. so che per loro è comunque alienante. Per fortuna ai nostri giorni internet e i moderni mezzi di comunicazione hanno reso la loro solitudine un poco più accettabile ma… quando suonano in duo in o trio sicuramente sono (almeno dal punto di vista umano) più contenti! È anche vero che ho visto con i miei occhi formazioni cameristiche stabili non sopportarsi più, al punto di fare colazione al mattino ai quattro angoli opposti della sala… La noia cui mi riferivo non era comunque riferita certamente al repertorio sconfinato dedicato al mio strumento, sarebbe da pazzi sostenerlo. Faceva in realtà riferimento alla timbrica del pianoforte: poterlo, diciamo così, “shakerare” di volta in volta con gli strumenti più disparati rende la ricerca più stimolante. Ad esempio, l’anno scorso ho avuto modo di suonare più volte con il Signum Saxophone Quartet, un ensemble prodigioso e le assicuro che suonare per la prima volta con quattro sassofoni mi ha messo davanti a problematiche che mai mi sarei aspettato di dover affrontare. Tanto è vero che quando abbiamo suonato il Finale dell’Uccello di Fuoco di Stravinskij ho dovuto dar fondo a tutta la mia energia per poter essere sentito! All’opposto si deve generalmente stare attenti a non coprire gli strumenti ad arco, sia quando si fa un cantabile sia quando si sale nel registro dei “Forte” o (ancora peggio!) del “Fortissimo”.
Presso il pubblico di coloro che seguono più o meno attentamente la musica classica, l’ascolto della musica cameristica risulta essere sempre più problematico rispetto a quello sinfonico e concertistico, generi che generalmente fanno maggiore presa. Quali sono, a suo avviso, i motivi per i quali la musica cameristica, volente o nolente, rappresenta sempre un genere di nicchia, almeno qui in Italia?
Quando ero in tournée (ormai più di vent’anni fa) con Frank Peter Zimmermann lui prediceva un triste destino per la musica classica. Mi parlava degli USA e di come il recital stesse scomparendo. Si lamentava del fatto che oramai la carriera prevedesse in quel Paese sempre e solo gli stessi cinque o sei concerti di repertorio, ovviamente Beethoven, Brahms, Tchaikovskij, Mendelssohn e pochi altri. Sosteneva che prima o poi questo modo di fare musica ci avrebbe invaso. Triste constatare che non sbagliava affatto. Il pubblico vuole solo le (poche!) cose che conosce o canticchia, quindi la Nona di Beethoven ad oltranza o, nel caso dei pianisti, l’Imperatore… Questo vasto oceano di pensiero e di sentimenti che è la musica da camera sembra allontanarsi sempre più dai frenetici e assordanti ritmi odierni. A volte penso anche che persino i decibel influenzino il gusto del pubblico: riflettiamoci. Siamo bombardati da sollecitazioni auditive sempre più violente, per non parlare della discoteca che in teoria non dovrebbe riguardarci, basterebbe pensare al volume assordante che oramai propone la sala cinematografica, all’abitudine dei decibel ai concerti rock, al volume con cui i giovani ascoltano il rap in cuffia o a quello che noi stessi teniamo con il televisore di casa. Un mondo di silenzi o di colori, di rarefazione o di ritmica complessa sembra non appartenere più al nostro Zeitgeist, ossia al nostro spirito del tempo. Oggi l’inizio dell’opera 131 di Beethoven parrebbe essere più un commento a un nuovo film di Kubrick che non un sommo capolavoro da ascoltare ad occhi chiusi, trattenendo il fiato. Diciamo poi che tutto il sistema italico della scuola ignora culturalmente la musica classica tout court. Un Paese che non mette l’educazione musicale ai primi posti della sua scala di valori sin dalla più tenera età non offre grandi speranze per questo tipo di arte.
Tornando ai grandi interpreti che ha avuto modo di conoscere, di frequentare o con i quali ha suonato insieme, può ricordare alcuni aneddoti che li riguardano?
La mia vita è stata in effetti molto fortunata e ho avuto la possibilità di conoscere, collaborare o semplicemente frequentare alcuni dei più grandi artisti del nostro tempo. Certo di aneddoti ne potrei raccontare moltissimi. Mi piace sempre raccontare di quando, ancora giovane, ho avuto modo di conoscere il grande pianista Andrei Gavrilov a Mosca, ai tempi dell’Unione Sovietica. Era passata la mezzanotte quando propose di andare a casa di sua mamma e suonare un po’. Io titubavo, visto l’orario, ma lui mi ripeteva con la sua voce stentorea “This is Moscow, not Verona… Play!”. Finì con una pattuglia della guardia rossa che per poco non buttava giù la porta per farci smettere. Lui non sembrava affatto impressionato io invece (poco più che ventenne e con i muri della storia ancora alti e saldi) ero letteralmente terrorizzato… Rimane comunque il ricordo di lui che mi spiegava come legare e come rubare, suonando un preludio di Rachmaninov. Un’esperienza che mi cambiò profondamente e che anche oggi tengo sempre presente quando devo fare una frase.
Ma ricordo anche tutte le cene dopo i concerti fatti con Pierre Amoyal durante le quali lui si rivelava un instancabile narratore di aneddoti sul suo Maestro, l’inarrivabile Jascha Heifetz. Fu lui a farmi scoprire con sommo stupore di quanto questo sommo violinista fosse in realtà terrorizzato dal palcoscenico, qualcosa che nessuno mai avrebbe immaginato. Una volta, prima di un suo concerto all’Hollywood Bowl di Los Angeles, Heifetz lo chiamò con una scusa qualsiasi e quando Pierre arrivò a casa sua a mezzogiorno lo trovò già vestito in frac… Di fronte alla faccia stupita di Amoyal ed alla sua domanda di cosa ci facesse già vestito con così tante ore di anticipo, Heifetz rispose semplicemente: “Ancora non mi conosci? Non lo sai che se aspettassi di vestirmi all’ultimo non avrei più il coraggio di farlo?”. Almeno per un momento mi ha fatto sentire uguale al grande Maestro!
Andrea Bedetti