La pianista Ginevra Costantini Negri e il direttore Enrico Saverio Pagano sono i protagonisti, con il mezzosoprano Manuela Custer e l’orchestra Canova, di un CD della Sony dedicato ai concerti per tastiera e alle sinfonie operistiche di Giovanni Paisiello. Ne abbiamo parlato con i primi due artisti, i quali mettono in luce come per questo autore sia importante esaltarne il carattere, oltre l’eleganza e il gusto, evitando un approccio rigorosamente filologico
Maestro Costantini Negri, con questa registrazione lei ha voluto, dopo il disco del debutto consacrato al Rossini pianistico, tornare indietro nel tempo, ossia a uno dei pochi autori italiani del tardo Settecento, Giovanni Paisiello, votato non solo alla musica strumentale ma anche, attraverso di essa, a trasferire sulla tastiera quei tratti psicologici, quelle soluzioni sceniche che appartengono alla musica teatrale di quel tempo. Cosa che poi Rossini tradurrà, a suo modo e con la genialità che lo contraddistingue, nelle sue tarde pagine pianistiche. Che cosa differenzia il Paisiello concertista dal Rossini pianista? E quali sono, al contrario, i tratti che li collegano?
Innanzitutto cominciamo col dire che Paisiello scrive gli otto concerti per tastiera e orchestra nel pieno della sua attività, quando si trova a San Pietroburgo alla corte di Caterina II di Russia. Questi concerti sono caratterizzati da una scrittura essenziale, scarna e anche ripetitiva, armonicamente semplice e questo in particolar modo nel caso del concerto in Fa maggiore. La difficoltà di questi pezzi non è dunque di natura tecnica, ma piuttosto quella di conservarne l’eleganza e il gusto e allo stesso tempo esaltarne il carattere. Un’operazione sicuramente più semplice nel caso del concerto in Sol minore, dal carattere drammatico, con grande ricchezza e varietà di idee. Non a caso questo concerto è considerato un unicum nella produzione di Paisiello. Grande libertà è anche lasciata all’interprete che ha la possibilità di arricchire la scrittura con fioriture e cadenze originali, come è il caso anche di questa incisione. Ricordiamoci poi che Paisiello scrive questi concerti per cembalo, come riporta il frontespizio dei manoscritti, ma che allo stesso tempo i concerti ben si prestano all’esecuzione su uno strumento moderno.
Rossini invece scrive i suoi Péchés de Vieillesse per il pianoforte, dopo il suo ritiro dalle scene e quindi senza l’assillo delle scadenze e dei committenti. Sono pezzi che compone per suo puro divertimento e in assoluta libertà. Il pianoforte diventa lo strumento per raccontare la sua vita. Nonostante Rossini si definisca - con una modestia che mi è apparsa subito sospetta- pianista di quarta classe, i suoi brani sono diabolici sia dal punto di vista tecnico che interpretativo e anche armonicamente molto più complessi. Per eseguire questi pezzi non basta una sicura padronanza dello strumento, ma occorrono anche grande ironia e persino doti attoriali. Quello che invece accomuna questi due compositori, come del resto lei ha già ben sottolineato, è che entrambi sono uomini di teatro e quindi anche le loro composizioni pianistiche riflettono la loro impronta operistica.
A soli vent’anni lei è già alla seconda registrazione discografica. Tenuto conto di questa peculiarità, unitamente a una precisa scelta del repertorio, che si potrebbe definire non solo artistica ma anche musicologica, quali saranno, sempre che già siano state decise, le sue prossime tappe a livello discografico?
Al momento sto lavorando ad alcuni progetti. Sicuramente sono molto legata allo studio e alla riscoperta del patrimonio pianistico italiano - sfortunatamente ancora molto poco eseguito - e di certo questa rimarrà una mia caratteristica. Per esempio, la stessa produzione pianistica di Rossini è sconfinata e non escludo di presentare in futuro un secondo CD rossiniano. Allo stesso tempo mi sto dedicando a un repertorio molto diverso che invece vede come protagonisti autori dal Novecento fino ad oggi come Gershwin, Kapustin e Bolcom. Vedremo…!
Maestro Pagano, nelle note di accompagnamento da lei curate per questa registrazione della Sony ha voluto precisare finalità non certo filologiche nell’affrontare le sinfonie operistiche di Paisiello. Una scelta per così dire à rebours rispetto a una certa moda attuale, la quale tende invece a rendere “storicamente informato” tutto ciò che riesce a toccare. Quali sono, a suo giudizio, i motivi antropologici e culturali che portarono la musica italiana del secondo Settecento e del primissimo Ottocento a trascurare la musica strumentale a favore di quella operistica? In tal senso, è celebre l’aneddoto legato a Liszt che quando si esibì alla Scala per la prima volta nel dicembre del 1837, proponendo anche lo Studio in sol minore, si sentì rispondere da uno spettatore che lui andava al teatro per divertirsi e non per studiare…
Fino alla fine del XVIII secolo l’estetica musicale italiana è stata una guida per gli altri Paesi europei: i compositori stranieri venivano a studiare in Italia, scrivevano opere in lingua italiana (con poche eccezioni, in particolare in Francia), e si adattavano al gusto e all’estetica del Belpaese. Gli anni ’50 e ’60 del Settecento consegnano un’Europa in cui l’opera italiana è la forma di intrattenimento più in voga: i cantanti (in particolare i castrati cantori) sono delle super-star e i compositori lavorano con ritmi inimmaginabili. In questo periodo però cominciano a cambiare le carte in tavola e nei Paesi di lingua tedesca iniziano a imporsi nuove forme di musica strumentale assoluta (nel senso etimologico del termine). Il pubblico austro-tedesco inizia a essere affascinato da composizioni sempre più introspettive e complesse (basti pensare allo Sturm und Drang haydniano degli anni ’70) che all’inizio dell’Ottocento porteranno ai lavori di Beethoven e Schubert. In questo senso l’Austria e la Germania sviluppano una forma d’arte musicale finalmente aderente al loro spirito e alla loro natura che, per ragioni sociali e religiose (il protestantesimo in primis), è molto più legata alla sfera spirituale dell’individuo di quanto non lo sia natura italiana. Questo passaggio ovviamente non è netto e improvviso, ma piuttosto molto graduale, tanto da portare a una convivenza per diversi anni dell’opera italiana e delle nuove forme strumentali (la Sinfonia, il Quartetto ecc.): compositori come Mozart e Haydn infatti scrivono sia opere liriche in lingua italiana sia sinfonie e musica da camera. In Italia, invece, il pubblico continua - e continuerà ancora a lungo - ad amare il teatro musicale, con la sua spettacolarità, il suo divertimento e la sua immediatezza comunicativa.
È sua intenzione continuare a indagare a livello discografico altri scorci della musica strumentale italiana di quell’epoca e sempre con le medesime scelte interpretative adottate per questo disco su Paisiello?
Sicuramente l’Orchestra Canova è nata per esplorare in particolare, ma non solo, gli anni in cui lo stesso Canova è vissuto, e questo ci porterà senz’altro ad affrontare nuovi progetti discografici dedicati a tale periodo. Credo ci siano tanti modi possibili di affrontare una partitura in modo filologico. Sicuramente il più evidente è quello che riguarda la scelta se eseguire o meno un determinato brano con strumenti moderni o originali. Per The Paisiello Academy si è scelta la prima strada, ma io non sono assolutamente contrario (anzi!) allo strumento originale (lo studio con il M° Alessandro Quarta, in particolare, mi ha portato a lavorare con diversi ensemble di questo tipo). Credo però che esista anche un’altra possibilità di ricerca filologica che riguarda, più che il suono, le intenzioni e l’universo estetico dei compositori. L’estetica della fine del Settecento in Italia è ancora strettamente legata ai concetti di meraviglia e stupore barocchi. Da questo punto di vista gli strumenti moderni permettono, forse addirittura più di quelli originali, di esasperare alcune sonorità e intenzioni per ricostruire quello che avrebbe potuto essere il desiderio del compositore. È una filologia molto diversa dal ricreare il suono e la musica che verosimilmente avrebbe potuto ascoltare Paisiello (o altri), ma è piuttosto un calarsi nei suoi panni di compositore e provare, come probabilmente era sua intenzione, a stupire ed entusiasmare il pubblico con sonorità nette e decise, a volte anche ruvide, ma con sempre il medesimo obiettivo.
Andrea Bedetti