Fino al 22 settembre 2022, nelle sale del Museo Bailo a Treviso è allestita la mostra Canova gloria trevigiana, dedicata al rapporto che il grande scultore di Possagno ebbe con la propria terra, oltre a mettere in risalto gli influssi che la sua opera ebbe nella successiva generazione romantica, sganciandola quindi di fatto dai confini storicamente neoclassici

Strano destino quello di Antonio Canova, il quale omaggiato, ammirato, persino idolatrato e preso a modello, dopo la sua morte, dall’arte e dall’estetica romantiche, fu poi repentinamente dimenticato, messo da parte dall’avvento del Novecento e delle sue avanguardie, poiché considerato ormai un testimone scomodo di un’epoca artistica, quella neoclassica, accusata solo di essere un cliché sbiadito e patetico dell’antichità classica. Si dovrà dunque attendere la fine del secondo conflitto mondiale e l’intervento critico, esemplare, lucido, come sempre, di Mario Praz, il “custode” del Neoclassicismo in ogni sua forma e aspetto, perché si compisse un’azione di controtendenza, dando avvio a un’operazione già vista parecchie volte, e non solo in ambito artistico, quella della rivisitazione, di una Renaissance capace di riportare in auge ciò che si credeva ormai morto e seppellito, in questo caso proprio il grande artista veneto, la “mano armata” di Johann Joachim Winckelmann e della sua concezione che vedeva nel Neoclassicismo il ritorno a quell’ideale incarnato dalla Grecia antica, la cui arte scultorea si fondava su una «nobile semplicità e quieta grandezza», per usare la celebre espressione del critico e teorico brandeburghese.

Antonio Canova nel ritratto dipinto da Angelica Kauffmann.

Dalle pagine di Praz ad oggi molte cose sono cambiate, riportando così in auge la figura e l’opera di Antonio Canova, restituendone l’insostituibile ricchezza e la necessaria grandezza, in quanto lo scultore e pittore di Possagno, oltre all’importanza del suo credo artistico, si pone storicamente sempre più come elemento collante, anello di raccordo tra l’epoca da lui incarnata, quella del Neoclassicismo, appunto, e quella che con il Neoclassicismo stesso visse e sperimentò un rapporto ambiguo e contrastato, il Romanticismo. Proprio il possibile rapporto tra Canova, visto come geniale anticipatore, e il Romanticismo è al centro di una stimolante mostra allestita a Treviso, nelle sale del Museo Bailo fino al 25 settembre 2022, un allestimento che porta il titolo di Canova gloria trevigiana - Dalla bellezza classica all’annuncio romantico, a cura di Fabrizio Malachin, Giuseppe Pavanello e Nico Stringa, la cui realizzazione espositiva sembra completare idealmente una sorta di trilogia che ha preso avvio con la recenti mostre di Napoli (incentrata sul rapporto di Canova con l’antico) e di Roma (Canova e l’ideale di bellezza). Ma l’allestimento trevigiano, oltre a voler chiudere il trittico e il cerchio, indagando su Canova come possibile annunciatore della rivoluzione artistica ed estetica romantica, intende mettere in luce un altro tipo di rapporto, quello che lo scultore e pittore ebbe con il luogo natio, Possagno, e con la marca trevigiana.

Non per nulla, proprio Treviso fu il primo centro che si attivò nel 1823 per celebrare Antonio Canova dopo la sua morte, avvenuta a Venezia il 13 ottobre dell’anno precedente nella dimora dell’amico Valentino Francesconi, commissionando la realizzazione di un busto commemorativo a Luigi Zandomeneghi e un componimento musicale al più famoso musicista del tempo, Gioachino Rossini, il quale scrisse per l’occasione la cantata Per la commemorazione di Antonio Canova. Omaggio Pastorale. Un affetto e un’attenzione che non si esaurirono con questi due omaggi artistici, ma che si rinnovarono più di un secolo dopo anche a livello critico, proprio in un momento storico, scritti del già citato Mario Praz a parte, nel quale l’artista di Possagno era stato dimenticato, se non disprezzato. E questo grazie alla sensibile lungimiranza di Luigi Coletti, raffinato storico dell’arte attivo sul territorio della Marca, che nel 1957, in occasione del secondo centenario della nascita, volle organizzare la prima grande mostra monografica canoviana in Italia. Fu proprio in quell’occasione, nel corso del discorso pronunciato all’inaugurazione dello storico allestimento, che Coletti spiegò come, attraverso un’angolazione non tanto stilistica quanto poetica, si poteva «ben ascoltare, sentire l’annuncio romantico» presente nell’arte di Antonio Canova.

Il critico e storico dell'arte Luigi Coletti.

Un concetto o, meglio, una “premonizione”, che ora questo nuovo allestimento cerca di sviscerare a fondo, in profondità, andando a toccare il nervo, non ancora scoperto, del sentimento visto e reso nella materia scultorea da parte di Canova, facendolo entrare di diritto nella modernità romantica: ecco, allora, la presenza della fondamentale stele funeraria, da intendere come rapporto con la morte (elemento cardine dell’estetica romantica), attraverso quella dedicata a Giovanni Falier e quella voluta e realizzata a proprie spese per l’amico Giovanni Volpato, oltre alle lucide meditazioni fatte sulla figura femminile afflitta, con i gruppi gentili e amorosi (come nel caso dell’immancabile Amore e Psiche), che spinse lo stesso artista veneto a fissarne i paletti con la celebre affermazione: «Sappi disegno, anatomia e dignità: senti la grazia: intendi e gusta la bellezza: commuoviti del tuo affetto», una sentenza che già va oltre il mero Neoclassicismo, per farlo tuffare nel mare sconosciuto di un sentimento che diviene impalpabilità, al punto da rendere idealmente inquieto lo stesso concetto di forma classica.

Antonio Canova, Amore e Psiche.

E tra i tanti tesori esposti una particolare citazione meritano i calchi della mano destra di Canova e della sua maschera funeraria, autentiche “reliquie” dell’artista, e sui quali lo stesso Fabrizio Malachin ha speso parole importanti. «Per capire l’importanza di questi due “reperti” bisogna tornare al clima culturale dell’epoca. Quando, il 13 ottobre 1822, Canova muore a Venezia, scatta la caccia alle sue reliquie, quasi fosse un santo. Uno dei primi biografi, Pier Alessandro Paravia, riferisce che il giorno dopo la morte “si fece la sezione del cadavere alla presenza de soprintendenti Aglietti e Zannini, a cui si aggiunsero Pietro Pezzi e Tommaso Rima, chirurgo primario di questo nostro spedale”. Fu lo stesso Paravia a pubblicare in antiporta l’incisione della “maschera cavatagli dopo morte”. Il gesso suscita oggi un po’ di sensazione “per l’efficacia con cui mostra la decadenza fisica provocata dalla malattia e dalla vecchiaia nell’artista della bellezza ideale”, ma ha un valore documentale relativo sia all’aspetto dell’artista che al macabro “mercato”, gestito da Leopoldo Cicognara in accordo con l’erede Sartori, che si fece subito dopo la morte. Un feticismo, sostenuto certo dal mito stesso di Canova, che portò all’eccesso di fare a pezzi un cadavere per conservare la memoria di uno spirito geniale. Così il cuore, simbolo dell’amore, è toccato ai Frari (da pochi anni è tornato a Possagno ed è ora riposto accanto ai resti mortali di Canova nel suo Tempio), mentre la mano destra, strumento della creatività artistica, al tempio dell’arte veneziana, l’Accademia delle Belle Arti, e con il calco della mano sinistra a Possagno».

La maschera funeraria di Antonio Canova.

Da ultimo, la mostra trevigiana espone, per la prima volta dopo il restauro, due meravigliosi gessi originali dello scultore, patrimonio delle Assicurazioni Generali, opere di grandi dimensioni (141 x 280 cm), raffiguranti due diversissimi soggetti, l’uno - realizzato dall’artista tra il 1787 e il 1790, raffigurante La morte di Priamo; il secondo, datato al biennio immediatamente successivo, raffigurante La danza dei figli di Alcinoo. Come scrive ancora Fabrizio Malachin nel raffinato ed esaustivo catalogo da Antiga Edizioni, «Il sublime tragico è protagonista della prima composizione, dove domina il dolore e l’angoscia, e con accenti di verità arditi e nuovi, specie nella scelta di rappresentare Pirro totalmente ignudo. Oltre all’ardimento di quel nudo, offerto allo sguardo dell’osservatore con tale evidenza, brani intensissimi sono le figlie di Priamo: a sinistra, con le braccia spalancate verso l’alto implorano pietà, come la Maddalena ai piedi della Croce in un’opera dei “Primitivi”; a destra, fuggono atterrite, una stringe il suo bambino come nelle Stragi degli innocenti; e ancora, all’estrema sinistra, la moglie di Priamo sviene e a stento viene sorretta, ricordo di una Vergine ai piedi della Croce». Ideale continuazione di questo bassorilievo è La danza dei figli di Alcinoo(argomento, questa volta, che esplora la gioia, la grazia, la vivace ilarità). Episodi entrambe ispirati alle vicende della guerra di Troia e all’epopea di Ulisse, attingendo all’Odissea e al II libro dell’Eneide.

Antonio Canova, La danza dei figli di Alcinoo.

«Questa serie dei bassorilievi in gesso viene a inscriversi in quella che si può definire, usando un termine in auge nell’arte contemporanea, una “produzione seriale”;», continua a spiegare Malachin nelle pagine del catalogo, «e pure in questo Canova rivela caratteri che contribuiscono a indicarlo come il primo artista moderno. Queste opere sono la dimostrazione della gara ingaggiata dallo scultore per sostenere il primato della sua arte sulla pittura: opere quindi di carattere narrativo. E a sfida è ancora più impegnativa dove si chiede alla scultura di affrancarsi dal peso. La danza, per leggerezza dei movimenti, è quanto di più azzardato si poteva concepire. Il percorso iniziato da La danza dei figli di Alcinoo lo porterà alle Danzatrici, con le mani sui fianchi, il dito al mento, i cembali, a testimoniare che nulla è impossibile alla scultura quando l’artefice è Canova. Per dirla con Luigi Coletti, “fu vera gloria?”, e la risposta: “Canova ha sempre ragione”».

Andrea Bedetti

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