Non è facile vivere e crescere all’ombra dei grandi, quando questi ultimi si chiamano Johann Sebastian Bach o Georg Friedrich Händel, che possono essere equiparati a maestose querce i cui rami si estendono a tal punto da coprire con la loro ombra altre piante considerate dalla storia meno rigogliose, ma non per questo meno importanti nello sviluppo musicale, così come i cespugli e gli altri vegetali che crescono sotto gli alberi sono altrettanto fondamentali per la vita e la sopravvivenza dell’habitat naturale. Allo stesso modo, possiamo considerare quei compositori che vissero e operarono nello stesso periodo in cui il sommo Kantor e il grande Sassone produssero i loro capolavori, tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà di quello successivo, ossia coloro che fornirono una spinta prodigiosa al linguaggio musicale, ponendo le basi armoniche e melodiche di tutto ciò che sarebbe venuto dopo. E tra coloro che possono essere annoverati tra i “cespugli” della musica di quel tempo vi è anche il tedesco Johann Mattheson nato ad Amburgo nel 1681 e morto nella medesima città anseatica nel 1764.
Mattheson rappresenta il tipico esempio di un artista illuminato che visse nel cuore del Barocco, un periodo che ispirò e promosse il sapere e gli interessi a livello interdisciplinare, retaggio di quel mirabile tempo che fu il Rinascimento. E Mattheson, in ciò, non fu da meno visto che nel corso della vita fu cantante, teorico musicale, compositore, lessicografo, scrittore e diplomatico al servizio dell’ambasciatore inglese Sir John Wyche; insomma, uno spirito multiforme, capace di parlare quattro lingue, di saper suonare ottimamente gli strumenti a tastiera e di vantare una cultura anglosassone (sposò nel 1709 una donna inglese, Catherina Jennings), oltre a quella di matrice germanica. E, in ambito musicale, se il compositore amburghese dovette fare i conti con giganti quali Bach e Händel nel corso della sua vita, oltre a subirne in seguito la maggior fama, al punto la storia successiva e i posteri misero ai margini il suo nome e le sue opere (solo negli ultimi decenni è stata fatta parzialmente un’opera di recupero della sua figura di artista e dei suoi lavori), è anche vero che durante la sua attività Mattheson si fece maggiormente conoscere nelle vesti di teorico musicale più che in qualità di musicista, un altro aspetto che ha gettato ulteriormente ombra sul catalogo delle sue composizioni. Composizioni che, data la sua vocazione di cantante, si basano maggiormente sul repertorio operistico (otto titoli), su quello delle cantate e, in ambito sacro, sugli oratori, mentre quello strumentale si focalizza su qualche sonata e su brani per strumenti a tastiera. Per ciò che riguarda questi ultimi c’è da segnalare la recente registrazione delle dodici Suites per clavicembalo, pubblicate in due volumi nel 1714, da parte di Alessandro Simonetto per l’etichetta Brilliant, una registrazione che permette di fare finalmente un po’ di chiarezza su Mattheson come compositore strumentale.
Le dodici Suites riscossero fin da subito l’interesse di Händel (ricordiamo che il Sassone nel 1720 pubblicò un corpus di otto Suites per clavicembalo, seguito tredici anni dopo da una nuova raccolta con nove Suites) che volle subito averle per poterle eseguire e studiare, cosa che si comprende facilmente se dopo aver ascoltato le Suites di Mattheson facciamo la stessa cosa con quelle di Händel. Potremo allora notare come la struttura delle opere per clavicembalo del musicista di Halle esprima una concezione simile a quelle del collega amburghese, ossia come entrambi abbiano potuto considerare la Suite come una sorta di elaborazione (quelle di Mattheson vantano dai quattro tempi, Suite n. 3 in re maggiore, agli otto tempi, Suite n. 5 in do minore), un dipanarsi in cui la dimensione del “racconto”, del susseguirsi di immagini e di risvolti psicologici ed emotivi rimandi a un’idea e di ideale di “teatralità” affettiva, che contrasta invece con l’idea di Suite presente in Bach, in cui si fa pressante la concezione dell’Übung, dell’“esercizio”, che nelle sue incommensurabili bellezza e profondità formali resta quasi inattingibile, scevra da quel rapporto che lega l’uomo all’uomo per fissarlo tra uomo e l’Altro, dove per altro s’intende una dimensione ultraterrena, verticale e non più orizzontale.
Mattheson, invece, come Händel, punta a un eloquio, a una struttura in cui la dimensione del fraseggio, perfino di un “legato” rimanda necessariamente a un flusso orizzontale che dev’essere inteso come storia, un filo narrativo in cui la musica “racconta”. Da qui scansioni umorali, slanci vitalistici, discorsi aperti al confronto, musica fatta anche di carne, ossa, di vite sperimentate e poi spiegate, rientrando di diritto in quel serbatoio a sé stante del Barocco che non è solo l’esaltazione dello spazio, ma anche del tempo, in quanto in queste Suites, come in quelle successive di Händel si avverte anche lo scorrere temporale, il fluire di una musica che porta in sé il succo del tempo che illustra. Opere, insomma, che gettano una luce di modernità, se per modernità intendiamo il desiderio di raccontare non la mitologia, non la dimensione ultraterrena, ma quello di gettare uno sguardo sull’uomo in sé, capace di agire per poi raccontarsi ciò che ha fatto, intravvedendo nella figura dell’artista colui che testimonia, che si fa garante della storia da raccontare, anticipando di fatto colui che crea in quanto precursore e “veggente”, secondo la tipica visione così cara al successivo Romanticismo. Una posizione del tutto innovativa e che proviene, guarda caso, da un musicista che improntò non solo la sua concezione musicale, ma anche e soprattutto quella teorica della musica, in stretta relazione con la retorica del proprio tempo, ossia votata a una forma rigorosa, “matematica”, logica, sebbene sensibile e incline all’Affektenlehre.
La lettura fatta da Alessandro Simonetto, artista a dir poco eclettico, quindi barocco, in grado di essere produttore discografico, pianista, clavicembalista e musicologo, segue questa linea clavicembalistica “narrativa” di Mattheson (tra l’altro lo strumento che ha utilizzato per questa registrazione è una copia del clavicembalo di Ioannes Ruckers costruito ad Anversa nel 1638, ad opera dell’artigiano William Horn e adattato dallo stesso Simonetto), con un fraseggio che richiama un sentore maggiormente “pianistico” più che clavicembalistico, votato a una tessitura, a una linea esecutiva capace di porre per l’appunto in rilievo la dimensione “teatrale” (da qui il fascino che Händel provò nell’eseguirle!), confezionando un’interpretazione in cui i colori, le venature, i connotati psicologici vengono rivelati senza essere oltremodo accentuati, con il rischio di snaturare di fatto la concezione stessa della loro creazione (tra l’altro l’interprete si è avvalso per la registrazione della stampa originale del 1714 di queste dodici Suites). Un’esecuzione, quindi, palpitante, in cui la struttura clavicembalistica si trasfigura in una materializzazione di continue immagini e sfaccettature tali da rendere coinvolgente l’ascolto.
Anche la presa del suono è stata realizzata con meticolosità e attenzione audiofile: la dinamica vanta una naturalezza e una velocità che sono rare da ascoltare sul formato digitale del CD (e questo vale anche per la microdinamica), mentre il palcoscenico sonoro restituisce lo strumento al centro dei diffusori a non più di tre metri di distanza, con una matericità davvero ragguardevole e con un equilibrio tonale che permette di non perdere un solo accordo quando vengono sollecitati contemporaneamente i registri estremi.
Andrea Bedetti
Johann Mattheson – 12 Suites for Harpsichord
Alessandro Simonetto (clavicembalo)
2CD Brilliant – 95588
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5