Nell’immaginario comune è ben nota la presunta rivalità tra Antonio Salieri e Wolfgang Amadeus Mozart nella Vienna della seconda metà del Settecento. Pochi, però, conoscono quello che avvenne dopo la morte del sommo genio salisburghese (avvenuta nel dicembre del 1791): Leopold Koželuh, un compositore boemo nato pochi anni prima di Mozart, prese il ruolo di compositore di corte a Vienna (per la precisione quello di Kammer Kapellmeister, ossia direttore musicale, e quello di Hofmusik Compositor, compositore di corte), rimasto per l’appunto vacante dopo la morte di Mozart. Una scelta, questa, che potrebbe far pensare che il compositore nato a Velvary nel 1747 fosse meritevole, a giudizio di chi lo scelse, di vantare quelle doti, quelle qualità che hanno poi sancito, nel corso del tempo, la grandezza del genio salisburghese.
Ovviamente, il tempo, che a volte è anche galantuomo, ci ha permesso di capire che non è così, visto che anche i sassi sanno chi è Mozart, mentre il povero Koželuh (e le sue opere) è un nome che viene masticato quasi esclusivamente dagli addetti ai lavori. Però, a onor del vero, è indubbio che si possano notare delle affinità stilistiche tra Mozart e il collega boemo, per quanto quest’ultimo si avvicini, nel complesso, più allo stile beethoveniano e a quello schubertiano. Ed è altrettanto vero che i coevi considerarono Koželuh un competitor di Mozart, al punto che nel 1788, ossia tre anni prima della morte di Mozart, il poligrafo e musicologo tedesco Karl Friedrich Cramer, non propriamente l’ultimo degli stupidi, giunse al punto di scrivere che «I lavori di Koželuh resistono nel tempo e sono bene accolti dovunque, mentre quelli di Mozart di solito non piacciono altrettanto. È però vero che quest’ultimo ha una decisa tendenza per le cose difficili e inconsuete». Sulla base di questo giudizio, era dunque possibile fare un raffronto tra il boemo e il salisburghese, anche se con il senno del poi può apparire del tutto velleitario e decisamente fuori posto?
Non tanto per fornire una risposta, che apparirebbe a dir poco pleonastica, ma quantomeno per mostrare ed evidenziare punti di contatto e di (inevitabile) differenza, due affermati pianisti italiani, il salernitano Marco Schiavo e l’alessandrino Sergio Marchegiani, che dal 2006 formano un affiatatissimo duo, in questa incisione DECCA con la Royal Philharmonic Orchestra diretta da Gudni A. Emilsson, propongono un abbinamento inconsueto: due concerti per due pianoforti di Mozart (il n. 7 K.242 “Lodron” e il n. 10 K.365) e un concerto per pianoforte a quattro mani di Koželuh (P.IV:8).
Il K.242 è il concerto più giovanile tra i due mozartiani, composto nel 1776 a Salisburgo nel pieno dei suoi vent’anni. Originariamente pensato e scritto per tre pianoforti, Mozart ne scrisse una versione ridotta con due solisti, presumibilmente per eseguirla assieme alla sorella Nannerl, anch’ella notevolissima pianista. In quest’opera si può ancora avvertire il sentore giovanile del compositore, con una struttura semplice ma esaltata dal frequente dialogo tra i solisti e l’insieme orchestrale. Il tema brillante del primo tempo (Allegro) è vivacizzato dai fiati (due corni e due oboi), molto presenti in queste pagine. A ricordare le parole di Cramer è maggiormente l’Adagio in forma sonata che rappresenta il movimento dominante dell’opera, aperto dall’orchestra con temi che preannunciano innegabilmente l’evoluzione stilistica degli anni successivi e che prosegue con l’ingresso dei solisti che dialogano sul tema e con l’orchestra che interviene solo in funzione di accompagnamento o di incentivo alla melodia. Caratteristica interessante di questo Adagio è proprio il ruolo dei due pianoforti, i quali riescono a tenere in piedi il tema senza il necessario supporto dell’orchestra, con un dialogo infrangibile capace di sorreggersi autonomamente. Semmai è da ricordare come da metà del movimento i classici toni drammatici mozartiani assumono una struggente intensità, supportati dall’orchestra con pochi, lievi, interventi. È il secondo pianoforte a riprendere - quasi in forma di eco - le battute del primo pianoforte, che tiene le redini del tema fino al finale, dove interviene ancora l’orchestra, come a riassumere questa seconda parte e ad accompagnare il pianoforte fino alla battuta conclusiva. Il breve Rondò conclusivo, il cui tema è un minuetto ricalcante i motivi francesi contemporanei, lo rende ritmicamente affine all’Allegro iniziale. I solisti presentano il tema, ripreso a seguire dall’orchestra, il cui ruolo, ancora, permane a completamento o a supporto dei solisti, senza interventi autonomi. Avendo sperimentato molto nel movimento centrale, reso portante di tutta la composizione, il Rondò diviene una sorta di coda brillante che velocemente giunge al termine con un breve dialogo dei pianoforti con l’orchestra.
In contrapposizione a questo concerto, tre anni dopo Mozart scrisse un altro concerto per due pianoforti e orchestra, il n. 10 K.365. Anche questo concerto sembra essere stato scritto per sé e la sorella, così come il precedente adattamento per il n. 7. Vediamo già dal primo movimento, Allegro, come Mozart si sia in apparenza uniformato allo stile dell’epoca, tenuto conto che si apre con una Fanfara e da un veloce intervento degli oboi insieme con il tema puntato degli archi. Inizio molto breve che lascia intendere di voler portare a qualcosa di più. Ed è proprio quando l’esposizione si completa che tace tutto l’insieme lasciando spazio ai due solisti, i quali subentrano riprendendo idealmente il tema appena esposto. Di nuovo, come nel concerto precedente, i pianoforti riescono a tenere testa all’orchestra “giocando” tra di loro senza bisogno del supporto dell’accompagnamento, che arriva talvolta come breve connettore. Questo movimento è più esteso del concerto Lodron, sviluppando al massimo il tema attraverso i pianoforti e con l’aiuto di qualche intervento pizzicato dei violoncelli o di poche battute dei fiati. È invece nella seconda metà che i temi allegri dei pianoforti prendono toni più cupi aiutati dai violoncelli e dai contrabbassi, mentre viene recuperato nel finale il tema allegro presentato all’inizio. L’atmosfera “lieta” residua del primo movimento viene esposta anche all’inizio del secondo tempo, Andante, ma lentamente diviene meno vivace e più meditativa oltre che più cupa con l’aiuto degli oboi e dei violoncelli. Entrano i solisti con un trillo a riprendere il tema con un forte e accentuato dialogo per buona parte dell’esposizione, un dialogo che si estende (ecco un esempio delle straordinarie doti di orchestrazione mozartiane) anche con gli altri elementi dell’orchestra, in particolare con gli oboi, con il tema che a tratti assume un’ombra più malinconica. Il riscatto da parte dell’orchestra, se così si può dire, avviene nel terzo tempo, Rondò, con l’esposizione dei temi principali che vantano un carattere assai più “sinfonico”. Questo movimento presenta un tema brillante che resta presente per tutta la sua durata, in costante evoluzione e scambio tra i solisti e l’orchestra, con quest’ultima che interviene spesso a supporto e completamento in maniera netta e pulita, senza incidere sull’eloquio dei due solisti. A ricordare l’Andante precedente sono alcuni momenti riflessivi che si intermezzano al tema principale, anche se vi sono momenti in cui i pianoforti monopolizzano la scena, specialmente nel finale, seguiti da una ripresa dell’orchestra sulla scia della tensione iniziale. Ed è proprio la compagine orchestrale a terminare il movimento attraverso un maestoso e ricco finale.
Dopo l’ascolto dei due concerti mozartiani, il concerto per pianoforte a quattro mani di Leopold Koželuh si pone dunque quale elemento di raffronto ideale, sempre tenendo a mente quanto scritto da Cramer, ossia che Koželuh era più apprezzato dal pubblico grazie alla tecnica più affine all’epoca, che più si uniformava allo stile contemporaneo (un’uniformità, invece, a cui Mozart faticava sottostare). Fin dal primo movimento non si fa fatica a tornare stilisticamente indietro di qualche anno rispetto ai concerti del salisburghese, tenuto conto che ci troviamo davanti a un Allegro rapido e veloce nell’esposizione, senza che vengano a mancare colori e scambi di battute tra gli archi e i fiati. A questo punto, subentra rapidamente il pianoforte, riprendendo il tema e lasciando poco dopo le redini al registro acuto e mantenendo il basso di accompagnamento, con qualche piccolo intervento dei violoncelli e dei contrabbassi a seguire, il che ci fa comprendere come la struttura melodica e tematica sia simile a quella di Mozart, per quanto tecnicamente ancora legata ai canoni di un’epoca già intrisa di una “galanteria” che è in odor di rococò. Nell’Adagio, sono i violini e i violoncelli ad approntare la scena per l’ingresso del pianoforte, che riprende il tema velocemente introdotto con brio e semplici variazioni. Ancora una volta, il registro acuto prende le redini del tema nel pieno rispetto dei canoni stilistici di secondo movimento rispetto alla propria epoca. Segue il movimento finale di Rondò, con un inizio allegro e in mano al pianoforte seguito subito dopo dall’orchestra in ripresa, con il dialogo tra i registri del pianoforte e i fiati, molto articolato e impegnativo, che viene magistralmente gestito, per poi lasciare spazio ai due solisti, mantenendo gli archi a guisa di accompagnamento e supporto. Di nuovo, si presenta il rapporto dialogante tra archi e fiati, i quali riescono a mantenere una precisa linea melodica senza sovrastare il pianoforte. Rimane costante, infine, una lieve tensione con alcuni cenni di scambio tra i violini e i violoncelli che portano a un deciso finale.
Il merito di questa interessantissima registrazione è che il duo Schiavo & Marchegiani e il direttore Emilsson si sono guardati bene dall’esaltare i due concerti mozartiani, per poi mettere in castigo, dietro la lavagna, il lavoro del musicista boemo. Hanno invece fatto la cosa artisticamente e intellettualmente la cosa più giusta da adottare, vale a dire mettere in risalto due differenti gusti dati da altrettante epoche, quella al tramonto di Koželuh, rappresentante di un barocco già innervato dai nei finti e dalle ciprie di cicisbei del rococò, e quella in cui l’avventura del barocco deve già fare i conti con il companatico dello Sturm und Drang che stava già facendo leva sulla sfera culturale e artistica dell’epoca. Da qui, se la staticità e la conformità del compositore boemo non possono certo essere svilite dalla frizzantezza espositiva mozartiana, è anche vero che la resa esecutiva degli interpreti ha il merito di non stemperare o, peggio, celare la commovente e giovanile ingenuità che permea ancora i due lavori mozartiani, concerti che ci fanno comprendere come il Mozart di Salisburgo fosse ancora immune non tanto dell’avvedutezza tecnica e compositiva del Mozart viennese, quanto fosse ancora aperto al mondo, alle sue allettanti speranze, convinto di una bontà rassicurante e di una rincuorante certezza, scarnificata e atomizzata con l’irrompere delle successive delusioni e amarezze, quella di avere una precisa funzione come uomo e come artista nel tempo in cui stava vivendo.
Alla luce di ciò, la lettura di Marco Schiavo e Sergio Marchegiani è semplicemente di riferimento non per il fatto che evidenzia un eccelso affiatamento esecutivo (a questi livelli è il minimo che si possa richiedere), ma per come hanno saputo lavorare e centellinare sullo scavo psicologico del suono, questo sì che può fare da elemento di distinzione e di separazione tra Mozart e Koželuh, concependo un timbro capace di restituire idealmente l’idea di spazialità e di temporalità che questi due musicisti hanno saputo incarnare con la loro arte (si faccia attenzione al gioco di sfumature che Schiavo e Marchegiani riescono a confezionare nel concerto del boemo). Così, se il suono mozartiano reso nei due concerti è impregnato, allo stesso tempo, di apertura al mondo esterno, come si è già accennato, di giocosa partecipazione, di voglia di scoprire cosa c’è fuori, quello di Koželuh è ancora il risultato di schermaglie, di tenzoni amorosi, di luci e ombre che sembrano deliziosamente pittorici, e qui subentrano le già citate sfumature che differenziano la resa sulla stessa tastiera tra i due esecutori. Non sono da meno i componenti della compagine orchestrale londinese, perfettamente dosati dal gesto immersivo del direttore islandese, capaci di dare vita a un tappeto timbrico nel quale i due solisti hanno potuto trovare riparo e stimolo esecutivi, nel riuscitissimo raffronto tra il salisburghese e il boemo, per i quali può essere parafrasato il titolo di un film di Wim Wenders: così vicini, così lontani.
Andrea Lambertucci in qualità di ingegnere del suono e Corrado Ruzza nel lavoro di editing, hanno curato la presa del suono, restituendo pienamente la bellezza “ariosa” di questa registrazione. La dinamica è da tradizione Decca (tra l’altro, in un’immagine nel libretto, si vede distintamente l’asta del classico “Decca tree” utilizzato e ideato da quel genio che è stato Kenneth Wilkinson), velocissima, naturale e precisa nel restituire la corretta decadenza degli armonici. Il palcoscenico sonoro immerge l’ascoltatore in una coinvolgente spazialità in cui i pianoforti e l’orchestra sono ricostruiti in modo a dir poco efficace e con la debita profondità. E se l’equilibrio tonale è da manuale di audiofilia, il dettaglio è stato ottenuto con tonnellate di nero intorno agli strumenti, al punto quasi da poterli toccare fisicamente.
Marco Pegoraro
Wolfgang Amadeus Mozart-Leopold Koželuh – Concertos for Two Pianos K. 242 & 365 – Concerto for Piano 4 Hands P.IV:8
Marco Schiavo & Sergio Marchegiani (pianoforte) – Royal Philharmonic Orchestra – Gudni A. Emilsson
CD DECCA 4819068
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5