Il Novecento, che è stato il secolo delle (apparenti) contraddizioni, ci ha insegnato ad affrontare l’universo del macrocosmo e del microcosmo artistici, soprattutto in campo musicale. Così, accanto alle opere di Anton Webern, che incarnano il trionfo della suprema sintesi compositiva (tutto il catalogo delle opere del musicista viennese è registrato in appena cinque dischi), si pongono composizioni che, invece, si dilatano temporalmente come un irrefrenabile magma (si pensi, in campo pianistico, alle Variazioni sinfoniche di Kaikhosru Shapurji Sorabji, che arrivano alle nove ore di durata, a The Road di Frederic Rzewski, che tocca le dieci ore di esecuzione, o a quell’autentica maratona che sono le Vexations di Erik Satie, le quali, per essere ripetute tutte per 840 volte, come voleva il suo autore, arrivano a venti ore di durata). Quindi, non dovrà stupire, se non a coloro che non sono avvezzi a tale lascito da parte del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, se uno dei più importanti compositori del panorama attuale, il milanese Carlo Alessandro Landini, ha concepito la sua Quinta sonata per una durata che, nella versione integrale, raggiunge le otto ore di durata.

Semmai, potrà stupire, e stavolta anche per gli stessi addetti ai lavori, a partire dalla categoria dei critici, il fatto che a corollario di questa Sonata Landini abbia voluto scrivere un libro, che supera le trecentocinquanta pagine, per spiegare e motivare le ragioni di questa sua opera pianistica. Questo perché, in linea generale, un artista ha il compito di dare vita al gesto, all’opera, alla dimensione artistica che scaturisce dal suo pensiero e dalla sua sensibilità e poi, come ci ricorda Oscar Wilde, tocca al critico fare da ponte levatoio, da pontifex estetico, in modo che l’opera dell’artista venga spiegata e compresa dal pubblico (il che, a detta dell’arguto scrittore e commediografo irlandese, porrebbe sulla stessa altezza l’opera del critico con quella dell’artista). In realtà, quando un artista, dopo aver creato la sua opera, ritiene necessaria un’ulteriore opera il cui scopo è di spiegare i motivi che hanno portato alla realizzazione della prima, significa che c’è qualcosa che non va, nel senso che o l’artista non ha molta fiducia nel lavoro dei critici (e fin qui non si può dargli torto), oppure ciò che lo spinge a motivare, a dis-occultare, con le proprie parole e le proprie idee, il perché abbia dato vita a qualcosa che abbisogni di una spiegazione tout court personale, a “stretto giro di posta”, ha in sé un’impellenza, un’urgenza, una necessità intellettuali che devono inevitabilmente far riflettere.

Come, appunto, nel caso di Carlo Alessandro Landini, che dopo aver composto la sua monumentale Quinta Sonata, ha ritenuto necessario dare alle stampe questo voluminoso saggio, che porta il sintomatico titolo di Misura e dismisura, per fornire idealmente all’ascoltatore/lettore le ragioni della sua opera pianistica e della sua elefantiaca durata. Però, una volta che si comincia a leggere questo saggio, o quantomeno a sfogliarlo, saltando di pagina in pagina, di capitolo in capitolo, ci si rende conto che il suo fine ultimo non è tanto motivare il perché di una composizione e della sua durata (il sottotitolo, anch’esso emblematico, è Una sonata monumentale), quanto quello di essere un testo che intende affrontare un tema molto più arduo e delicato, ossia che cosa vuol dire creare e ascoltare la musica, qual è il fine della musica stessa, innestando tutta una serie di categorie/problematiche legate ad essa che va, cito a caso, dalla concezione del tempo alla percezione dei colori e dei suoni, dal mistero del silenzio al binomio ordine/disordine, dal rapporto pubblico/ascolto al fluire della memoria. E più si avanza nelle pagine di questo libro suddiviso in novantatré capitoli, più ci si rende conto che sia la Quinta Sonata sia la Musica non rappresentano un punto di arrivo, il fine ultimo di questa fatica saggistica, ma il punto di partenza per affrontare terre e arcipelaghi che portano il nome di letteratura, filosofia, arte, linguistica, psicologia, fisica. E quello che a prima vista avrebbe dovuto essere agli occhi del lettore un testo per comprendere meglio il “parto mostruoso” (come lo definisce lo stesso Landini all’inizio) della Sonata in questione, a ben vedere si trasmuta ben presto in un’opera che, come un cerchio concentrico che si irradia sempre più nelle placide acque di uno stagno, investe sempre nuovi campi del sapere, coinvolgendo il lettore in un viaggio esplorativo/riflessivo nel quale Landini è l’indispensabile nocchiere.

Questa messe di nozioni, argomentazioni, citazioni (sono più di 1400 gli autori chiamati in causa da Landini; sì, avete letto bene) e concezioni ha quindi un significato più vasto, un percorso che dal particolare si estende al generale per dare modo al compositore milanese di esprimere il suo disagio di artista e di uomo di studio (a tutto tondo si può definirlo un sophós, un “saggio”, nel più puro significato del termine greco). Il suo è un grido, un rappel à l’ordre rivolto a chi vive di musica, a chi fa musica, a chi l’ascolta e soprattutto a chi non la comprende e non la rispetta. Landini esprime tutta la sua attualità con un’inattualità a dir poco disarmante che non esprime solo con la sua musica, il cui rigore classico della forma non viene mai meno a un’espressione contemporanea del suo svolgersi e attualizzarsi, ma lo fa anche da uomo onnivoro di curiosità e di sapere, di antesignano che precede le sparute truppe formate da chi cerca di arginare, in nome dell’arte e della sapienza, l’avanzata del deserto profetizzata da Nietzsche, della morte non della musica, ma della sua idea originaria, intesa come atto sacrale attraverso il quale il suono manifestava misteriosamente e mistericamente un qualcosa che andava oltre l’afflato stesso della vibrazione fisica.

Un grido, dunque, che si prolunga per quasi quattrocento pagine, per far sì che la musica non finisca in un oceano di agonizzante incomprensione, di fuorviante fruizione, di tangibile indifferenza da parte di un mondo la cui modernità è segno implacabile di deformazione e di allontanamento da quella origine di cui la musica è sublime emblema trasfigurante e trasfigurato. Quindi, a ben vedere, di fronte a tutto ciò, che cosa sono in fondo le otto ore di una sonata pianistica?

Andrea Bedetti

Valutazione: 5/5

Carlo Alessandro Landini

Misura e dismisura

2017, Edizioni Didattica Attiva, pagg. 352