La suprema tentazione di ricreare con il microscopico ciò che atteneva e apparteneva al macroscopico: è stata questa una delle principali ambizioni della concezione estetica del Settecento europeo, quando l’universo barocco già stava cedendo al ricettacolo della sua Untergang. Il desiderio di esprimere il grande nel piccolo, di restituire una sorta di realtà bonsai, capace di rappresentare nel minimo tutte le potenzialità insite nel massimo. Una caratteristica, questa, che ritroviamo soprattutto nella pittura di quell’epoca, con il sogno di far esplodere ed espandere lo spazio entro la cornice di un dipinto, di immagazzinare quanto più possibile nel tratto e nelle forme, in modo da soddisfare la ricerca di quell’illusione che, in fondo, collega idealmente la delicata fase di passaggio dal macro al micro.
Un macro che si condensa nel micro anche nel campo dell’arte musicale, a dire il vero, con il bisogno di presentare in un ambito spazio-temporale minore ciò che, originariamente, era stato rap-presentato in uno decisamente superiore; da qui, la pratica di liofilizzare, anche grazie all’insostituibile opera di diffusione da parte dell’editoria del tempo, un’opera lirica nelle fattezze più ristrette ed essenziali di una o più pagine cameristiche, per riproporre il tessuto strumentale e cassare quello vocale, facendo sì che l’opulenza tridimensionale del teatro musicale fosse ricondotta alla quintessenza di un segno che diviene un suono, sotterraneo propileo di una modernità che comincia a manifestarsi in modo discreto e distorto.
E che un nuovo progetto discografico, pubblicato recentemente dall’etichetta Da Vinci Classics, sia ammantato, intriso da tale concetto intrigantemente distorto appare chiaro dalle sue precise e coraggiose finalità, visto che un giovane ensemble cameristico, il False Consonance, formato dal tedesco Johannes Festerling alla chitarra e tiorba, dall’americano Thomas Field al violoncello e viola da gamba, dall’australiana Annie Gard al violino e dal connazionale Theo Small al flauto diritto e traverso, ha voluto proporre un lavoro decisamente originale: dare vita a una vera e propria “opera lirica domestica”, assemblando arie e momenti strumentali tratti da opere liriche, oratori e da due pagine cameristiche di Georg Friedrich Händel, confezionando così un disco che si intitola Il Sassone - A Domestic Opera. Perché si è scelto proprio il divino Sassone e da quali intendimenti musicali si è giunti a questo progetto che, premetto fin da ora, non è assolutamente campato in aria?
Si è partito da un preciso contesto storico, sociale e musicale, quello della Londra della prima metà del XVIII secolo, quando durante la stagione operistica, che animava i teatri della capitale inglese, i componenti aristocratici e dell’alta borghesia assistevano con passione e curiosità alle svariate rappresentazioni, soprattutto quelle di Händel, autentico beniamino dell’high society, le cui opere continuavano ad essere al centro dell’interesse anche nei salotti e nelle cronache dei giornali, al punto da spingere diversi editori musicali a proporre spartiti con le arie e i brani più popolari del Sassone in una riduzione di ambito cameristico, ossia eseguibili con strumenti come il clavicembalo, il violino, il violoncello e strumenti a fiato, senza che fosse presente la linea vocale. All’epoca, a pubblicare la maggior parte di queste riduzioni, oltre alle partiture di capolavori come il Rinaldo, fu un editore, John Walsh, del quale è giusto spendere qualche parola in più. A dire il vero, ci furono due John Walsh, padre e figlio (il primo nato nel 1666 e morto nel 1736 e il secondo nato nel 1709 e deceduto nel 1766), che fecero la loro fortuna nella capitale inglese pubblicando spartiti di autori dell’epoca, anche se nel discorso in questione dobbiamo ricordare soprattutto il padre, che pubblicò del Sassone un cospicuo numero di volumi, raccolti sotto il titolo di Sonatas or Chamber Aries, che permise agli appassionati del tempo di poter eseguire arie e brani delle opere liriche nell’intimità delle loro magioni, ricreandone la magica atmosfera, grazie a mirati adattamenti di stampo cameristico.
Proprio partendo da una tale tradizione “domestica”, l’ensemble False Consonance ha assemblato diverse arie e brani di capolavori händeliani come Alessandro, Alcina, Orlando, Rodelinda, Almira, Lotario, Saul, Giulio Cesare in Egitto, oltre al Trio Sonata in si minore HWV 386B e al Preludio HWV 407, confezionando un’opera lirica in tre atti senza la presenza delle voci dei cantanti, che ha quale protagonista proprio il caro Sassone. Il senso ultimo di questo progetto, però, è stato quello di offrire un’esecuzione dell’universo händeliano in chiave Hausmusik, una pratica che oggi è ormai del tutto desueta, restituendo, nella sua simbologia, un’opera lirica in miniatura, sostenuta dal solo suono strumentale. Un processo esecutivo realmente rischioso, come un soufflé che rischia di afflosciarsi ancor prima di uscire dal forno, ma che invece ha portato a un risultato finale del tutto convincente per due precisi motivi: il primo è la capacità della musica operistica händeliana di essere esaltata con qualsiasi mezzo espressivo, anche quando tali mezzi sono ridotti a pochi strumenti in chiave cameristica, il secondo, e lo affronteremo più avanti, è dato dalla lettura dei componenti del giovane ensemble barocco.
C’è anche da far presente che la prima scommessa vinta dal False Consonance è stata quella della scelta e della relativa concatenazione dei brani tratti da una pletora di titoli, una scelta guidata dalla necessità di proporre una “scenografia” accattivante e plausibile, sulla scia di quelle imbastite nello svolgimento del genere dell’opera seria nel XVIII secolo. Quindi, la ricerca di un denominatore comune che non avrebbe potuto essere altro che una tensione drammaturgica, tenuto conto che un progetto del genere non poteva essere sostenuto da un intreccio narrativo, da una trama per via della mancanza di un libretto da poter presentare con le voci. Inoltre, anche chi conosce le opere del Sassone non potrà esserne avvantaggiato, data l’estrema eterogeneità del risultato finale che obbliga, come si faceva nei salotti del Settecento, a seguire il filo discorsivo attraverso un impianto immaginativo, proiettato dalle sensazioni che scaturiscono dallo scorrere dei brani, i quali, di volta in volta, incarnano diversi stati d’animo o visioni allegoriche, come il lamento, il duetto d’amore o l’aria che promette vendetta. Ergo, solo una struttura basata sull’elemento drammaturgico può fare giustappunto da collante alle diciotto tracce musicali che affastellano il tutto; diciotto tracce, le quali vanno a formare, come un’opera lirica vera e propria, tre atti.
Il primo atto si apre con l’ouverture iniziale dell’opera Alessandro, seguita da una delle arie più famose di Händel, ossia Verdi prati da Alcina, la cui intimità, enunciata dal flauto traverso e dalla tiorba, viene bruscamente interrotta dall’irrompere dalla tempestosa aria di basso Sorge infausta (dall’Orlando) dove il violoncello assume il ruolo principale, per poter poi lasciare spazio a una velata malinconia rappresentata dal duetto d’addio Io t’abbraccio (Rodelinda). L’atto si conclude con le due danze caratteristiche, la Ciaccona e Sarabanda, tratte dalla prima opera di Händel, Almira.
Il secondo atto prende avvio con un’esecuzione particolare, che viene qui presentata in prima mondiale registrazione, di un’aria, Vedrò più liete e belle (da Lotario), enunciata dal flauto, dalla viola da gamba e dal basso continuo partendo da un manoscritto conservato all’Aia, in cui lo strumento ad arco assume il ruolo vocale. Dopo la breve intensa Sinfonia tratta da Saul, presentata dalla chitarra barocca, ancora una volta la placida atmosfera viene bruscamente cancellata con la turbinosa aria, Vorrei vendicarmi (Alcina), cui segue un breve Minuetto (Giulio Cesare in Egitto), con l’atto che si conclude mestamente, evocando una sensazione di profondo sconforto e malinconia, espressa con la struggente aria Si, son quella, non più bella (ancora dall’Alcina).
L’ultimo atto, il più articolato e intenso, non inizia con un brano operistico, bensì cameristico, ossia con i quattro tempi del Trio Sonata in si minore dall’Op. 2 per violino, flauto e basso continuo; in realtà, anche in questa pagina strumentale si cela un connotato operistico, in quanto Händel utilizzò il terzo movimento (il Largo) nell’oratorio Il Trionfo del Tempo e del Disinganno e impiegando successivamente parte del materiale per la sua aria Vaghe fonti (dall’Agrippina). Segue un’altra meravigliosa aria, il lamento che aleggia in Ombre, piante, urne funeste! (da Rodelinda), nella quale la viola da gamba riprende la parte vocale originale, in una versione arrangiata dallo stesso False Consonance. Una sorta di stasi, di ripresa del respiro, è rappresentata da un’altra pagina cameristica, il Preludio in sol maggiore HWH 407 per solo violino, che anticipa di fatto la chiusura dell’opera, la quale, come ogni lavoro teatrale dell’epoca, esige il fatidico happy end e che qui si presenta nelle fattezze dell’aria gioiosa Da tempeste (dal Giulio Cesare in Egitto), pagina la quale nell’opera in questione vede Cleopatra rendersi conto che, anche dopo la notte più buia e la tempesta più violenta, la luce non abbandona la vita delle persone. E il lieto fine tanto agognato trionfa ovviamente nel brano finale, il trascinante Entrée & Tambourin dall’opera Alcina.
A livello di lettura, l’inevitabile opera di liofilizzazione avrebbe potuto causare un preciso problema, quello relativo a una possibile depauperizzazione della struttura drammaturgica, della quale si è già accennato. Pericolo ampiamente scongiurato grazie a una lettura a dir poco avvincente da parte dei quattro componenti dell’ensemble. Perché avvincente? Per il semplice fatto che la loro esecuzione nulla toglie al fascino di una versione che non solo non presenta le voci, ma che non è corroborata da un numero tale di strumenti che vanno inevitabilmente a ispessire la tavolozza timbrica. Ma, attenzione, sarebbe un errore soffermarsi troppo su questo punto, poiché reputo che l’intento di un progetto discografico come quello in questione non è tanto nel trovare i giusti mezzi espressivi per sostituirsi ad altri in modo degno, sebbene numericamente inferiori, ma piuttosto nell’insegnare all’ascoltatore contemporaneo un altro sistema di ricezione musicale, quello che sovrintendeva il pubblico del Settecento (e quello, per inciso, che fu coinvolto fino all’irruzione dei moderni sistemi di riproduzione musicale, che ormai trovano spazio nelle nostre abitazioni).
In questo caso, il poco non solo sostituisce esemplarmente il tanto, ma lo fa soprattutto sulla base degli aspetti psicologici, così fondamentali nella musica händeliana, vale a dire la capacità, attraverso la presenza di quattro strumenti o anche meno, di presentare e riprodurre quell’apparato convincente di sfumature che sono presenti in ogni pagina qui presentata. Ciò avviene grazie a una precisa dimensione ritmica, che si fissa nei brani veloci, e a una tensione emotiva, “teatrale”, in quei pezzi più lenti e strutturati a livello armonico. Va da sé che il côté tecnico e la padronanza degli strumenti non si discutono (a proposito, il violino di Annie Gard è davvero emozionante), ma senza questi presupposti non si sarebbe affermato quanto scritto sopra. Dunque, il fatto che la loro interpretazione, che va decisamente à rebours rispetto a quelle che le nostre orecchie contemporanee impongono, risulti essere coinvolgente e mai stancante (il tempo totale della registrazione supera i settanta minuti di durata), rappresenta un elemento per il quale ringraziarli. Costruire ad hoc un’opera tratta da diverse produzioni del teatro musicale händeliano, minimizzandola a una sorta di Kammerspiel strumentale, obbligando l’ascoltatore a mettersi positivamente in discussione, non è sinceramente da tutti.
Confido, in un prossimo futuro, di poter ascoltare il False Consonance in un loro nuovo disco. E lo farò con molto e rinnovato interesse.
La presa del suono, effettuata da Felix Epp, ha un grosso merito a mio avviso, ossia quello di aiutare a livello acustico l’ascoltatore a calarsi meglio in una dimensione “salottiera”. Ciò avviene grazie a una dinamica che spiana la strada agli altri parametri tecnici, in quanto è un concentrato di velocità, pulizia e naturalezza, oltre a una consistente energia. Da qui, un palcoscenico sonoro in cui i quattro artisti vengono ricostruiti a una profondità decisamente non accentuata, proprio per rimarcare la dimensione “intima” dell’evento sonoro. L’equilibrio tonale mostra un’indubbia pulizia, il che permette di esaltare i registri dei vari strumenti, in modo da permettere una migliore ricezione dei loro dialoghi. Infine, il dettaglio è foriero di un’esaltante matericità, confezionata da tanto nero che avvolge tutti gli strumenti.
Andrea Bedetti
George Frideric Handel – Il Sassone. A Domestic Opera
False Consonance
CD Da Vinci Classics C00778