In un passaggio del Fedro di Platone, Socrate afferma: «Pensa che alcuni, mio caro Fedro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero». Un’affermazione, questa, che ci fa comprendere come sia appartenuto al patrimonio concettuale più arcaico dell’uomo occidentale, così come di quello orientale, la convinzione che in tutte le creature, animate e no, rimanesse qualcosa del suono originario, vale a dire la “voce” dei mari, degli alberi, dei fiumi, delle valli, degli animali e anche la voce degli uomini, soprattutto di coloro deputati a “cantare” tali voci, espressioni dello sforzo cosmogonico, ossia i poeti.
Tornando all’affermazione di Socrate, ciò che il filosofo ateniese vuole intendere, è che la natura parla all’uomo tramite segni che sono propriamente dei simboli, veri e propri legami che tengono uniti insieme il cielo e la terra, le creature divine e gli umani, gli immortali e i mortali. Nelle parole socratiche vi è indubbiamente un atteggiamento misto di nostalgia e di ironia, visto che ricordano un passato ormai lontano, un mondo scomparso, tempi in cui gli uomini accoglievano con reverente stupore verità enigmatiche, espressioni dirette della natura, quando le rocce e le querce sapevano parlare perché attraverso il loro tramite, simboli nei simboli, parlava la divinità sessa. Un tempo saturo di mythos, non ancora svilito e annichilito dall’irruzione del logos, quel logos che spingerà poi un filosofo come Anassagora ad affermare che tutto il mondo non è che “terra e pietre”, relegando la magia e il fascino del mito alla stregua di un discorso falso. È quindi il logos, il pensiero razionale, la scissione tra soggetto e oggetto a generare il distacco tra uomo e natura, tra il senso misterico delle cose nelle quali l’uomo si trovava coinvolto e la nascita della filosofia, deputata, da quel momento, a non accettare quanto avviene se non attraverso la domanda di perché ciò avviene. Il perché può spiegare e l’uomo per sapere deve pagare un conto salato: ripudiare il mito e piegarsi alla ragione, la quale porta a considerare inevitabilmente la natura solo come un insieme di “terra e pietre”. Da quel momento natura e uomo non saranno più legati dal mistero e dall’enigma, demandando alle arti una pura raffigurazione della prima e cercando di inserire il secondo senza che vesta gli abiti scomodi di un’entità avulsa, estranea alla natura stessa.
Uno degli ultimi momenti in cui l’uomo cerca di rincorrere, di farsi accettare mistericamente dalla natura per tornare nel suo enigmatico alveo è rappresentato dall’arte barocca, dalla necessità di esaltare la dimensione dello spazio, come se la raffigurazione di panorami, di scorci, di “terra e pietre” che non sono più da intendere solo come tali, considerati i continui richiami mitologici presenti nella cultura neoclassica, potesse esorcizzare la potenza e la dittatura di un logos sempre più radicato anche a causa di quel razionalismo foriero dell’ultimo, grande distacco in seno all’uomo, la dicotomia irreversibile tra la scienza e l’arte, tra le scienze esatte e quelle che governano l’anima. Anche la musica, in questo processo di rivalutazione misterica mediante l’utilizzo della dimensione mitologica, fece la sua debita parte e nel momento di passaggio tra il XVII e il XVIII secolo nessuno come Georg Friedrich Händel fu capace di tratteggiare con il mondo dei suoni questo istante di bellezza sospesa in cui la natura e l’uomo tornavano a incontrarsi nelle rispettive origini, sancite dalla presenza di un divino che permetteva la loro comunicazione.
Un esempio della straordinaria capacità da parte del sommo Sassone di saper delineare, di illustrare con i suoni questo rincorrere il suono originario dato dal mito ci viene dato da una recente registrazione effettuata per l’etichetta discografica Glossa da Luca Guglielmi che, alla testa dell’ensemble La Lira di Orfeo, e con il controtenore Raffaele Pe, il mezzosoprano Giuseppina Bridelli e il baritono Andrea Mastroni, hanno dato vita a un’interessantissima lettura della serenata Aci, Galatea e Polifemo, eseguita per la prima volta a Napoli nel 1708 su libretto di Nicola Giuvo tratto dal tredicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. E che Händel fosse profondamente affascinato dalla storia infelice dell’amore tra la nereide Galatea e il pastore Aci lo dimostra il fatto che il compositore tedesco adattò questa partitura più volte, a cominciare dal masque originariamente concepito in un atto Acis and Galatea, con testo inglese di John Gay, Alexander Pope e John Hughes, sempre dalle Metamorfosi ovidiane, eseguito per la prima volta a Cannons nell’estate del 1718, mentre era al servizio del conte di Carnarvon, futuro duca di Chandos. A questa versione, ne seguì quella concepita in una serenata in tre atti per la compagnia d’opera italiana presente a Londra nel 1732 e poi un ulteriore adattamento dell’opera inglese in un’altra suddivisa in due atti nel 1739.
Quella registrata da Guglielmi, però, è la cosiddetta “versione per Senesino” e si basa su un manoscritto conservato alla British Library di Londra. In questa versione, scritta probabilmente per il famoso castrato Francesco Bernardi, noto con il soprannome di Senesino, Aci è interpretato da un contralto e Galatea da un soprano, mentre la parte di Polifemo (concepita originariamente per il grande basso napoletano Antonio Manna) è quasi completamente riscritta, con lunghi recitativi accompagnati e nuove arie per un basso. Inoltre, la strumentazione è leggermente diversa dalla versione napoletana, in quanto non sono presenti le trombe e in compenso sono maggiormente sfruttati i legni e i flauti dolci. Come spiega lo stesso Guglielmi nelle note di accompagnamento, a cui manca naturalmente la traduzione italiana sebbene tutti gli interpreti siano del cosiddetto Belpaese, la scelta di affidare il ruolo del pastore a un contralto (qui reso dal controtenore Pe) e quello di Galatea a un soprano (il mezzosoprano Bridelli) nasce probabilmente dal fatto di voler rendere il primo meno “adolescenziale” e il secondo più maturo, oltre al fatto che la parte di Polifemo, strutturalmente più virtuosistica, necessita di un afflato ironico e di una maggiore sensibilità.
Inoltre, la presente registrazione vede anche degli spunti che provengono dalla versione della serenata della prima stesura, quella napoletana del 1708, ossia quando il Sassone la compose (oltre a dirigerla personalmente) all’età di ventitré anni. All’epoca, la serenata fu commissionata da Donna Aurora Sanseverino, duchessa di Laurenzana, in occasione delle festività nuziali per il matrimonio tra Tolomeo III Saverio Gallio, duca di Alvito, e Beatrice Tocco Sanseverino di Montemiletto, principessa d’Acaja e nipote della stessa Donna Aurora, la quale commissionò il libretto al suo segretario, appunto Nicola Giuvo. C’è da notare che questa prima versione della serenata fu anche eseguita successivamente per altri festeggiamenti, ossia per il matrimonio tra Pascale Gaetani d’Aragona e Maria Maddalena di Croy nel 1711 e per l’onomastico della figlia del Viceré di Napoli il 26 luglio 1713. Partendo da questa partitura e confrontandola con quella conservata alla British Library, lo stesso Raffaele Pe, con Luca Guglielmi e il violinista e musicologo Fabrizio Longo, ha ricostruito la versione adottata per la presente registrazione, usando le parti che sono presenti nel libretto della versione napoletana, ma cambiando la tipologia di voci in Aci e Galatea, con la prima che non è più un soprano e con la seconda che non è più un contralto, in modo da esaltare maggiormente le sfumature stilistiche, e parallelamente psicologiche, dei due personaggi.
Non deve stupire che Händel abbia attinto da Ovidio e dalle sue Metamorfosi la materia per dare vita a questa serenata, tenuto conto che il grande autore latino ha rappresentato un ineludibile punto di riferimento per i librettisti del Barocco europeo con personaggi quali, tra gli altri, Dafne, Fetonte, Narciso, Proserpina, Icaro ed Ecuba, in quanto, al di là del necessario meccanismo del contrasto amoroso, il capolavoro del poeta di Sulmona riassume perfettamente il tormentato rapporto tra la natura e l’umano, tra ciò che è essere e ciò che è divenire e, tornando a ciò che si è accennato all’inizio, tra il mythos e il logos. L’uomo che irrompe e che nel momento stesso in cui abbandona il mythos, incarnato dalla cosiddetta filosofia della natura, espressione del pensiero presocratico, per abbracciare la più rassicurante presenza del logos, non è più in grado di ascoltare voci che non siano le sue, annullando di fatto il flusso misterico di ciò che lo circondava, trasformando di fatto l’enigmatico nell’oggetto che si contrappone al soggetto. E nella serenata händeliana il rapporto tra soggetto e oggetto è dato proprio da Aci e da Galatea, il cui legame sentimentale è fornito da un dialogo costruito sull’impianto del logos (nell’Accompagnato 9, Galatea, di fronte all’arrivo di Polifemo, geme «Ma qual orrido suono mi ferisce l’udito?» e Aci le fa eco in preda all’angoscia «Spaventevol muggito mi circonda d’orrore», incapaci entrambi di saper ascoltare la voce incarnata nel mythos, il suono di Polifemo, la cui essenza è ancora ingabbiata in una dimensione che non è più in grado di comunicare con l’umano e la cui veicolazione è data dal suo amore non corrisposto nei confronti di Galatea, la quale è disgustata dalle sue forme mostruose e nel suo essere, quindi, altro). Il mythos, così, si trova emarginato, confinato nel limbo della “terra e pietre” enunciato da Anassagora e Polifemo lo canta, con una voce che può essere riconosciuta solo da lui stesso, come fa nella struggente, meravigliosa aria Fra l’ombre e gl’orrori: «Così fra timori quest’alma delusa non trova mai pace né spera piacer».
Concentrandoci sugli aspetti squisitamente musicali di quest’opera, Luca Guglielmi giustamente mette in rilievo come la serenata sia influenzata da altri autori ammirati dal Sassone, a cominciare da Bernardo Pasquini e Alessandro Scarlatti, la cui capacità melodica viene estrinsecata nell’aria di Galatea Sforzano a piangere e in quella di Polifemo Ferito son d’amore; ma non mancano nemmeno influssi dati nella strumentazione da parte di Buxtehude, Reinken e Steffani, oltre alla musica vocale cameristica di Bononcini.
La lettura fatta da Luca Guglielmi, dalle tre voci e dagli elementi de La Lira di Orfeo è a dir poco entusiasmante; la direzione da parte del compositore e tastierista torinese è un ammirevole esempio di lucidità d’intenti nel saper equilibrare la tavolozza delle sfumature date dai cantanti e dagli strumenti, tenendo conto che i virtuosismi richiesti dalla partitura, soprattutto per ciò che riguarda i tre ruoli vocali, non mancano. Eppure, ciò che colpisce è la fluidità che il gesto di Guglielmi riesce a instillare negli interpreti, anche grazie a un senso ritmico che non è mai marcato, esagerato, ostentato, ma celato delicatamente nell’espressività timbrica che i cantanti e l’ensemble riescono a rendere con un’estrema sensibilità esecutiva. Per ciò che riguarda le voci, mi ha particolarmente colpito l’interpretazione di Andrea Mastroni nel ruolo di Polifemo; in un’epoca in cui la voce del basso è ancora sacrificata a favore di quelle più acute, Händel ha saputo tratteggiare una figura esemplare, nella quale la malvagità si stempera nell’incomprensione, l’egoismo in un sentimento che non manca di tenerezza, e il baritono milanese è commovente nel saperla rendere al meglio. E non mi riferisco solo nel modo in cui riesce a superare brillantemente, quasi con noncuranza, le tante asperità tecniche che si annidano nella partitura, ma soprattutto nella pletora di sfumature che la sua voce riesce a imprimere, sia mediante un impeccabile registro grave, mai sforzato, sia attraverso quello centrale, cesellato con finezza e partecipazione (non mi vergogno ad ammettere che ho pianto nell’ascoltare la sua aria Fra l’ombre e gl’orrori, tra le più belle mai composte dal Sassone), al punto che Mastroni riesce a rendere stupendamente umana l’irradiazione del mythos.
Altrettanto convincenti sono Raffaele Pe e Giuseppina Bridelli, con il primo che si trova a completo agio con un ruolo a dir poco ostico, la cui tessitura acuta è continuamente sollecitata e che richiede un totale dominio per evitare pericolosi scivoloni; la seconda, invece, nella scomoda parte di trovarsi tra l’incudine e il martello, non dà luogo con il suo canto a una dimensione passionale, ma si mantiene su un piano di totale purezza, facendo affiorare un amore che psicologicamente già prefigura una fine tragica, facendo sì che la voce possa dar luogo a velate ombre, a una mestizia che la prepara alla fine violenta di Aci. Da ultimo, l’impeccabile resa strumentale, connotata da uno squisito equilibrio timbrico, manifestato soprattutto dalla sezione dei violini ottimamente guidata da Fabio Ravasi, senza dimenticare il respiro sempre accorto e costante dato da Giangiacomo Pinardi all’arciliuto e dall’accompagnamento preciso ed efficace dello stesso Guglielmi al clavicembalo e all’organo. Esaltante.
Simone Bellucci ha prodotto un’ottima presa del suono, avvenuta nel Teatro Municipale di Piacenza; la dinamica è piacevolmente corposa, energica, velocissima, attenta nel riprodurre con una corretta naturalezza anche la microdinamica. Il palcoscenico sonoro è in grado di ricostruire con un efficace equilibrio la spazialità tra voci e strumenti, con le prime che sono focalizzate in primo piano senza però risultare innaturali rispetto allo spazio fisico nel quale sono calate; l’equilibrio tonale non presenta difetti di sorta nella riproduzione dei vari registri che risultano essere sempre ottimamente scontornati e messi a fuoco senza sbavature di sorta. Infine, il dettaglio è supremamente materico, ricco di nero intorno alle voci e agli strumenti, il che non causa affaticamenti di ascolto.
Andrea Bedetti
Georg Friedrich Händel – Aci, Galatea e Polifemo
Raffaele Pe (controtenore) – Giuseppina Bridelli (mezzosoprano) – Andrea Mastroni (baritono) – La Lira di Orfeo – Luca Guglielmi (direzione, clavicembalo e organo)
2CD Glossa GCD 923528
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5