Nel tempo ho maturato una sorta di deformazione interpretativa, che nell’ambito della critica discografica si manifesta anche nel tentativo di comprendere, attraverso una possibile simbologia, il significato delle cover dei dischi. Quindi, quando mi è capitata sotto gli occhi quella che riguarda una recente pubblicazione della Da Vinci Classics, dal titolo Il canto dell’anima - 19th Century Italian Masterworks for Cello and Piano, che mostra i due giovani interpreti, il violoncellista Fabio Fausone e il pianista Stefano Musso, l’ho trovata subito azzeccata, in quanto entrambi, seduti in mezzo a una strada che attraversa un panorama di campagna, fanno finta di suonare i rispettivi strumenti o, meglio, suonano i loro invisibili strumenti.
Da qui, ho supposto che il significato di questa immagine riguardasse un fattore storicamente indubitabile, ossia quello che ha contraddistinto la quasi totalità della musica strumentale italiana del XIX secolo, quella che ha cercato di resistere e farsi spazio, a forza di spintoni e gomitate, dal soffocamento causato dal repertorio operistico, nel tentativo di non finire del tutto invisibile, intangibile, inespressa e, peggio, dimenticata, naufragando miseramente nel mare magnum del leviatano teatrale. Nelle sue note d’accompagnamento, Chiara Bertoglio, nel voler dare una cifra, una possibile spiegazione alla canonica e annosa equazione musica italiana=opera e musica tedesca=sinfonia, chiama in causa anche motivi di natura patriottica, affermando che in quel periodo di fermenti e richiami risorgimentali le preferenze, in fatto di arte dei suoni, sotto la linea delle Alpi, andavano inevitabilmente a favore dei prodotti di chiara matrice italica, il teatro operistico, per l’appunto, mentre le composizioni che provenivano da sopra le Alpi, ossia quelle austriache e tedesche, erano viste come fumo negli occhi in quanto rappresentavano il nemico, l’hostis schmittiano da aborrire d’acchito, come i cani pavloviani pronti a salivare appena sentivano suonare il campanello. Sarà, ma personalmente preferisco richiamarmi a motivazioni maggiormente antropologiche, date dal fatto che il levantino ha considerato principalmente la musica come elemento di puro divertimento, mentre nei Paesi d’impronta protestante e in quelli in cui la tradizione cattolica è stata meno perniciosa, la musica è stata vista principalmente come elemento di pensiero, di speculazione capace di andare ben oltre, una volta cessata la presenza fisica del suono, il puro ascolto fine a sé stesso.
Comunque sia, tornando a bomba sulla registrazione in questione, è meritevole e lodevole il fatto che i due giovani artisti torinesi, a quanto pare immuni o debitamente vaccinati da virus di stampo spadoliniano-risorgimentali, abbiano voluto proporre un disco in cui presentano opere cameristiche per violoncello e pianoforte di tre autori che furono inevitabilmente investiti dal furore patriottico, visto che Giuseppe Martucci, Marco Enrico Bossi e Alessandro Longo nacquero rispettivamente nel 1856, 1861 e 1864 e che i loro brani proposti sono stati scritti tra il 1889 (Tre pezzi op. 69 di Martucci) e il 1921 (Il canto dell’anima di Bossi), passando attraverso le Due romanze op. 72 (1892) di Martucci, la Romanza op. 89 (1894) e i Feuillets d’album op. 111 (1897) di Bossi e la Suite op. 44 (1909) di Longo. Eppure, il musicista capuano, votato alla musica orchestrale e devoto cultore wagneriano, quello salodiano, ricordato ancora oggi per il suo fondamentale apporto in campo organistico e quello amanteano, concentrato sulla musica pianistica e sul contributo, a quel tempo determinante, prima dell’avvento di Ralph Kirkpatrick, dato all’universo clavicembalistico scarlattiano, volsero le spalle al proliferare operistico, in un’epoca dominata soprattutto dalla barbarie verista, anche se, in un certo senso, ne furono tuttavia ancora avviluppati di riflesso, tenuto conto che, come dimostra l’ascolto dei brani qui incisi, il loro credo strumentale dovette fare i conti con l’immancabile contesto della “cantabilità”, dell’apparato melodico (è forse un caso che delle tredici tracce eseguite dal duo Fausone & Musso, solo tre siano in tempo veloce, con tutto ciò che ne consegue?).
Un altro particolare che mi ha fatto riflettere, ed è una domanda implicita e allo stesso tempo retorica che giro ai due artisti torinesi, è la presenza della Suite di Longo, dal sentore smaccatamente debussyano nelle premesse e nelle conclusioni, ma ancora vincolata a uno sviluppo (?) inchiodato sull’afflato melodico, mentre non hanno voluto includere uno o più brani di un violoncellista di razza come lo fu il bergamasco Alfredo Piatti, che tanta importanza ebbe nel nostro Paese proprio per ciò che riguarda la diffusione, in chiave compositiva, di questo strumento (pomposamente Liszt lo definì il “Paganini del violoncello”), sia in ambito orchestrale, sia in quello cameristico.
Ma, a parte ciò, il programma scelto dai nostri due interpreti può essere preso a modello per delineare lo stato di salute della musica cameristica italiana di fine Ottocento e credo che il titolo scelto, che prende spunto dall’omonimo pezzo di Bossi, possa allegoricamente definire, inquadrare, fissare la volontà di vedere nel violoncello, come ricorda d’altronde la stessa Chiara Bertoglio, un surrogato ideale della voce umana; ergo, un canto che sorge dall’anima e che, per non venire meno ai desiderata di quello scorcio temporale italico, ammiccava, nonostante tutto, ai richiami di stampo operistico. Sia, ben chiaro, questo non significa che alle spalle di queste composizioni non ci sia un lavoro di studio, di tradizione, fatto anche nel nome di Bach (Martucci, Bossi e Longo furono tutti profondi ammiratori del Kantor e della sua opera, anche in chiave violoncellistica), ma l’eloquio, il “canto”, per l’appunto, la ricerca costante, quasi indispensabile, di soluzioni melodiche che potessero rimandare a un tipo di consuetudine sonora è altrettanto inconfutabile.
Se metto bene in chiaro tale concetto è per sgombrare il campo da possibili delusioni che potrebbero provare coloro che non conoscono le opere in questione e che magari si aspetterebbero di ascoltare qualcosa che rimandi ai risultati e alle conquiste ottenuti da autori d’oltralpe, a cominciare dai “soliti” tedeschi e austriaci. Nulla di tutto ciò: semmai, per apprezzare al meglio la validità artistica e storica di questa registrazione, bisogna ascoltarla partendo da un’altra angolazione, quella, appunto, di far calare la dimensione sonora, timbrica, tecnica del violoncello nel panorama della musica strumentale italiana di allora, senza cadere nella tentazione di fare inutili paragoni con quanto veniva fatto all’estero. In fondo, buona parte della musica non vocale di quel tempo adottò nel nostro Paese un inevitabile rapporto di amore e di odio con il mondo dell’opera e della romanza da salotto, il quale rappresentò un punto fermo, ineludibile per qualsiasi musicista (si tenga a mente l’uso di un titolo come Romanza, che viene per l’appunto usato da Martucci per la sua op. 72, da Bossi per la sua op. 89 e per Longo quale brano centrale della sua Suite!); ecco perché l’amore e l’odio che la musica strumentale italiana dell’epoca provò nei confronti del canto, in tutte le sue forme e rappresentazioni, è fondamentalmente un “né con te, né senza di te”, un ibrido che a volte, però, portò a dei risultati più che interessanti, come nel caso del terzo Pezzo di Martucci, un geniale Allegro, guarda caso, o nel Menuet et Musette che fa parte dei Feuillets d’album di Bossi, che incanta per il suo sapore arcaico.
E che il violoncello debba rappresentare, nella stragrande maggioranza dei pezzi qui proposti, la “voce” dominante, ci fa ulteriormente comprendere come il pianoforte assuma il ruolo non dico di comprimario, ma di fedele accompagnatore (nemmeno da intendere nel nobile significato che ne dà Schubert quando lo usa per i suoi Lieder della maturità… ) e qui rimando, ancora una volta, alle Romanze presenti nel disco, mentre quando la ricerca di pura espressione cantabile, di eloquio melodico lasciano spazio a un dialogo più fitto, più costruttivo, più “paritario” tra i due strumenti, il risultato diviene lapalissiano, con una ricchezza di sviluppi, di temi, di idee, che vengono esposti, ampliati, confrontati sia dal violoncello, sia dal pianoforte (e, ancora come prima, i due tempi veloci già citati devono essere presi a modello).
Dietro quanto finora riportato, però, si potrebbe annidare l’idea che questo sia un disco dispensabile e il cui ascolto non rappresenti nulla di particolare; ebbene, mi affretto a fare chiarezza anche su questo punto: se il tipo d’angolazione d’ascolto e di conseguente assimilazione proposto viene attuato, allora ci troviamo di fronte a una lettura, da parte dei due giovani interpreti torinesi, che va ben oltre il puro dato storico, ossia di semplice e univoca testimonianza di un’epoca musicale. La resa esecutiva, difatti, è di primissimo ordine, a cominciare da quanto offre Fabio Fausone con il suo violoncello, un esemplare costruito da Christo Marino a Cremona nel 2009 con un archetto di Jules Fétique, il cui suono resta sempre ancorato a un’espressività esente da melasse timbriche e da esasperanti svenevolezze in cui avrebbe potuto incorrere, ingolosito dalle quintalate di cantabile che si annidano nella maggior parte delle partiture. Semmai, ho notato che da parte sua vi è sempre l’attenzione di un’aderenza che non si limita al puro rispetto del segno, ma è rivolta anche e soprattutto nell’ottenere un suono che sia la debita estrinsecazione di un pensiero indirizzato alle arcate generali di ogni brano eseguito. Questo significa, appunto, assenza di sbilanciamenti, di effetti languorosi, di cliché che, per esempio, portano le Romanze ad immedesimarsi troppo con la sostanza vocale umana, trasformando di fatto il suo strumento in un clone fatto di ugole e corde vocali. E poi il dato tecnico, mostrato proprio in quei tempi veloci nei quali la costruzione si fa più articolata e complessa, dipanata in modo convincente, appropriata, per cui si avverte puntualmente la messa in atto di strutture nelle quali l’eloquio lascia spazio alla trama intrigante dello sviluppo.
Da parte sua, Stefano Musso non è da meno; il suo compito di accompagnatore/sviluppatore/“dialogatore” non è all’insegna di un culto votato alla subordinazione rispetto alla “voce” violoncellistica, ma assume la caratura più propositiva della contrapposizione, ovviamente quando la partitura in oggetto lo preveda. Ma anche quando il segno lo costringe a seguire, il pianista torinese manda solennemente al diavolo il guinzaglio e propone un pianismo capace di ampliare quanto proposto dal violoncello senza esserne però una sterile eco, manifestando, al contrario, un preciso Io tale da scontornare il suo contributo in modo preciso e autorevole. Ecco perché, unendo le forze e la lucidità della rispettiva lettura, la loro esecuzione, perfino nel prevedibile brano di Longo (ma perché mai l’autore non ha sviluppato in altro modo la parte centrale, cercando di sfruttare i riflessi debussyani dell’incipit e del finale?), non decade mai a un livello di semplice proposizione, ma riuscendo invece a far trasparire l’emanazione creativa dei vari brani.
Due capitani coraggiosi che hanno saputo raggiungere la meta prefissa. Bravi!
Anche Gabriele Zanetti ha confezionato il solito lavoro diligente per ciò che riguarda la presa del suono, anche se la valutazione in sede tecnica ha mezzo punto in meno rispetto a quella artistica. Spiego subito il perché: la dinamica, come sempre, è molto energica, veloce, dotata della dovuta trasparenza, il che permette una ricostruzione fedele dei due interpreti al centro dello spazio fisico del palcoscenico sonoro, con un suono che oltrepassa i diffusori, sia in altezza, sia in ampiezza. Semmai, è l’equilibrio tonale a denotare una sottilissima pecca (non tutti, però, hanno a disposizione un impianto audio come quello del sottoscritto, a dir poco implacabile nel “radiografare” la qualità delle registrazione, me ne rendo perfettamente conto… ), data dal fatto che nel registro acuto il pianoforte mostra un leggero alone di “metallicità”, mentre il violoncello, soprattutto quando è sollecitato nel registro grave, mostra sonoramente la presenza invadente della cassa dello strumento, dando così un’immagine “legnosa” (posso supporre che tali minime sbavature possano essere state causate dalla sistemazione della microfonatura). Infine, il dettaglio, al di là del fenomeno “legnoso” dato dal violoncello, abbonda in fatto di matericità.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Il canto dell’anima - 19th Century Italian Masterworks for Cello and Piano
Fabio Fausone (violoncello) - Stefano Musso (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00688