Non è mai un buon segno quando lo spettacolo tarda a cominciare e dal sipario emerge il sovrintendente per un annuncio. Nella fattispecie è Sophie Koch che manda a dire di esser gravemente raffreddata, ma che canterà comunque come e finché potrà nel ruolo di Octavian. L’appassionato di opera sa bene quanto siano molesti siffatti annunci: si ascolta il cantante malato con apprensione, e pur senza volerlo si finisce per cercare di riconoscere segni di difficoltà, difetti, problemi, nell’attesa angosciata della stecca o del tracollo. Non è questo un bel modo di ascoltare e di godersi la musica, tanto che è forse più lodevole l’artista che si espone coraggiosamente al rischio senza avvertire, pagandone poi le conseguenze al momento opportuno. E così non sarà facile giudicare la prestazione della Koch, che pure darà il massimo, arrischiando acuti attaccati fermi e vibrati solo con la graduale messa di voce (prodezza non da poco, impossibile per chi vibra “a prescindere”) e filati eleganti, peraltro mantenendo un volume adeguato all’acustica della sala. Chissà se certe piccole opacità sono reali o se sono invece frutto di autosuggestione, create dall’orecchio apprensivo di chi ascolta, e che ha già potuto apprezzare la Koch nello stesso identico spettacolo, nel 2015, al Festival di Salisburgo. In ogni caso, dopo il primo atto la cantante indisposta, esausta, darà forfait, lasciando spazio alla giovane sostituta Elize Jansen, che le sarà inferiore per autorevolezza scenica e peso vocale, ma nel complesso più che apprezzabile.
Non basta però il piccolo incidente a minare il valore di uno spettacolo che è tra i più belli dell’era Pereira e che approda alla Scala dopo i trionfi austriaci con un cast quasi identico a quello salisburghese e con le stupende scene di Hans Schavernoch – appena un po’ costrette nello spazio del palcoscenico milanese, che rispetto a quello del Grosses Festpielhaus è meno sbilanciato in larghezza. Arredi scenici minimi ma efficaci rendono fruibile e vivace la scena, mentre sullo sfondo le suggestive, talora iperrealistiche proiezioni di Thomas Reimer evocano una Vienna quasi in bianco e nero, con immagini che trascolorano l’una nell’altra: le architetture luminose dello Hofburg e di altri palazzi imperiali, inquadrate dal basso con una prospettiva che le rende solenni e incombenti, poi un bosco invernale, nel quale trova perfetto spazio il monologo della Marescialla, e infine un parco immerso in una nebbia mattutina in cui si possono leggere sia la malinconia della Marescialla, sia i delicati palpiti dei giovani amanti.
Non manca l’effetto sorpresa: ormai abituati al candore perlaceo dei primi due atti, siamo trasportati con la burla del terzo atto in un coloratissimo Prater. Di rado si ammira un apparato scenico che è così bello (e sia concesso questo semplice aggettivo) in sé e al contempo così funzionale all’azione e quasi derivante dalla musica stessa. In tutto ciò, magistralmente diretti da Kupfer, gli interpreti, attori sopraffini, si muovono con ritmo perfetto.
Alle sue capacità attoriali Günter Groissböck deve gran parte del suo trionfo personale nel ruolo di Ochs, tradizionalmente impersonato da un anziano panciuto, e che egli invece rende come un giovane aitante e borioso, ipercinetico e iperattivo, dominato dalla smania di rafforzare la propria posizione sociale ed economica e schiavo di una sensualità volgare. Austriaco doc, forse calca un po’ troppo la mano sul tasto della dizione dialettale (più di quanto non preveda il libretto, che lo caratterizza come un personaggio volgare e provinciale, ma pur sempre nobile), ma con la vivacità della sua interpretazione si fa perdonare anche il peso vocale non sempre imponente, seppure sempre udibile anche nei bassi e corretto negli acuti. Krassimira Stoyanova è forse la miglior Marescialla dei nostri tempi, perfetta per autorevolezza vocale e scenica in ogni momento del suo ruolo. Christiane Karg – Sophie non è all’altezza della sudafricana Golda Schultz, che con il suo timbro e la sua facilità di emissione regalava al ruolo una fragranza impalpabile pur facendosi udire da quell’enorme caverna che è il palco salisburghese, ma si lascia comunque apprezzare per la dolcezza del fraseggio. Tutti adeguati gli interpreti nei ruoli minori, che completano una compagnia di canto davvero eccellente. Sempre per non dimenticare che siamo di venerdì 17, occorre citare il tenore Benjamin Bernheim nel ruolo del cantante italiano, piccola ma impervia parte che, per la sua brevità e per il tipo di scrittura, incoraggia gli interpreti a dare il massimo senza risparmiarsi, a differenza di chi dovrà reggere tre lunghi atti. La voce di Bernheim impressiona subito per smalto, squillo e volume, riempiendo il teatro come nessun altro dei colleghi del cast, ma incorre presto in una stecca – jödel di cui si scuserà al momento degli applausi, che pure saran calorosi, allargando le mani in un gesto sconsolato: si sa che forzare la voce al limite è sempre un rischio.
I detrattori di Zubin Mehta amano stigmatizzarne l’estetismo controllato ma poco incline alle emozioni, ai fuochi cui ci avrebbero abituati i grandi direttori straussiani del tempo che fu (invero pochissimi: per i più severi forse uno solo o due). Ma chi vi scrive aveva ancora vivo il ricordo del medesimo spettacolo schiacciato dalla pesantissima bacchetta di Franz Welser-Möst, gloria locale austriaca di cui non è facile trovare un merito specifico che non sia il rivolgersi in dialetto ai Wiener Philarmoniker durante le prove. Welser-Möst, con la sua dichiarata e disgraziata intenzione di voler sottolineare il peso e la staticità delle convenzioni sociali aristocratiche, trasformava la macchina orchestrale in un lento pachiderma che soffocava i cantanti, pretendendo dagli ottoni sonorità telluriche. Il maestro indiano vince il confronto a mani basse: grazie al suo impeccabile controllo dei volumi orchestrali l’equilibrio tra palcoscenico e buca è sempre ottimale, con gli archi al centro a ribadire il loro protagonismo, la loro centralità narrativa nella ricchissima tavolozza orchestrale; e tutto scorre con naturalezza, come se la difficilissima musica di Strauss fosse trasparente e semplice al pari di una serenata mozartiana. Se la cifra generale è quella di un’elegantissima malinconia (e non è forse la vera cifra del libretto oltre che della partitura?), gli interventi dei fiati sono cesellati in modo da non perdere, ove serve, il sorriso, la garbata ironia dell’artista moderno che guarda a un passato fiabesco che forse non è mai esistito. E i valzer sono resi con tale varietà e flessibilità di tempi da sembrar danze nell’aria. Così si chiude il cerchio di uno spettacolo esemplare in cui regia, scene, direzione e interpreti, una volta tanto, procedono concordi, e il pubblico tributa lunghe ovazioni a tutti, riservando i più sentiti applausi soprattutto a Krassimira Stoyanova e Günter Groissböck e il più caldo affetto a Zubin Mehta.
Paolo Borgonovo
Der Rosenkavalier
Commedia per musica di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss
Der Feldmarschallin – Krassimira Stoyanova
Der Baron Ochs auf Lerchenau – Günter Groissböck
Octavian – Sophie Koch
Faninal – Adrian Eröd
Sophie – Christiane Karg
Jungfer Marianne Leitmetzerin – Silvana Dussmann
Valzacchi – Kresimir Spicer
Annina – Janina Baechle
ein Polizeikommissar – Thomas E. Bauer
ein Notar – Dennis Wilgenhof
ein italienischer Sänger – Benjamin Bernheim
ein Wirt – Roman Sadnik
der Haushofmeister bei Faninal – Michele Mauro
der Haushofmeister bei der Feldmarschallin – Franz Supper
drei adelige Waisen:
Theresa Zisser
Kristin Sveinsdottir
Mareike Jankowski
eine Modistin – Cecilia Lee
ein Tierhändler – Sacha Emanuel Kramer
vier Lakaien der Marschalli:
Massimiliano Difino
Emidio Guidotti
Massimo Pagano
Andrea Semeraro
Leopold – David Meden
Mohammed – Yannick Lomboto
Regia – Harry Kupfer
Scene – Hans Schavernoch
Costumi – Yan Tax
Luci – Jürgen Hoffman
Video – Thomas Reimer
Direttore Zubin Mehta
Maestro del Coro e del Coro di Voci Bianche Bruno Casoni
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Recita del 17 giugno 2016