Disco del mese di Settembre 2024
Le cause della morte di Aleksandr Skrjabin, come si sa, non sono ben chiare. Nel senso che sappiamo che fu causata da una setticemia curata evidentemente con i piedi, ma non conosciamo esattamente da che cosa fu provocata: forse da un taglio al labbro mentre il compositore e pianista russo si stava radendo, o forse dalla puntura di un insetto. Se quest’ultima ipotesi fosse la causa effettiva, un sentore ironico dovrebbe albergare nei nostri pensieri, facendoci sorridere di fronte alle bizzarrie che la vita ci può beffardamente concedere, se si tiene conto che Skrjabin, mentre stava componendo l’ultima Sonata pianistica, la Decima, intitolata, guarda caso, Gli insetti, scrisse testualmente che questa creature invertebrate sono i «baci del sole». Il che mi fa tornare alla mente i versi che Oscar Wilde scrisse in The Ballad of Reading Gaol: Yet each man kills the thing he loves,/By each let this be heard,/Some do it with a bitter look,/Some with a flattering word,/The coward does it with a kiss,/The brave man with a sword! E in questo caso, il codardo in questione, almeno nei confronti di Skrjabin, dovrebbe per l’appunto essere un “bacio del sole”, ossia il perfido insetto, il quale, oltre ad aver bruscamente interrotto con la sua letale puntura il compimento del Mysterium immaginato e inseguito dal compositore moscovita, ha fatto sì che la storia della musica potesse annoverare un altro mistero, quest’ultimo decisamente meno esoterico-teosofico, ma molto più pregnante la materia sonora, vale a dire che se Skrjabin avesse continuato nella sua opera musicale, sarebbe arrivato per altri sentieri, per altre vie, alla dissoluzione totale e sistematica del linguaggio tonale, quindi toccando la medesima meta conquistata dal negletto Josef Matthias Hauer, del quale la maggior parte dei cosiddetti musicofili non sa nemmeno chi cazzo sia, ma che è passato giustamente alla storia come colui che ha dato vita alla dodecafonia, in barba al più ingiustamente celebrato Arnold Schönberg, che se ne è impossessato più o meno indebitamente in un secondo momento.
Ma, insetti, tagli con il rasoio e conseguenti setticemie a parte, se adesso affronto il capitolo, alquanto problematico e sfuggente relativo a Skrjabin, il motivo è dato da una recentissima produzione discografica della Da Vinci Classics, che ha pubblicato un CD nel quale il pianista e compositore fiorentino Pietro Rigacci interpreta le ultime cinque sonate pianistiche del nostro autore, ossia la seconda metà esatta del corpus sonatistico skrjabiniano. Chiarisco, sempre a beneficio dei nescienti, che Rigacci è giustamente conosciuto per essere uno dei massimi specialisti del pianismo di Skrjabin, non solo a livello interpretativo, ma anche teorico-esplicativo. Quindi, una sua registrazione dedicata alla musica pianistica del moscovita dev’essere considerata un evento al quale dedicare la dovuta importanza. Ergo, e non penso di esagerare nell’affermarlo, se Skrjabin è il nostro Dante, Rigacci è il suo Virgilio e tutti noi, se vogliamo uscire indenni dall’inferno e dal purgatorio musicali del moscovita, dobbiamo per forza stargli dietro, anche a costo di afferrarlo per la giacca, in modo da non perderci.
Il nostro possibile perderci potrebbe anche essere causato dal fatto che tutta la produzione compositiva di Skrjabin non dev’essere letta e codificata solo attraverso le coordinate del linguaggio musicale, e di per sé già queste ultime sarebbero alquanto problematiche data la complessità tecnica della musica dell’autore in questione, ma soprattutto per via delle visioni (mi spiace scriverlo, ma devo) e le conseguenti farneticazioni immaginifiche delle quali Skrjabin si cibò nel corso della sua breve e intensa vita. Con ciò non voglio assolutamente affermare che il compositore e pianista russo fu solo un esaltato, un “iniziato de’ noaltri”, ma fu solo in parte coscientemente, in parte incoscientemente figlio del proprio tempo, ossia di un’epoca, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primissimi di quello successivo, in cui avvennero fatti apparentemente alquanto strani e bizzarri. Fu quello scorcio epocale, infatti, il punto d’incontro tra razionale e irrazionale, tra materia e spirito, in cui la merda aveva il sapore della cioccolata e viceversa, se teniamo conto, tanto per fare un semplicissimo esempio, che uno dei maggiori esponenti del positivismo accademico, il torinese Cesare Lombroso, figlio écrasé delle teorie ultradarwiniane, fu illuminato sulla strada dello spiritismo, divenendo di fatto ammiratore e paladino di una millantatrice semianalfabeta, la sedicente medium Eusapia Paladino, prendendo parte a diverse sue sedute spiritiche e scrivendone entusiastici resoconti da scienziato-psicopompo. Fu un’epoca, quella, in cui gli effluvi floreali del decadentismo si unirono con gli olezzi d’incenso di tardivi ripensamenti baciapilistici (casomai non fossi stato sufficientemente chiaro, mi riferisco al già citato Oscar Wilde, al nostro Antonio Fogazzaro e al transalpino Joris-Karl Huysmans), con il risultato di ottenere degli interessantissimi casi che, in seguito, un Amintore Fanfani avrebbe orgogliosamente definito frutto degli esecrabili “opposti estremismi”, vale a dire che il demonio andava a letto con lo spirito santo. E gli esempi e le citazioni, in tal senso, potrebbero continuare a iosa, ma mi interessa, a questo punto, far comprendere come Skrjabin in chiave musicale, come un Rainer Maria Rilke in quella poetica, rappresenta il risultato di pulsioni contrastanti, in cui, per l’appunto, gli opposti si toccano, e ciò che in altri tempi sarebbe stato del tutto inammissibile, in quella fu accettata e digerita, dando così modo all’impensabile di essere non solo pensato, ma anche realizzato, e portando in ambito artistico, ma non solo, all’improvvida coesione di elementi disparati, perfino antitetici, insomma, facendo sì che di tutta l’erba se ne facesse un fascio.
Pietro Rigacci mi dovrà ancora una volta perdonare ma, a ben vedere, la musica di Aleksandr Skrjabin rientra proprio in quest’erba che diviene tutta un fascio proprio perché l’arte sonora si coniuga e si disperde in lui in una visione metafisica più o meno abborracciata, a volte stiracchiata, altre frutto di una mente esaltata (Vladimir Horowitz, che pur è stato un eccelso interprete delle sue musiche, in vecchiaia, quindi a rischio di rimbambimento, affermava che Skrjabin era stato un folle, vittima di continui tic al limite della mioclonia, incapace di stare fermo e seduto per più di un minuto). E ciò, a livello interpretativo, sia in ambito musicale, sia parallelamente in quello critico, può divenire assai problematico, se non addirittura rischioso, poiché con Skrjabin l’approccio ermeneutico può risultare, proprio a causa di ciò, meno efficace e meno affidabile.
Inoltre, c’è anche un altro aspetto, che lo stesso pianista e compositore fiorentino mette in evidenza nelle sue note introduttive al disco della Da Vinci Classics, un aspetto che non si presenta in altri compositori coevi, ma che rappresenta una particolarità pressoché assoluta in Skrjabin. Mi riferisco al fatto che il musicista moscovita impiegava una terminologia a dir poco originale a livello di indicazioni nelle sue partiture, oltre a quella consueta e generalizzata, che doveva “guidare” l’interprete non solo a livello tecnico-esecutivo, ma anche per ciò che riguardava lo stato d’animo da attuare e mantenere nel corso di quel determinato tempo o passaggio. Così, a titolo di esempio, la Sonata n. 6 op. 62, porta le seguenti indicazioni “interiori”: si parte da un “Modéré: mystérieux, concentré; étrange, ailé; avec une chaleur contenue, soufflé mystérieux; onde caressante”, per passare a “Un peu plus lente (le rêve prend forme)” ed evolvendosi in un “Appel mystérieux” che cede poi il passo a un “Sombre épanouissement de forces mystérieuses” alla “Joie exaltée”, seguita da un “Effondrement subit”, da un “Tout devient charme et douceur” e che si conclude con un “Épouvante surgit et se mèle à la danse delirante”.
È interessante notare come questo modo di intendere l’esecuzione musicale in Skrjabin porti di conseguenza a fare due considerazioni; la prima è che proprio per la portata metamusicale della sua visione, è indubbio che nel compositore e pianista russo l’arte sonora possa essere considerata uno “strumento-in-sé”, vale a dire apporto utile alla realizzazione di un piano, di un programma più grande e assoluto, andando quindi a capovolgere la visione romantica, che considerava la musica come un qualcosa di “assoluto-in-sé” (ma questo, a dire il vero, appartiene non solo a Skrjabin, ma per restare nell’ambito simbolico-decadentista, anche al già citato Rilke per ciò che riguarda l’arte poetica, senza contare che tutti quegli intellettuali e artisti che vennero a contatto con le teorie teosofiche di Madame Blavatski assimilarono e misero in pratica il fatto che ogni forma artistica non rappresentava un punto di arrivo, bensì un punto di partenza, un relativo per aspirare all’assoluto); la seconda è che, nelle dinamiche che fanno parte della storia musicale della prima metà del Novecento, con Skrjabin si assiste all’inizio di quel progressivo mutamento del rapporto tra compositore ed interprete, con il primo che tende a “delegare” maggiormente al secondo determinate scelte stilistiche ed esecutive e che porteranno, soprattutto con l’avvento delle avanguardie e della musica post-seriale, chi interpreta ad ergersi nel ruolo di colui che decide totalmente e in perfetta autonomia per ciò che riguarda l’esecuzione di una partitura, in quanto la figura del compositore si ritrae da quella di “indicatore” della partitura stessa.
Quindi, con Skrjabin, l’interprete diviene infine l’artefice di se stesso, portando a compimento e, contemporaneamente, superando quanto avviato decenni prima da Niccolò Paganini e da Franz Liszt, ossia facendo sì che dalla figura dell’“artista-divo” si arrivasse a quella di “artista-ideatore”, in grado di ri-comporre sulla base di quanto scritto in quella partitura interiore che si chiama Io. Di fronte a questa mutazione nel rapporto tra compositore e interprete, una possibile e inevitabile domanda potrebbe essere questa: chi può eseguire la musica pianistica di Skrjabin? Quale modello di interprete può essere più adatto? A mio avviso, esistono tre tipologie di interpreti che possono affrontare le partiture del compositore moscovita senza uscirne sconfitti: 1) pianisti dotati di un forte ego musicale (Vladimir Horowitz); 2) pianisti che possono essere considerati, espressivamente e maniacalmente, degli alter-ego di Skrjabin (Vladimir Sofronickij); 3) pianisti che sono anche compositori, come nel caso del nostro Pietro Rigacci. Inoltre, ritengo che se si deve fare affidamento su un’interpretazione che vada oltre possibili tentazioni umorali e “umbratili”, la terza tipologia di pianisti possa rispondere meglio, anche a livello di un approccio alla musica di Skrjabin, rispetto ai primi due, in quanto chi è pianista e, allo stesso tempo, compositore può padroneggiare meglio la presenza ingombrante e, a volte, imbarazzante data dal concetto del Mysterium.
Quindi, eccoci alla lettura fatta dal pianista e compositore fiorentino. Nelle sue note introduttive, Rigacci fa presente di aver eseguito e registrato le ultime cinque Sonate di Skrjabin «come se ciascuna fosse la continuazione della precedente, come una Sinfonia in cinque movimenti. Un viaggio dell’Umanità attraverso la luce e l’ombra, la speranza e la disperazione fino all’annientamento, e poi alla rinascita in un mondo superiore». Un unicum che ha poi spiegato, a livello programmatico, adottando un approccio esplicativo drammaturgico per ognuna di esse, fornendo così una sorta di “audioguida” all’ascoltatore. Il mio personale suggerimento, semmai, è quello di ascoltare primale cinque Sonate e poi di riascoltarle seguendo il filo programmatico del nostro pianista e compositore; questo non per il fatto che l’esecuzione di Rigacci sia personale o, peggio, eterodossa rispetto alle intenzioni metamusicali incarnate dal Mysterium inseguito e vagheggiato da Skrjabin, ma per apprezzare meglio, a un secondo e ulteriore ascolto, le scelte da lui fatte in sede esecutiva, poiché la sua lettura, per nostra fortuna, e questo lo preciso subito, non si lascia andare a esiziali voli pindarici di sola andata.
Questo significa che la materia musicale viene da lui trattata con lucida “oggettività”, senza ipercaricare la timbrica di elementi che facciano ipotizzare o suscitare strutture mistiche o psichiche tali da deformare l’entità sonora. Ciò si percepisce sin dalla Sesta sonata, quella composta e poi aborrita dallo stesso Skrjabin e sulla quale aleggia un alone di demoniaca “maledizione” (il fatto che lo stesso Richter, fedele interprete del repertorio pianistico skrjabiniano, l’abbia eseguita solo un paio di volte, per poi starne prudentemente alla larga, la dice lunga). Qui, Rigacci, anche se la pagina in questione non è intaccata “materialmente” dal concetto del Mysterium, fa in modo di incanalare la sua esecuzione nella temperie prebellica, la sua creazione risale infatti al 1911, liberandola da quella perniciosa lotta tra le forze del bene e quelle del male, per calarla invece in una tensione in cui la musica si inserisce nella dimensione di quel tardoromanticismo che già avverte la fine di un’epoca e il suo precipitarsi in un’altra. Gli stessi sbalzi timbrici, quelli che fecero a posteriori inorridire Skrjabin, non vengono trattati come improvvise e improvvide irruzioni metafisiche, ma come principio organico di tutto il costrutto (il pianista e compositore fiorentino già da questa Sonata prende a lavorare e a calibrare le cesure, proprio per non dare la stura a una concezione “drammaturgica” che scade nel teatralizzante in sé).
La Settima sonata op. 64, detta Messa bianca, già bussa alla porta al Mysterium e la materia musicale, in sede espressiva, si fa ancora più esasperata nei suoi mutamenti repentini, ma non per questo Rigacci approfitta di quella libertà concessa da Skrjabin per elaborarne la struttura e per decodificarla. La sua capacità di generare riflessione nell’ascoltatore, nel farlo mentalmente compartecipe, non decade in una pantomima di una colpa che viene espiata attraverso il raggiungimento della luce (da qui l’immagine di un vero e proprio “esorcismo musicale”), ma come continua esplorazione del suono, facendo palpitare la cristallinità timbrica che è elemento di fascino in questa pagina (forse la più prossima all’universo maliardo di un Debussy). Ero curioso di ascoltare come Rigacci affrontasse poi l’Ottava sonata op. 66, che rappresenta già una solenne frattura rispetto alla Sesta e alla Settima, per via della sua tragicità, per usare il termine impiegato da Skrjabin che, come la Sesta, non volle mai eseguire in pubblico. Rigacci affronta il Lento iniziale in modo efficacemente rappreso, per portare la struttura sonora in modo più consono verso le inevitabili asperità armoniche e timbriche con maggiore efficacia (evita così indebiti strappi che non porterebbero l’immagine “contrappuntistica” a manifestarsi compiutamente). Inoltre, è congeniale l’atmosfera sospesa che riesce a ricreare, caricando la massa sonora di un principio di attesa, di non risoluzione: il tutto aleggia, impalpabile, in un procedimento che lascia sempre una “sfocalizzazione” che attrae e non respinge l’ascoltatore. E poi quella cristallinità timbrica, quel “purificarsi” autorigenerante che viene perfettamente reso con un dominio totale della tastiera. La “tragicità” dev’essere padroneggiata, governata, sembra dirci Rigacci con la sua lettura.
Il rebus dato da ciò che è inquietante e che sfocia nel grottesco, è questo che il pianista e compositore fiorentino deve dirimere affrontando la Nona sonata op. 68. Anche qui, fondamentale, è la lucidità da fornire all’arcata generale della pagina pianistica, distillando sapientemente l’irruzione della massa oscura, nebulosa, che va a infettare la melodia iniziale e procedendo, in progress, verso la terribile marcia (associo sempre questo momento alla parata grottesca che Goethe descrive nella prima parte del Faust). Rigacci distilla magnificamente il tutto, soprattutto nel momento in cui il suono, ancora chiaro, distinto, positivo, comincia ad essere infettato e si avvia verso il tempo Alla marcia; qui, il suo pianismo diviene “olfattivo”, capace di trasmettere il sentore di succhi gastrici che vanno a impregnare il timbro, innervandosi nelle pieghe dissonantiche del costrutto armonico. È da apprezzare, poi, come il pianista fiorentino riesca a non trasformare la marcia in una paginaccia ad effetto, una Notte sul Monte Calvo in salsa skrjabiniana, ma offrendo pennellate sonore nette, lavorando adeguatamente con la pedaliera, in modo da evitare connotazioni horror che avrebbero soltanto solleticato la fantasia di Dario Argento.
L’incipit enigmatico della Decima sonata op. 70 che Rigacci riesce a ottenere è un momento di pianismo assoluto: dominio del suono, pressione sui tasti, timbro straordinariamente evocativo, immaginifico, un impressionismo che tende già a scomporsi, un sentiero che diviene ben presto contorto, quasi labirintico. E ciò vale anche per i famosi trilli che farciscono al limite dell’indigestione questo brano, la cui cristallinità metafisica, non quella timbrica, appare velata, quasi una patina acquosa che non permette al suono di essere perfettamente messo a fuoco, come un qualcosa che è in corso di “purificazione”. L’incedere che il pianista fiorentino propone non si riferisce a un essere-già-dato nella sua realizzazione finale, ma un proficuo divenire di ciò-che-sta-per-essere. Il suo, esecutivamente, è un progressivo disvelarsi, una cortina dopo l’altra che vengono strappate, dando vita a una “danza agogica” che non perde mai la bussola, e ciò permette di ottenere una straordinaria efficacia timbrica. Il tutto rende la registrazione di questa Decima Sonata una delle più riuscite in campo discografico.
Ma non è solo quest’ultima pagina a rappresentare l’apice di tutto il disco, in quanto anche le altre quattro Sonate, andando a formare quell’unicum immaginato dal nostro interprete, dà modo a questa registrazione di incarnare un unicumesecutivo, in cui lucidità, dominio, visione, resa timbrica, chiarezza d’intenti nella rappresentazione delle singole arcate contribuiscono a confezionare un CD che, nel panorama variegato e dai risultati altalenanti della discografia skrjabiniana, rappresenta un must irrinunciabile.
Disco del mese di settembre di MusicVoice.
La presa del suono effettuata da Mirko Malacarne presso l’Auditorium del Suffragio di Lucca è complessivamente positiva, in quanto la dinamica è in grado di esaltare la bellezza del suono sprigionato dallo Steinway & Sons Modello D “Duecentesimo” usato da Pietro Rigacci. Questa dinamica, dotata di sufficiente velocità, di apprezzabile naturalezza e di ottima energia, riesce a far emergere a livello di ricostruzione, nel parametro del palcoscenico sonoro, lo strumento che si trova a una notevole profondità, forse un po’ eccessiva, ma senza che ciò possa pregiudicare le sfumature più tenui e i ppp, anche se il suono non riesce a irradiarsi compiutamente in altezza e in ampiezza (in termini di ascolto è come se ci trovassimo in una decima/quindicesima fila in platea). Anche l’equilibrio tonale, soprattutto nei fff e negli sbalzi timbrici, si fa apprezzare per un’indubbia pulizia e per lo scontorno che si riscontra tra registro medio-grave e quello acuto. Da ultimo, il dettaglio, nonostante la notevole profondità in cui si viene a trovare il pianoforte, non perde d’efficacia per ciò che riguarda la sua matericità tridimensionale.
Andrea Bedetti
Alexander Skriabin – Late Piano Sonatas
Pietro Rigacci (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00919
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5