Nell’autunno del 1807, dopo aver trascorso alcuni mesi nella clinica psichiatrica del professor Ferdinand Autenrieth, uno dei precursori della moderna psichiatria, Friedrich Hölderlin fu affidato alle cure della famiglia del falegname Ernst Zimmer, un uomo di discreta cultura, il quale ammirava l’autore di Brot und Wein e di Archipelagus dopo aver letto il suo romanzo Hyperion. Il poeta occupò una piccola stanza all’ultimo piano, nel retro a forma circolare della casa del falegname, e per questo motivo chiamata Die Turm “la torre”, che aveva una vista bellissima del fiume Neckar e della sua vallata, in quel di Tubinga. A quell’epoca, Hölderlin aveva esattamente trentasette anni e in quella “torre” era destinato a trascorrerne gli ultimi trentasei della sua vita infelice.
Chiuso in quella piccola camera, l’unico spazio nel quale si sentiva al sicuro (la moderna psichiatria ha stabilito che soffrisse di una forma schizofrenica catatonica), Hölderlin fu solito trascorrere tutto il suo tempo, scrivendo diverse poesie, firmandole quasi sempre con lo pseudonimo Scardanelli e apponendo come date della loro composizione quelle di secoli addietro. Oppure, ammirava per ore, come scrisse uno dei diversi visitatori, il poeta Wilhelm Waiblinger, il panorama del Neckar e della valle dalla finestra aperta, in piena e totale armonia con la natura (la sua ultima poesia, La veduta, fu dedicata ad essa e risale ai primissimi giorni del giugno 1843, prima di cadere vittima di una polmonite fulminante che lo condusse alla morte il giorno 7 dello stesso mese).
Come pochissimi altri nella storia della letteratura e della poesia mondiali, il poeta di Lauffen am Neckar seppe impersonare il concetto della malattia, del disagio psicologico che soggiace all’esistenziale, nella sfera artistica, quando l’atto creativo è sinonimo di anormalità nel senso più puro e sublime. Ma la poesia di Hölderlin non si fissa soltanto nei suoi versi, intrisi di folle lucidità, in quanto lo stesso fluire della sua esistenza è manifestazione artistica, un’arte che è ripudio di tutto ciò che non confluisce in essa, filtrata dalla dimensione della follia, che si trasforma in un supremo rifugio nel quale trovare riparo e comprensione. Oltre all’espressione poetica, Hölderlin coltivò la filosofia e la musica, con quest’ultima che ebbe un ruolo centrale nella formazione culturale (in gioventù ebbe modo di prendere lezioni private di pianoforte e flauto, studi che gli permisero di comprendere come l’arte dei suoni gli potesse offrire non solo elementi teorici, ma un vero e proprio “lessico” metalinguistico per poter sviluppare e affinare meglio la sua trattazione estetico-dialettica della materia poetica).
Musica che si tramuta in poesia, dunque, ma anche poesia che può divenire gesto musicale, ribaltando la direzione artistica della creazione, versi e gestione quotidiana dell’esistenza che forniscono lo spunto per descrivere l’uomo Hölderlin mediante l’applicazione di suoni, emanazione di un segno che non è più parola, ma tracciamento sul pentagramma, che diviene il sismografo elettivo di uno stato d’animo perpetuato da un quartetto per archi, come ha appunto fatto il compositore, liutista e chitarrista tedesco Hans-Jürgen Gerung, il quale ha voluto dedicare al grande poeta il suo ultimo lavoro compositivo, dal titolo Hölderlin-im Turm – nine fragments for string quartet, eseguito lo scorso 4 aprile 2022 dal Minguet Quartet durante un concerto-studio presso la sede della OBERSTDORFKULTUR.
Questa composizione è suddivisa in nove frammenti che tratteggiano gli ultimi anni della vita di Hölderlin nella casa della famiglia Zimmer. Reduce dall’amara e dilaniante esperienza nel reparto psichiatrico del nuovo ospedale di Johann Autenrieth a Tubinga (la cartella clinica del poeta non è stata conservata, ma sappiamo, attraverso la lista dei farmaci utilizzati dallo psichiatra, che a Hölderlin furono somministrati forti sedativi), una permanenza claustrofobica durata esattamente 231 giorni, il poeta, in preda a una forte depressione causata dalla fine dell’unica, grande storia d’amore, quella per Suzette Gontard, la celeberrima “Diotima”, giunge nella “torre” e di lui si prende principalmente cura Lotte, la figlia del falegname Zimmer, un compito che per lei divenne assoluto dopo la morte del padre.
Hölderlin-im Turm si concretizza musicalmente nelle due figure centrali prese a prestito da Gerung, ossia da una parte Suzette Gontard e dall’altra Lotte Zimmer (con la prima nel ruolo dell’elemento disgregante e con la seconda che assume al contrario un contesto aggregante), alle quali il compositore tedesco ha dedicato il secondo e il sesto frammento dell’opera, mettendo in risalto la loro opposizione negativa/positiva (è interessante notare come, attraverso un apporto del tessuto dissonantico/consonantico Gerung metta in risalto nella prima la raffigurazione, malgré soi, della belle dame sans merci, immagine questa sviluppata soprattutto nella poesia di John Keats, e nella seconda la parafrasi di un elemento materno, colmo di liquido amniotico, capace di stabilizzare, equilibrare a tratti la psiche hölderliana e scevra da qualsiasi tentazione erotica). Ad aprire e a chiudere la composizione ci sono un prologo e un epilogo, due brani che forniscono subito l’idea che Hölderlin-im Turm sia equiparabile a una sorta di una rappresentazione teatrale o di un componimento poetico, di un filo narrante in cui il soggetto, la mente annebbiata, distorta, del poeta, porge ascolto all’oggetto che lo circonda, alle persone, quelle poche che lo frequentano (in tal senso, è lungimirante la lettura di un interessante saggio scritto da Daria Gigli, dal titolo Una visita a Hölderlin, in cui si ripercorre il racconto delle visite fatte da poeti, letterati, ammiratori e che culmina, a livello di narrazione, in quel mirabile racconto di Hermann Hesse, Nel padiglione del giardino di Pressel. Un racconto dell’antica Tübingen).
Se il Prologo e l’Epilogo fanno da apertura e chiusura a livello temporale, almeno per quello dell’ascoltatore, oltre ai brani dedicati a Suzette e a Lotte, vi è quello dedicato a Ernst Friedrich, il falegname, e tre intermezzi, che fanno da apparente collante tra gli uni e gli altri fino al penultimo, Der Tod, che porta a compimento la vita del poeta e della stessa composizione. Vi è una chiara distinzione, un DNA armonico e lessicale che separa il Prologo, i tre Intermezzi e l’Epilogo rispetto a quello che determina i brani dedicati a Suzette, Lotte, al falegname e a Der Tod; se il Prologo getta l’ascoltatore nella piccola stanza della Torre occupata dal poeta, con una ricerca sonora in cui il livello dissonantico non è marcato, come se l’offerta consonantica fosse espressione di una possibile comunicabilità tra l’oscura luce di Hölderlin e la banale luminosità di coloro che cercano di stabilire un contatto con lui, gli Intermezzi non hanno solo la funzione di collegare i brani che incorniciano i tre personaggi chiave e che formano una sorta di triangolo equilatero esistenziale, ma anche di rappresentare la realtà piccolo borghese nella quale il poeta fu relegato, costretto a confrontarsi quotidianamente con essa, elemento di perenne frattura tra coloro che non comprendono la lucida follia poetica e Hölderlin ancorato a una dimensione vitale di cui l’espressione poetica rappresenta unicamente il suo affioramento concreto. Ammirazione, rispetto, desiderio di risultare utili: è quanto fanno coloro che circondano il poeta in questo deformato e dissonantico Kammerspiel, il cui punto estremo è dato dal suono dei quattro strumenti che danno vita alla pagina conclusiva di Der Tod, il cui timbro è un continuo stridor di denti, come a dire che neanche la morte può comprendere la grandezza e l’assolutezza date dall’arte. Resta il commiato finale, l’Epilogo, il cui desolato eloquio dato dal costrutto tonale, in cui la tentazione dissonantica non è mai compiuta, ma solo larvatamente accennata, sfiorata, accarezzata (per certi versi, si notano parallelismi con la scrittura cameristica di Alexander Zemlinsky), come se ci fosse un ultimo tentativo in atto di conciliare l’inconciliabile, di ricomporre la frattura, decodificando nel linguaggio della quotidianità il messaggio poetico, fatto di squarci eraclitei che erompono nella trivialità dell’esserci.
La frattura esistenziale, dicevamo, è quella incarnata principalmente dall’impatto terribilmente dissonantico dato dalla figura di Suzette, che Gerung assolutizza nell’elemento più disgregante, la causa del motivo scatenante nella follia del poeta, colei che lo prende per mano per portarlo nella valle dell’annichilimento, che coincide nel momento in cui l’uomo Hölderlin prende commiato dalla realtà per consegnarla nelle mani di Scardanelli. Al contrario, il brano dedicato a Lotte da un lato cerca di manifestare un tentativo di conciliazione, di comunicazione (dato ritmicamente dal pizzicato e da un sommesso fraseggio nella parte centrale), ma lascia ineluttabilmente alla fine l’ascoltatore in una dimensione sospesa, incompiuta, come lo sono gli sterili tentativi Lotte da persona incolta (filistea, direbbe Beethoven), incapace di cogliere la grandezza del poeta, anche se ne ammira ingenuamente la portata. Il brano dedicato a Ernst Friedrich, invece, è colmo di una delicata pietà, fatta di una soffice dissonanza timbrica, quasi timida nella sua essenza (basata soprattutto su un accorato registro acuto): sembra quasi di vederlo entrare nella stanza del poeta in punta di piedi, spiandolo dalla fessura aperta della porta per cercare di capire, in preda alla desolazione e alla speranza che finalmente qualcosa succeda, un miracolo, affinché Hölderlin torni in sé. Ma il falegname, sebbene affascinato dalla lettura dell’Hyperion, non può comprendere che la possibilità di tornare in sé cancellerebbe nel poeta l’atto portante del fare poesia, il suo andare oltre, il suo essere meta-uomo, anticipando di fatto l’oltre-uomo nietzschiano, quello che rende fattivo il suo essere Zarathustra nel momento stesso in cui a Torino, il 3 gennaio 1889, come ci racconta la storia (o la leggenda?) abbracciò un povero cavallo assurdamente maltrattato dal suo cocchiere, dando così la stura ai successivi “biglietti della follia” (invito, a tale proposito, gli appassionati di cinema a vedere Il cavallo di Torino, squisito capolavoro di Béla Tarr, che prende spunto proprio da quell’episodio).
Quello di Gerung, indubbiamente, è un totalizzante atto d’amore, di ammirazione, di commozione nei confronti di Hölderlin (il quartetto è stato composto nel 2019, durante una permanenza in assoluta solitudine, nella repubblica ceca), la cui figura viene presa in prestito e gettata in pasto al mondo sonoro per rappresentare, come se fossero le stazioni di una passione bachiana, l’impossibilità dell’arte di essere realmente compresa (non dimentichiamo il celeberrimo paradosso estetico di Adorno, secondo la quale il capolavoro artistico è tale solo se risulta essere incomprensibile), soprattutto quando essa viene veicolata dall’apporto della malattia, fisica o psichica che sia. Così lo straniante suono dei quattro strumenti ad arco diviene emblema, simbolo, elemento di raffronto tra il mondo della triviale quotidianità, la quale si manifesta anche nella sua spiazzante buonafede, e il processo creativo, che porta sovente l’artista a incarnare la sua separazione, il suo frantumarsi contro di essa, facendo di lui, citando una felice espressione di Antonin Artaud, un “suicidato della società”.
Questo senso straniante, questa incapacità non solo di essere compreso, ma soprattutto di non essere raggiunto e accettato dagli altri, viene reso magnificamente dalla iperlucida lettura effettuata dai quattro componenti del Minguet Quartet (Ulrich Isfort e Annette Reisinger violini, Aida-Carmen Soanea viola e Matthias Diener violoncello); la partitura di Hans-Jürgen Gerung impone una febbrile resa del timbro, facendo in modo che l’opacità del suono, che simboleggia la vacua e nebbiosa realtà esistenziale del poeta, debba rendere da una parte quasi spettrali le parti consonantiche e dall’altra levigate, smussate quelle dissonantiche, affinché i confini posti tra consapevolezza e follia, tra sogno e quotidianità, tra banalità e senso poetico delle cose risultino i più sfumati e indistinti possibile. Così, con il Minguet Quartet si entra in un labirinto sonoro, in cui talvolta le mura lasciano spazio a un fugace raggio luminoso, oppure si viene avvolti in opprimenti atmosfere timbriche, magari sapientemente addolcite da seducenti glissandi; ma il senso generale, le arcate che sovrastano tale lettura non mancano mai di una raffinata freddezza, di una glacialità che ammanta ogni cosa che viene sfiorata con l’udito, poiché il fine a cui mirava tale interpretazione (e i quattro componenti del quartetto tedesco ci riescono benissimo) era quello di far entrare ogni ascoltatore nella stanza di Hölderlin, di restare accanto a lui, invisibili presenze affinché nulla fosse mutato, ma solo percepito.
Andrea Bedetti
Hans-Jürgen Gerung – Hölderlin-im Turm. Nine fragments for string quartet
Minguet Quartet
Giudizio artistico 4,5/5