Vivere e fare arte in una cultura può essere ingombrante, farlo attraverso l’influsso e la tradizione di due, soprattutto se contrapposte, può essere assai problematico, se non addirittura generare conflittualità. E, in un certo senso, una recentissima produzione della Da Vinci Classics può confermare questa seconda tesi, visto che l’interprete, la pianista giapponese naturalizzata francese Marina Saiki, ha voluto esprimere il fascino e il disagio che si provano nell’essere il risultato, sempre mutante e cangiante, tra due culture, quella natìa e quella acquisita, tra quella d’impronta orientale e quella occidentale, in perenne balia tra l’essere, incarnata dalla prima, e il divenire, rappresentata dalla seconda.

La cover del CD Da Vinci Classics con brani pianistici di autori francesi e giapponesi.

Tutto ciò potrà avere anche delle conseguenze positive, ma è indubbio che potrà anche portare a delle problematiche che sono destinate a restare irrisolte, come afferma la stessa pianista nelle note introduttive del disco, intitolato emblematicamente Double Reflet, quando afferma che «due culture, due epoche, due storie in definitiva sono una sola: quella di chi, sradicato, si sente a casa ovunque e in nessun luogo allo stesso tempo». D’altronde, se una cultura è fondamentalmente il riflesso di ciò che si vive in essa, parametrarsi e confrontarsi con una doppia cultura significa essere continuamente rimbalzati tra il riflesso dell’una con quello dell’altra, con il risultato di sentirsi estraniati ovunque ci si trovi. Ma la creazione, l’applicazione di una forma artistica si ciba anche di ciò, anzi, senza cadere per forza nella retorica, ciò può essere fondamentale per dare vita a ciò che si prova, immettendo così linfa vitale nella vena artistica che si è scelto di manifestare.

Essendo una musicista, una pianista ormai affermata, Marina Saiki ha voluto così unire la sfera del mondo sonoro orientale con quello occidentale attraverso un ponte, il proprio, quello soggettivo, dato dalla sua sensibilità di interprete, nel tentativo di conciliarli, di appianarli, di renderli semanticamente omogenei nella loro inevitabile repellenza esistenziale e culturale. Impresa non da poco, la sua, mutuata e applicata mediante l’ausilio balsamico e curativo fornito dalle pagine pianistiche di tre autori nipponici, Tōru Takemitsu, Yoshihisa Taïra e Akira Nishimura, e di altrettanti compositori francesi, Claude Debussy, Maurice Ravel ed Erik Satie.

Claude Debussy ed Erik Satie in un'emblematica immagine scattata davanti a uno specchio.

Di questa trimurti transalpina, Marina Saiki ha presentato rispettivamente del primo Masques e L’isle joyeuse, entrambi risalenti al 1904, e Des pas sur la neige, tratto dal primo libro dei Préludes; del secondo La vallée des cloches tratto da Miroirs, e Jeux d’eau, mentre del terzo due delle immancabili sette Gnossiennes (per la precisione la prima e la quarta, registrate dal vivo). Masques rappresenta una delle pagine più enigmatiche della produzione pianistica debussyana e il suo titolo, come precisò lo stesso autore, non si rifaceva alla tradizione teatrale della commedia italiana, bensì a una sorta di danza tragica, una sorta di danza della morte di medievalistica memoria. Inquietante ed enigmatica nel suo incedere ritmico, ossessivo, snaturante, che permette al tema motivico di affacciarsi solo a partire dalla battuta 80, questa composizione dev’essere percorsa non solo da una febbrile elettricità, a livello di lettura interpretativa, ma anche fuggevolmente meditata, sapientemente rallentata nei momenti in cui la rete ritmica si allenta, quasi stremata dalla sua stessa veemenza, cosa che la pianista nippo-francese riesce a fare in modo del tutto adeguato.

Il sesto Prélude del primo libro viene trasmesso da Marina Saiki con un mix di desolante asciuttezza e di ricerca disperata di una pur latente comunicazione, una mano tesa che spunta dal manto nevoso, una mano che annaspa, che tasta l’aria, un’immagine che viene resa sonoramente da un approccio en ralenti, quasi agonizzante. Ora, se Masques è l’omega, allora L’isle joyeuse è indubbiamente il suo alfa, una pagina nella quale Debussy gioca con la luce, come un prestidigitatore lo fa con un mazzo di carte. Qui è di primaria importanza la capacità di saper rendere questo gioco di luce con una gamma iridescente di sfumature timbriche che si sorreggono vicendevolmente attraverso i mutamenti della sezione ritmica; da quanto ho avuto modo di ascoltare, Marina Saiki è riuscita a comprendere tale meccanismo esecutivo e ha fatto affiorare queste peculiarità con una padronanza ottimale della tastiera.

Il compositore giapponese Akira Nishimura.

Non mi stupisce il fatto che la nostra pianista abbia scelto tra i cinque brani che compongono Miroirs proprio l’ultimo, ossia La vallée des cloches, in quanto nel suo incedere mesto e quasi lamentoso si può scorgere/ascoltare un tentativo di unione tra le due sponde opposte di Oriente e di Occidente, così come la capacità di saper accettare la dimensione del dolore, il che può portare paradossalmente a una forma di felicità. Mi sbaglierò, ma qui Marina Saiki si è identificata totalmente in questo tentativo di rappresentare un’unione data dall’opposta diversità e dalla necessità, dal bisogno di accettare il negativo per sentire in sé il positivo. Affermo ciò perché in questo brano il suo pianismo risulta miracolosamente sospeso, incurante delle leggi della fisica, dando vita a un suono levitante e incurante di tutto ciò che tende al basso, a ricadere, per restare al contrario amico, amante dell’aria, di ciò che resta in alto, donando alla timbrica del pianoforte l’immoto di un corpo avvinghiato in un coma indotto farmacologicamente. Allo stesso tempo, la scelta di Jeux d’eau non avrebbe potuto essere più paradigmatica, in quanto lo spirito orientale e, in particolar modo quello nipponico, è legato al culto simbolico dato dall’acqua. Sfido chiunque a trovare un brano per pianoforte che sia altrettanto bisognoso di una lettura attraverso la quale le dita, scorrendo e soffermandosi sulla tastiera, siano in grado di “massaggiare” i tasti, con il preciso scopo, dato da codesto “massaggio”, di saper esplorare efficacemente “la forma dell’acqua” (prendo a prestito il titolo dell’omonimo, splendido film di Guillermo del Toro) esaltata da questo capolavoro raveliano. Anche qui, l’interprete nippo-francese non si smentisce e ci fa comprendere che con questo tipo di “massaggio” fatto alla tastiera ci sa veramente fare, restituendo un’immagine squisitamente cristallina, sfaccettata, in perenne fluidità, con i fuggevoli giochi di luci e ombre che il liquido sonoro incarna in sé.

Dipendesse da me, farei partire una petizione che vieterebbe ai pianisti che intendessero presentare brani di Satie di inserire una Gnossienne o una Gymnopédie senza abbinarle a un’altra pagina pianistica del genio di Honfleur, ingiustamente poco conosciuta o del tutto sconosciuta. Questo perché non si può ridurre il Satie pianistico solo alle sette Gnossiennes e alle tre Gymnopédies, che diamine! Sfogo a parte, se posso comprendere e accettare la presenza della prima e della quarta Gnossienne in questo programma pianistico è perché mi rendo conto che mi trovo di fronte a un’artista in balia di un confronto esistenziale e musicale in cui la componente della nostalgia deve fare i conti con la presenza di un dolore più o meno latente (come, d’altronde, si può evincere dalle sue note iniziali di accompagnamento al CD). E, difatti, la lettura che Marina Saiki fa della prima è, a dir poco, una cartina al tornasole: qui, la mestizia, la desolante sofferenza introspettiva evocata dalla melodia, si scioglie come una caramella in bocca, dolente marcia verso un annientamento inzuppato di nebbia e di nefasta umidità, così come il processo di riflessione, di meditazione immanente della quarta viene lentamente srotolato e liberato dal filo spinato che lo avvolge dalle pressioni sui tasti, pesanti e soffuse allo stesso tempo. Insomma, una carezza contropelo che verrebbe accettata anche dal gatto più forastico.

Il musicista Yoshihisa Taïra in un celebre scatto di Dominique Souse.

Dal “divano occidentale”, per dirla con Goethe, passiamo ora al trittico di autori del Sol levante: il primo brano della playlist è dedicato a Invoker, che fa parte del trittico Three Visions, composto tra il 1978 e il 1994, da Akira Nishimura, il quale è noto in Occidente per via della sua particolare dimensione compositiva basata sull’eterofonia, nella quale si presenta uno spostamento di suono e di ritmo all’interno di una melodia. Tale peculiarità viene evidenziata proprio in Invoker, una vera e propria preghiera applicata alla tastiera del pianoforte, in cui la zona del registro acuto promuove un’immagine verticale, di anelito mistico, temperata dalla stagnazione orizzontale evocata dal continuo richiamo del registro grave.   

In un certo senso, la vita di Yoshihisa Taïra ricalca quella di Marina Saiki, visto che dopo essere nato a Tokyo, nel 1959 di è trasferito definitivamente in Francia, dove ha avuto modo di studiare con compositori del calibro di Henri Dutilleux, André Jolivet e Olivier Messiaen. Questo musicista, scomparso nel 2005, rappresenta una felice sintesi tra cultura musicale orientale e occidentale, visto che dopo aver acquisito e sviluppato i tipici aspetti della tradizione sonora francese, vi ha immesso un affascinante aspetto legato a quella del suo Paese d’origine, espresso dal concetto ma, vale a dire la capacità di ascolto e di riflessione del silenzio che si attua tra i suoni. Ciò si evidenzia nel brano presentato da Marina Saiki, Résonance, che è il primo tempo di Sonomorphie I. In questo brano, il concetto del ma è espresso compiutamente, dando vita a una brutale stasi, un elemento sonoro che cova sotto le sue ceneri armoniche, trasformando l’aspetto melodico in un’inquietante rappresentazione emotiva.

Tōru Takemitsu immortalato in una posa di pacata riflessione.

Di fronte a una progettualità del genere, non sarebbe potuto mancare un autore quale Tōru Takemitsu, la cui musica è dichiaratamente influenzata da quella francese, in particolar modo da Claude Debussy. Anche qui, la chiave del dolore e del ricordo la fanno da padrone, con il secondo che si manifesta in Romance, risalente al 1949, e con il primo che è la spina dorsale di Litany, composizione suddivisa in due parti e che Marina Saiki spezza, inserendo tra le due proprio l’esecuzione di Romance. Considero questi tre pezzi il cuore palpitante dell’intero disco, poiché proprio attraverso di essi si ha la possibilità, da parte dell’ascoltatore occidentale, di penetrare la dimensione del silenzio che si manifesta nel suono, come da tradizione della musica giapponese.

La pianista nippo-francese Marina Saiki.

La presa del suono è stata effettuata da Julien Brocal, con l’intervento nel mastering da parte di Gabriele Zanetti, il che mi fa pensare, ascoltando con attenzione la resa tecnica, che ci sia stato qualcosa da sistemare, soprattutto nel registro acuto, che tende ad essere ancora leggermente “metallico”. Ad ogni modo, il risultato finale è sufficientemente accettabile nell’ambito dei quattro parametri di giudizio, anche se non ci troviamo di fronte a una cattura rientrante nei territori dell’audiofilia.

Andrea Bedetti

 

AA.VV. Double Reflet

Marina Saiki (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C01012

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 3,5/5

 

Double Reflet : Marina Saiki: Amazon.it: CD e Vinili}
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