La pianista e compositrice napoletana è anche un’apprezzata narratrice, la cui opera sovente si riflette sul suo côté musicale e viceversa. Ne abbiamo parlato con lei in questa intervista nella quale ci spiega anche la sua visione sull’attuale musica contemporanea
Maestro Mariani, l’ultima sua registrazione discografica, intitolata Visions e pubblicata dalla Da Vinci Classics, è incentrata su opere di Debussy, Poulenc, Prokof’ev e di una sua composizione. Opere, rispettivamente, quali Estampes, Napoli, Visions fugitives e la sua, Mediterranea. Tutti brani che rappresentano delle “impressioni” tramutate poi in suoni dai musicisti in questione. Siccome anche lei ha voluto dare la sua “impressione” attraverso la pagina da lei composta, come può la musica tramutare in suoni ciò che un panorama, uno scorcio, una sensazione, un ricordo lasciano a livello di emozione dentro di noi? E, in secondo luogo, com’è nata l’idea di questo disco? Si tratta di un collage che raccoglie solo alcuni esempi musicali in tal senso o vi è un filo unitario ancor più sottile e sfumato?
Riguardo alla prima domanda diciamo che la musica diventa una dimensione altra, in cui rivivere determinati momenti che hanno un particolare impatto e che per questo diventano memoria, emozione, commozione. Quanto alla seconda, è proprio la memoria il filo conduttore della raccolta Visions: si tratta di flash, impressioni, appunto, visioni, in alcuni autori, come in Poulenc, colte dal vivo, dal vero; in altri, come Debussy, del tutto immaginate, in altri ancora, come Prokof’ev, fonti di ispirazione. Per quel che mi riguarda, la mia composizione Mediterranea risente di motivi e colori che mi porto dentro, mio malgrado, come tutti quelli che vivono lontano dalla loro terra.
Al di là delle “impressioni”, in questo disco vi sono anche dei chiari rimandi letterari, ossia di parole che, in seconda battuta, vengono trasposti a livello di “immagine” nei suoni. A suo avviso, nel campo dell’estetica attuale, può avere ancora un senso questo tipo di operazione artistica, vale a dire ciò che divenne impellente per i musicisti romantici che, attraverso il genere del “poema sinfonico”, fecero in modo di creare dei parallelismi tra parola e suono?
Più che di parola direi di racconto… credo di sì, perché si sente più il bisogno di comunicare e quale che sia il linguaggio è chiaro che ogni forma di comunicazione ha una sua dimensione narrativa. Vede, anche nella pittura c’è stata un’epoca in cui l’astrazione ha avuto il sopravvento sull’immagine figurativa. Eppure, oggi chiunque sostiene che l’immagine è tornata a dilagare in tutta la sua forza espressiva, a volte anche eccessiva. Secondo me l’immagine sta alla pittura come la narrazione alla musica. Credo che il rapporto con il fruitore non potrà che beneficiarne.
Facendo un passo indietro, i suoi due precedenti dischi, sempre pubblicati da Da Vinci Classics, ossia Fairy Tales e Pour Jouer, presentano un denominatore comune che si ricollega proprio a Visions, oppure rappresentano dei mondi a sé stanti, espressione di un’urgenza interpretativa del momento? E nell’immediato ha in cantiere un nuovo progetto discografico?
Credo che sia valida più la seconda che la prima opzione. Ogni lavoro sottende un progetto ed è frutto di un particolare momento. Visions è stato realizzato in piena pandemia, periodo desolante, ma al contempo assai produttivo per chi ama la ricerca e la solitudine. Pensavo a una suite e pian piano ho composto una carrellata di brani che mi restituivano quel tempo e quegli spazi che il lockdown mi sottraeva. Ma anche quello è stato un periodo conchiuso in se stesso: oggi ho ultimato una tetralogia da titolo Novellette a cui corrisponderanno quattro novelle ambientate in una cornice a tratti orrida, a tratti bucolica, con riferimenti alle mie lontane radici: il mio bisnonno tenore, la figlia musicista, morta giovanissima prima di andare a Santa Cecilia e tante altre “figure” che si trasformano in spunti di ispirazione e di riflessione.
Oltre a occuparsi di musica, però, c'è anche il suo continuo interesse nei confronti della letteratura e della fisica? Anche per ciò che riguarda tali campi ha dei progetti da attuare in un futuro più o meno ravvicinato?
A breve, oltre alle quattro novelle, uscirà L’egoismo dei deboli, raccolta di racconti agrodolci. Sono stati preceduti da un altro libro, I racconti di Dora e Lucia, in tandem con le Fairy Tales. Si tratta di un libro per ragazzi e per adulti, con tante chiavi di lettura, che si è arricchito anche delle immagini illustrate da Antonino Calderone. E infine ci sono i concerti, in cui spesso suono alcune delle mie composizioni, senza rinunciare al piacere di abbinarle ai brani di autori più blasonati.
Tornando alla musica si prepara a un giro di concerti che la porteranno a Milano e poi successivamente a Berlino, Wolfsburg e, infine, in una sorta di ritorno alle origini, a Napoli. Che differenze trova in un pubblico mediterraneo da quello germanico? Non mi riferisco solo al diverso tipo di rapporto che possono avere con la musica, ma soprattutto sotto un punto di vista squisitamente antropologico.
In Germania c’è una cultura musicale molto centrata sulla musica sinfonica e questo per un pianista è fondamentale. A Napoli torno volentieri… certo il pubblico mediterraneo ama particolarmente un certo tipo di repertorio, direi più esplosivo, virtuosistico. In Germania non devo scegliere necessariamente “qualcosa di bello”. Il pubblico appare più introverso ma, alla fine dei concerti, si fa fotografare con qualcuno dei miei CD in mano. Mi risulta anche che alcuni studenti hanno tradotto i Racconti di Dora e Lucia in tedesco e ne hanno fatto un rifacimento teatrale. Sono tanti i modi di partecipare e spesso le persone più restie riservano grosse sorprese.
Lei, come abbiamo visto, non si limita alla sfera interpretativa, ma è impegnata anche sotto l’aspetto compositivo, il quale non va mai oltre le colonne d’Ercole del linguaggio tonale. A tale proposito, quanto tale linguaggio può ancora dare o rappresentare all’alba del terzo millennio e, in secondo luogo, qual è il suo rapporto con l’attuale panorama della musica contemporanea? C’è un dialogo, un rapporto di scambio di vedute con autori che, al contrario, hanno rinnegato il linguaggio tonale e si muovono in ambiti decisamente diversi e più sperimentali?
Non mi chiedo cosa possa rappresentare: l’ho scelto come mio linguaggio, come estetica e come veicolo di espressione e di comunicazione. Non si tratta di composizioni melodiche ante litteram: al contrario è l’aspetto contrappuntistico che mi affascina e che spesso rende assai ardua anche l’esecuzione dei miei brani. La composizione, sia musicale sia letteraria, nasce da un’urgenza e soprattutto dal bisogno di venire a capo di quel che mi assilla. Come un teorema, ogni composizione consta di una esposizione e poi di una “risoluzione”; sicché passo da una sorta di stato di entropia a uno stato di appagamento, come dire all’unità. Alla fine di ogni composizione ogni stilema viene richiamato per essere intrecciato agli altri. Non saprei dirle cosa c’è dietro e/o dentro tutto questo. Forse la voglia di trovare me stessa. Amo l’armonia, nella musica come nella vita e penso che vada costruita (diremmo composta?) con cura. Diffido di tutte le scelte estreme: rinnegare qualcosa mi pare come un imperativo categorico, spesso ammantato di ideologie di maniera, di compiacimenti privi di costrutto. Non ho preclusioni nei confronti dei linguaggi atonali, sempre che siano autentici e soprattutto che salvino il fatto artistico e il rapporto tra opera d’arte e fruizione: amo l’approfondimento, la ricerca, l’analisi, ma non dimentichiamoci che l’arte parla primariamente ai sensi. Se ciò che componiamo deve essere prima “spiegato” allora il suo contesto ideale è più adeguato a una sala di un’accademia che a una sala di un teatro. Sarà che io suono i pezzi che compongo e svolgo l’attività di pianista oltre che di compositrice. Ovviamente non mi piace quando mi richiedono il “pezzo bello”, ma non mi risulta che la musica atonale si senta di frequente. Il mio maestro Aldo Ciccolini, qualche anno prima di morire, disse che la musica classica sarebbe durata sì e no cinque anni. Forse la sua era una provocazione, oppure un modo di esorcizzare la sua età… comunque quelli che sono ancora sulla breccia hanno anche il compito di uscire dalle nicchie iniziatiche in cui spesso si è rinchiusa la musica colta; svecchiarla non significa necessariamente sconvolgerne completamente il tessuto armonico: si può dire qualcosa di nuovo in tanti modi e penso che non dobbiamo mai perdere di vista che in ogni performance c’è un pubblico che ci ascolta, ci giudica e, soprattutto, ci permette di continuare a svolgere questo meraviglioso lavoro.
Andrea Bedetti