Disco del mese di Gennaio 2023
I nodi, prima o poi, vengono sempre al pettine. E lo stesso vale per buona parte della generazione musicale romantica tedesca che, a partire dalla metà dell’Ottocento, fu costretta, chi più, chi meno, a fare i conti con l’odiata/amata classicità. E tra coloro che dovettero affrontare questa via crucis ci fu anche Franz Liszt, il quale, proprio verso il 1850, dopo essere stato, vent’anni prima, il teorizzatore e l’antesignano di una “riforma”, se non di una rivoluzione, in seno al pianoforte, comprese che era giunto il momento di smettere i panni del barricadiero per indossare quelli più idonei per andare finalmente incontro a un classicismo messo incautamente da parte forse fin troppo presto. Ci andò incontro con uno scopo ben preciso: cercare di far conciliare le nuove impellenti necessità compositive con i principi di un passato che tornava sempre ad essere un presente.
Ebbene, questo andare incontro a tale novella Canossa, senza necessariamente cospargersi di cenere il capo, permise al musicista magiaro di manifestare il suo “ravvedimento” principalmente attraverso due opere, il Großes Konzertsolo e la ben più conosciuta Fantasia quasi Sonata dopo una lettura di Dante, le quali furono fondamentali per aprire la strada alla futura Sonata in si minore, composta tra il 1852 e il 1853. Concentrando, una volta tanto, la nostra attenzione sul meno noto Großes Konzertsolo, si evidenziano due aspetti destinati a fornire futuri frutti, maggiormente maturi; il primo è dato dal nuovo approccio al quale lavora Liszt per ciò che riguarda il bitematismo classico e il secondo che in quest’opera l’autore mette in pratica quanto enunciato tempo prima da Schumann, ossia al superamento del concerto strutturato in tre tempi in favore, invece, di una composizione sviluppata senza soluzione di continuità, però senza venir meno al tipico e “classico” schema veloce-lento-veloce.
Sia ben chiaro, tale compromesso innovativo non fa del Großes Konzertsolo un’opera totalmente riuscita, ma solo parzialmente, un parzialmente che, nella successiva versione non per uno ma per due pianoforti, aumenta, chi dice di molto, chi dice solo un po’ di più, la sua validità. Certo, è indubbio che la trascrizione per due pianoforti, per ovvie ragioni, riesce a smussare le numerose spigolosità e quegli attriti timbrici presenti nella versione originale per pianoforte solo, ma è anche vero che la pletora di successivi interventi fatti da altri autori, tra i quali Hans von Bülow, ci fanno comprendere che le ulteriori trascrizioni, che investono anche la presenza orchestrale, hanno rappresentato un campanello di allarme che, suonando, faceva presente che il Großes Konzertsolo è fondamentalmente, che sia nella versione originale, in quella per due pianoforti o nelle molteplici trascrizioni che seguono, un lavoro perennemente in progress, per essere a dir poco diplomatici (anche se nella versione per due pianoforti, per via dei tipici effetti lisztiani, del conclamato virtuosismo, di un fraseggio divenuto “rimbalzante”, il risultato finale appare essere quantomeno più convincente).
Se ci concentriamo, in tale sede, proprio sulla versione per due pianoforti, quella che venne pubblicata nel 1866 dal titolo Concerto pathétique (S.258/2) che introduce, per l’appunto, una più efficace disposizione del pensiero musicale, dovuta soprattutto al trattamento fornito dalla coppia di strumenti, è per il fatto che tale composizione è stata appena registrata, per la casa discografica Da Vinci Classics, dal duo formato da Marco Sollini e Salvatore Barbatano, unitamente a Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia S. 648, quest’ultima con la presenza del Coro Dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia, diretto da Marco Berrini. Una scelta più che ovvia, visto che anche questa versione per due pianoforti e coro rappresenta una rielaborazione da quella originale per coro femminile e orchestra, composta a Weimar tra il 1855 e l’anno successivo (esiste anche una terza versione, la S. 672b per organo). È il caso di ricordare che il progetto originario orchestrale prevedeva una suddivisione dell’opera che seguiva l’articolazione delle tre cantiche della Divina Commedia: Inferno, Purgatorio e Paradiso, con l’ultima parte progettata con l’impiego di grandi complessi corali; ma quando Liszt sottopose il progetto a Wagner, quest’ultimo lo dissuase, sostenendo che «nessun esser umano sarebbe stato in grado di rendere in musica le gioie del Paradiso, il cui splendore in qualsiasi espressione artistica poteva soltanto esser contemplato con gli occhi dell’anima».
Rimandando alle considerazioni di Chiara Bertoglio che ha curato le note di accompagnamento al CD, ciò che bisogna evidenziare è la caratura della lettura fatta dal duo che, detto in termini calcistici, sposta decisamente gli equilibri. Tale spostamento, al punto da farne in assoluto la registrazione di riferimento, tanto per intenderci, si manifesta, nell’interpretazione dei due artisti, mediante diversi piani. Il primo, e più evidente fin dal primo ascolto, è rappresentato dalla granitica dimensione sonora che Sollini & Barbatano riescono a proiettare magistralmente nel corso delle due opere prese in esame. Ciò significa non solo restituire la grandiosità di una partitura la cui trasposizione dall’elemento originario (pianoforte solo da una parte e orchestra dall’altra) a quello derivato non deve perdere una sola oncia del tessuto dato dall’impianto armonico e dalla resa in chiave timbrica, ma soprattutto i continui mutamenti a cui è sottoposta la tipica volumetria sonora presente in Liszt. Quindi, dominio assoluto (ripeto: assoluto) della materia musicale, il che impone una perfetta decodificazione e trasmutazione del suono pianistico in affresco emotivo (e ciò vale soprattutto per Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia); questo vuol dire cesellare incessantemente il dipanarsi del “racconto” programmatico, non cedendo alla tentazione di una magniloquenza fuori posto, così come cedere ad un illanguidirsi esecutivo altrettanto utile come i cavoli a merenda. E che il duo sia in grado di cesellare il suono, di renderlo palpabile, compiuto in ogni sua sfumatura non lo dimostra solo questa registrazione, poiché il lavoro in progress effettuato dai due artisti tende a rendersi più articolato, più lucido, più penetrante ogni volta che pubblicano una nuova produzione discografica.
In ciò, questo disco segna a mio modo di vedere una pietra miliare nella loro discografia, proprio per il fatto che la maturazione di un suono significante, nel quale si possono individuare più apporti, più strati dimensionali in grado di arricchire la tavolozza espressiva, ha saputo raggiungere una sorta di stato empireo. Si prenda come esempio il Magnificat che chiude l’ Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia, allorquando i due pianoforti accompagnano il canto corale femminile (a proposito, buona l’esecuzione delle voci, anche se a volte, quando raggiungono il registro acuto, la sicurezza di emissione viene leggermente meno) con una cristallinità, con una purezza accorata da suscitare una commozione simile alla pietas virgiliana. Un suono così levigato, trasparente capace di assumere quello stato di elevazione che contraddistingue la produzione più matura del compositore magiaro, ormai inscindibile dal suo sentiero spirituale. E che tutto il nitore espressivo che contraddistingue questa registrazione sia votata a una spiritualità sempre in bilico tra immanente e trascendente appare altrettanto lampante. Suono, a tratti, spaventosamente esplosivo, irradiazione accecante, ma sempre incredibilmente rarefatto nella sua essenzialità, esente da smargiassate sguaiate, squisitamente controllato nella sua emissione timbrica, titanico, potente, ma con una rotondità giottesca da lasciare impietriti.
Da tali impressioni, va da sé che il duo Sollini & Barbatano sia riuscito quindi a compenetrare l’essenza della visione lisztiana, evidenziando ciò che il musicista riesce a risolvere, così come ciò che ancora non riesce compiutamente a plasmare, almeno in queste due pagine, con una precisione, con una passione, che oserei affermar fideistica, tali da cancellarne in buona parte le pecche compositive. Insomma, è come se i nostri due interpreti, nel ruolo di un re Mida sonoro, riuscissero a tramutare in oro ciò che oro non è (prendo ancora come esempio il Magnificat che, ripeto, spinge con la loro lettura alla commozione, per capire come mai lo stesso Liszt si inchinò simbolicamente di fronte al Parsifal wagneriano, poiché il tempo che conclude la Sinfonia Dante, nel suo progressivo purificarsi, risulta essere una prodigiosa anticipazione del concetto espresso dal Durch Mitleid wissend).
Una registrazione da ascoltare, riascoltare e amare. Incondizionatamente. E naturalmente, e non potrebbe essere altrimenti, disco del mese di gennaio di MusicVoice.
La presa del suono effettuata da Gabriele Zanetti, poi, suggella ulteriormente la preziosità di questa incisione. A cominciare dalla dinamica, tale da restituire molto, molto bene l’impatto timbrico, che sia in fff o in ppp, della materia sonora, grazie a una velocità supersonica dei transienti, a una naturalezza che è già assai pronunciata nel formato 44,1/16, ma che raggiunge livelli decisamente audiofili in quella da 88,2/24, che Edmondo Filippini mi ha messo cortesemente a disposizione e che ho avuto modo di ascoltare in modalità liquida. Una tale dinamica rappresenta una miccia che porta ad esplodere idealmente il parametro del palcoscenico sonoro, in quanto la ricostruzione dei due pianoforti contrapposti è a dir poco importante per ricostruire il loro bilanciamento fisico nello spazio; cosa che si è realizzata in modo pressoché perfetto con una conseguente possibilità di visualizzare con l’ascolto i continui rimandi, i colloqui, gli scontri e le rappacificazioni tra i due strumenti dislocati all’interno di un’ottima profondità, senza contare l’ampiezza e una piacevolissima altezza. Ma è indubbio che in una registrazione come questa il parametro più importante, basilare, sia rappresentato dall’equilibrio tonale: ebbene, non sono molte le volte in cui mi è stato dato modo di cogliere così bene la distinzione racchiusa nei registri acuti e medio-gravi trasmessi da due pianoforti (è soprattutto questo parametro, se presentato in modo adeguato, che può permettere di comprendere, anche a livello di sfumature timbriche, se la trascrizione è stata o meno efficace a livello compositivo). E qui i registri dei due pianoforti sono a dir poco scolpiti, messi a fuoco con un’incandescenza davvero rimarchevole, il che mette ulteriormente in evidenza quei piani sonori di cui si è parlato in chiave di giudizio artistico. Infine, il dettaglio è anch’esso appartenente al regno della messa a fuoco, con un dilagare di nero intorno ai due pianoforti, in modo da assicurare non solo un ascolto mai stancante, ma soprattutto capace di coinvolgere ancor di più il fortunato ascoltatore.
Andrea Bedetti
Franz Liszt – Dante Symphony- Concerto pathétique
Marco Sollini & Salvatore Barbatano (pianoforti)
CD Da Vinci Classics C00667