Personaggio controverso, almeno per la nostra epoca ma assai meno per la sua, per via della passione per le donne e per il gioco d’azzardo (al punto che la sua morte pare sia stata causata da un veleno sommistratogli da un avversario di coltri o di tavoli verdi), il prelato calabrese Leonardo Vinci, nato probabilmente a Strongoli, nei pressi di Crotone, nel 1690 o nel 1696 e morto a Napoli nel 1730, dev’essere ricordato soprattutto per essere stato uno dei padri putativi della grande scuola musicale napoletana, uno di quei nomi imprescindibili per ciò che riguarda la musica barocca e non solo italiana, anche se oggigiorno l’ascolto delle sue opere è purtroppo più un appannaggio per specialisti e addetti ai lavori che per un pubblico più vasto.
Il fatto è che la caratura dell’artista deve fare i conti con una produzione confinata quasi esclusivamente nell’ambito della musica operistica, senza contare che un buon numero di queste opere rientra nel novero di commedie cantate in napoletano, il che le obbliga inevitabilmente a stazionare in un territorio fruitivo più limitato. Ma Leonardo Vinci è stato anche, e soprattutto, un fecondo autore di opere che appartengono al grande filone classico barocco, tenuto conto che il suo nome è legato indissolubilmente con quello di Pietro Metastasio, ossia di colui che ha dettato legge nel confezionamento di libretti e testi che sono stati poi usati in ambito musicale (delle diciannove opere liriche dell’autore calabrese, ben sei vantano libretti del poeta e letterato romano, superando le quattro alle quali sono abbinati gli altrettanti libretti scritti da un altro aficionado del nostro, ossia quel Silvio Stampiglia fondatore tra l’altro dell’Accademia dell’Arcadia).
Quest’attitudine all’opera dialettale o classica che fosse, ci fa così capire come Leonardo Vinci, nella sua breve e intensa vita, sia stato esclusivamente autore in cui l’importanza della musica fu pari, se non inferiore, alla potenza espressiva della parola in chiave poetica. Un rapporto ineludibile che si concretizza anche in un altro genere per il quale il compositore e chierico calabrese dev’essere ricordato e inquadrato, quello della cantata da camera, di cui sette, per la precisione Olimpia Abbandonata, Pietosa l’aurora in ciel, Fille, oh Dio, da te lungi, Nice son’io pur quello, Veggo la selva e ’l monte, Del bel Tamigi in riva, È pure un gran portento, sono al centro di una recente registrazione da parte dell’etichetta discografica Elegia Classics con il soprano Valeria La Grotta, accompagnata dall’Ensemble Sonar d’affetto, formato da Nicola Brovelli al violoncello, Mauro Pinciaroli all’arciliuto e Luigi Accardo al clavicembalo nel CD Olimpia abbandonata and other Cantatas, quarto volume della benemerita serie “Glories of the Italian Cantata”.
Le prerogative stilistiche, i meccanismi compositivi e la visione d’insieme di queste pagine non è dissimile dall’impianto operistico presente nelle opere di Leonardo Vinci, tenuto conto di una costante presenza di temi amorosi riconducibili a tematiche pastorali, care alla poetica per l’appunto arcadica o cavalleresca, come lo confermano i personaggi chiamati in causa, da Clori a Nice, passando per Irene, Cupido, Olimpia e Bireno. Ma al di là del tipo di contesto narrativo, così come di quello metrico, tipico della lezione metastasiana, ciò che emerge da queste cantate, il cui corpus totale non arriva ai venti titoli, ma la cui marginalità numerica non è paragonabile all’importanza qualitativa che le contraddistingue, è come l’importanza poetica, ossia la voce, superi quella dell’andamento strumentale nel tessuto melodico dell’insieme che lo sostiene.
Questa, sia ben chiaro, è una prerogativa che appartiene al Vinci, il quale non può e non dev’essere ricordato per la cura strumentale con la quale confezionò la sua produzione, peculiarità questa che spetta semmai a un altro dei padri putativi della scuola napoletana, ossia Leonardo Leo, quanto per l’uso delle voci e della loro sapiente esaltazione che ne fece, forse anche dietro sagaci e inoppugnabili suggerimenti fornitigli da uno che di canto ne sapeva alquanto, vale a dire Carlo Broschi, il leggendario Farinelli, che ne fu amico e collaboratore.
Quindi, non è certo una forzatura il considerare queste cantate alla stregua di vere e proprie opere liriche liofilizzate, supremamente condensate in un’ideale essenzialità, le cui linee guida fecero poi da parametro per un’impiantistica più ampia nel corso dei decenni successivi, facendo sì che il nome di Leonardo Vinci venisse ricordato e riverito e non solo in ambito italico. D’altronde, è sufficiente ascoltare le cantate di questa registrazione per comprendere la caratura, la sottile e raffinata nervatura psicologica, l’impatto emotivo delle quali sono intrise, in quanto atte a fornire una completezza a tutto tondo, e qui si può ricorrere a un equivalente pittorico, come può per l’appunto darlo uno schizzo o un disegno, il quale, pur non vantando il respiro e la profondità di un quadro o di un affresco, riesce a cogliere e a trasmettere, se fatto a regola d’arte, il senso di un messaggio, di una prospettiva che, sulla base di precise linee e adeguati piani, affascina e avvince.
Certo, il fascino lo può e lo deve trasmettere la voce in questione, elemento totalmente catalizzatore, epicentro indiscutibile e sul quale si regge la resa olografica della cantata vinciana, la quale dev’essere in grado non solo di soddisfare adeguatamente precise necessità tecniche ed emissive, ma soprattutto far sì che si cali perfettamente nel ruolo di una drammaticità espressiva, la cui paletta o tavolozza, tanto per continuare a usare un’immagine pittorica, deve vantare sfumature psicologiche a non finire, in quanto la brevità dell’opera stessa, la sua essenzialità artistica abbisognano di precise e implacabili pennellate tratteggiate dal registro grave fino a quello più acuto. Ergo, chi canta non solo deve saper cantare, ma rendere perfettamente la materia canora, plasmarla a livello epidermico, dare un corpo credibile alla voce stessa nel momento stesso in cui la esprime. Da qui, la sua capacità di muovere gli affetti, identificando l’ascolto alla rappresentazione in atto.
Tutto ciò il soprano tarantino Valeria La Grotta, specialista del repertorio barocco, lo sa fare molto bene, in quanto mette la voce a disposizione di quella teatralità richiesta per rendere al meglio la portata e lo spessore di codeste cantate; oltre a trovarsi a proprio agio sia nel registro grave, sia in quello acuto, l’artista pugliese ha bene in mente il compito che la parte le richiede, quella di essere capace di “muovere gli affetti” (e questo lo dimostra in modo particolare nella resa dei recitativi, dove la voce assume un connotato decisamente “attoriale” o in quelle arie in cui la drammaticità giunge a vertici assoluti, come nel caso di “Orridi turbini” dalla Olimpia abbandonata e di “Benché lungi da te” da Fille, oh Dio, da te lungi), risultando così oltremodo convincente, grazie anche a un timbro che non fa mai trasparire sforzi o ingolamenti, ma che offre sempre una piacevolissima spontaneità emissiva. Pur non dovendo affrontare brani musicalmente impervi, il trio strumentale non è da meno, in quanto imbastisce sempre un accompagnamento puntuale, preciso, duttile nel saper esaltare la linea del canto (e questo vale soprattutto per il violoncello di Nicola Brovelli, cui va il merito di aver saputo duettare con il soprano enunciando un timbro adeguato, oltre a mostrare un’ottima intonazione).
La presa del suono è stata effettuata da Claudio Guida e denota una buona dinamica, il che ha permesso di riprodurre altrettanto bene le molteplici sfumature vocali del soprano, così come di ricostruire in modo corretto lo spazio sonoro nel quale si trova la cantante, leggermente avanzata rispetto all’accompagnamento strumentale. Di buona fattura anche l’equilibrio tonale e il dettaglio.
Andrea Bedetti
Leonardo Vinci – Olimpia abbandonata and other Cantatas
Valeria La Grotta (soprano) – Ensemble Sonar d’Affetto
CD Elegia Classics Elecla 20085
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5