A volte so di ripetermi, di essere magari anche prolisso nel mettere il dito e sondare la piaga, ma non ci posso fare nulla: così è quando mi tocca affrontare l’argomento della musica strumentale italiana nel tempo in cui furoreggiarono gli operisti e i fautori delle arie da salotto. È come quando cerco, nonostante tutto, di immergermi nella lettura di Carducci e di Pascoli, per poi uscirne svilito e demotivato. A quel punto, la mente e la mano vanno in cerca di soccorso e approdano fatalmente alle opere di Mallarmé e di Rimbaud, perché alla suadente carezza della retorica stilistica preferisco i salutari ceffoni della genialità illuminante, quella che non solo m’inebria, ma mi porta ad abbandonare, almeno spero, per qualche momento il piatto oceano dell’esserci per assaporare, per dirla con Eraclito, l’irruzione della folgore capace di illuminare per un istante quanto mi circonda.
A quel punto, mi sento nuovamente pronto ad affrontare il triste panorama, ergendomi sulle rovine di evoliana memoria, pronto a tutto. Ed eccomi qui, a parlare di una nuovissima produzione discografica, tanto per cambiare della Da Vinci Classics (è forse colpa del sottoscritto se Edmondo Filippini riesce a sfornare a livello industriale autori e titoli interessanti che meritano di essere ascoltati e affrontati criticamente?), che riguarda il napoletano Carlo Albanesi e tre delle sue sei Sonate pianistiche, registrate in prima assoluta mondiale dall’artista e musicologo romano Daniele Adornetto. Quest’ultimo si è meritevolmente preso a cuore la scoperta o riscoperta, di volta in volta, delle opere pianistiche di autori dimenticati o cacciati dalla porta della storia musicale, come nel caso di Alessandro Longo, dell’Ildebrando Pizzetti non operista, del triestino Mario Zafred, oltre a registrare l’opera pianistica dell’alter ego di Giacinto Scelsi, ossia Vieri Tosatti. Un reclutatore di anime musicali perse, di ectoplasmi compositivi svaniti progressivamente o celermente dai panorami concertistici e dagli studi di registrazione, come appunto nel caso del partenopeo Albanesi (tanto per intenderci, pare che non sia giunta fino a noi nemmeno una sua fotografia), del quale è bene subito fissare la data di nascita e di morte, con la prima del 1856 e con la seconda, avvenuta a Londra, del 1926. Una vita che prende dunque avvio prima della Seconda guerra d’indipendenza e che si conclude, almeno storicamente, con il periodo del consenso al fascismo in terra italica. Terra che Carlo Albanesi lasciò molto prima, esattamente nel 1878, dapprima approdando a Parigi e poi, su suggerimento dell’amico Francesco Paolo Tosti (il quale, come si vede, qualcosa di buono lo fece), a Londra, dove trovò una seconda patria, almeno a livello professionale.
A mio avviso, proprio il lato professionale e istituzionale, Albanesi nella capitale inglese insegnò pianoforte presso la prestigiosa Royal Academy of Music, oltre ad essere insegnante privato di personaggi dell’alta società, come la principessa ereditaria di Svezia e di sua sorella e la principessa Patricia di Connaught, senza dimenticare la pianista e compositrice Mary Lucas, è fondamentale per comprendere anche il suo stile musicale; è indubbio che a Londra Albanesi, la consorte, la scrittrice Effie Adelaide Rowlands, e le loro due figlie ebbero una vita agiata, di successo, in piena empatia con l’establishment culturale e artistico, votato a una totale ortodossia musicale, atta ad essere recepita anche da chi non ne conosceva il linguaggio e la struttura compositiva. Una musica altamente fruibile, dunque, immediata nella sua essenza espositiva, capace di coinvolgere e di risultare “addestrata” anche per orecchie poco avvezze a complessità stilistiche.
Ciò risulta evidente dalle tre Sonate qui presentate da Daniele Adornetto, quella in la bemolle maggiore del 1893, quella in re minore del 1899 e quella in mi maggiore del 1909. Guardiamo bene gli anni, ossia l’ultimo decennio del XIX secolo e il primo di quello successivo, un periodo a dir poco epocale per la trasformazione e l’evoluzione del pianismo, con la crosta del tardoromanticismo che si sta già staccando dalla ferita, per lasciarla aperta, esposta ai mutamenti impellenti di stili che dalla Germania, dalla Francia, dalla Russia e dall’Austria premevano con i loro batteri innovativi (è bene fare quale esempio “confrontativo”: Reger nel 1898 compone i Sieben Fantasiestücke e tra il 1905 e il 1908 le Quattro Sonatine; Debussy nel 1890 compone la Suite bergamasque, nel 1903 le Estampes, tra il 1901 e il 1907 le due serie di Images e nel 1909 dà avvio alla creazione al Primo Libro dei Préludes; Ravel nel 1897 crea la Pavane pour une infante défunte e nel 1908 Gaspard de la nuit; Skrjabin tra il 1888 e il 1896 compone i Ventiquattro Preludi, tra il 1895 e il 1897 la Sonata n. 2 e tra il 1897 e il 1898 la Sonata n. 3; Zemlinsky nel 1898 crea le Fantasien über Gedichte von Richard Dehmel; Schönberg nel 1909 comincia a rompere il sistema tonale con i Tre pezzi per pianoforte op. 11 e, per amor di carità, evito esempi del mezzo tedesco Busoni: insomma, mica cotica, come direbbero nell’urbe eterna.
Di fronte a queste conquiste e a questi mutamenti, le tre Sonate di Albanesi mostrano inequivocabilmente un denominatore comune, quello di essere “educate”, rispettose del tempo borghese, oltre a dimostrare di essere il frutto di un concertista navigato come lo fu l’artista napoletano; che Albanesi sia stato anche un compositore di vaglia, almeno nei binari di un pianismo alla moda, attento agli uditori e agli spettatori della sua epoca, lo si comprende benissimo (così come lo certifica il fatto che i suoi Esercizi per la diteggiatura, che risalgono ai primissimi anni del Novecento, sono studiati e applicati ancora oggi). Soprattutto si muovono su parametri “effettistici”, destinati a provocare una subitanea emozione negli ascoltatori (e qui si annida lo zampino del concertista), tanto da poter assimilare la densità di queste sonate come se fossero dei Lieder ohne Worte di tostiana memoria. Se proprio dovessi optare su una delle tre Sonate in questione, punterei sull’ultima in programma, quella in mi maggiore, spalmata su tre tempi (le altre due ne vantano quattro), quella che risente meno di un impianto melodico a presa rapida, ma capace di proporre, sebbene in modo assai larvato, delle idee tematiche che strutturalmente riescono a vincere la temporalità della loro epoca, soprattutto grazie a quanto enunciato dal tempo centrale, il Tema con variazioni, la cui dimensione in divenire assurge a panorami prossimi a quelli brahmsiani, mentre sono di pregevole fattura stilistica e tecnica gli Scherzi delle altre due Sonate, in cui un senso di apparente modernità gioca birichinamente a nascondino.
Sia ben chiaro, anche se non ho gli spartiti a disposizione, queste pagine necessitano, e lo si comprende ascoltandole con la dovuta attenzione, una preparazione virtuosistica mica da ridere, in quanto la scrittura armonica di Albanesi è figlia di una composizione in cui il tasso tecnico richiesto è alto, molto alto. Ma Daniele Adornetto è in grado di domarle e renderle mansuete, ossia masticabili e digeribili, perché se le tre Sonate proposte non sono certo altrettanto capolavori di respiro europeo, quello votato all’esplorazione e al superamento di posizioni acquisite in passato, è pur vero che la loro registrazione si è dimostrata meritevole per il fatto che vanno ad aggiungere un tassello nella storicità alla quale appartengono, oltre a fare da cartina al tornasole rispetto alla situazione pianistica italiana del tempo, in attesa che arrivasse un signore, diciamo pure il Messia, questo sì di caratura realmente internazionale, chiamato Alfredo Casella. Quindi, bisogna dare all’interprete romano ciò che gli appartiene, poiché la sua ricerca, il suo impegno, il suo tirare fuori dalle tombe lo riversa poi nelle sue esecuzioni, che sono sempre all’insegna di un amore che non deborda mai nell’ostentazione o in un’esaltazione fuori posto. Inoltre, come nel caso delle Sonate di Albanesi, Adornetto non si fa prendere la mano dalle trappole melodiche, ma le tratta come materia che dev’essere correttamente inserita in un respiro più vasto, più articolato, puntando semmai, e qui vado ancora a naso, anzi ad orecchio, a evidenziare quelle oasi di tessuto musicale in cui Tosti e i salotti alto borghesi vanno finalmente al diavolo, facendoci capire che il compositore e concertista napoletano dopotutto si rese conto che qualcosa stava cambiando (e lo dimostra l’ansia emotiva che traspare dal Finale della Sonata in re minore) e che doveva essere fissato sulla tastiera. Ora, quest’ansia emotiva Adornetto la esprime compiutamente nella Sonata in mi maggiore, la quale presenta perfino degli accenni, meglio: degli accenti, dissonantici che vanno ulteriormente a renderla aderente ai postulati del loro presente. Qui, difatti, la melodia se la deve vedere con un avversario ben più tosto e impegnativo, ossia con una costruzione armonica la cui articolazione le rende la vita meno facile e con un principio di “grandiosità” timbrica in grado di spezzettare il fraseggio non dico in temi microscopici, ma in sacche, in segmenti che stanno per conto loro (non sono così sprovveduto nel vedere in ciò quelle “cellule” di brahmsiana memoria che affascinarono così tanto lo Schönberg teorico), facendo sì che siano autosufficienti, immuni dal dover essere vaccinati da robuste dosi di iniezioni di melodia pura. Questa piena autosufficienza si può cogliere ancor di più nel già citato Tema con variazioni (posso affermare che rappresenta il movimento più intrigante e riuscito?), con il quale Albanesi si dimostra essere un ottimo diplomatico, nel senso che le istanze dell’impianto melodico e contemplativo scendono brillantemente a patti con una costruzione il cui virtuosismo ha sempre una sua precisa funzione stilistica (e qui, finalmente, un respiro compiutamente europeo!). E pazienza se il Finale torna a rigurgitare quegli effetti da cinemascope anni Cinquanta, per preparare gli ascoltatori a un dovuto applauso entusiastico.
La presa del suono è stata fatta da Giacomo De Caterini e Simone Sciumbata, i quali sono stati in grado di rendere al meglio il magnifico Fazioli F278 utilizzato per la registrazione. La dinamica è oltremodo corposa ed energica, anche molto veloce, il che aiuta a scolpire adeguatamente gli sbalzi timbrici dello strumento; il palcoscenico sonoro ricostruisce il pianoforte al centro dei diffusori in una spazialità ravvicinata, ma non scorretta. L’equilibrio tonale è di ottima fattura con una riproposizione del registro medio-grave e di quello acuto sempre scontornati e precisi e, infine, il dettaglio è sapientemente materico.
Andrea Bedetti
Carlo Albanesi – Piano Sonatas (1893-1909)
Daniele Adornetto (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00532