È bene ricordare come la Sonata per pianoforte e violoncello prese piede, come genere specifico nella musica cameristica, solo nel passaggio dal Settecento all’Ottocento. Questo perché non esisteva ancora, alla fine del Settecento, come genere specifico e affermato per via del fatto che il rapporto armonico e timbrico tra il pianoforte (leggasi fortepiano) e uno strumento grave ad arco poneva all’epoca problemi compositivi di ardua soluzione, a causa del timbro del violoncello che veniva soverchiato dal suono dello strumento a tastiera, un problema che il repertorio barocco riuscì in parte a risolvere con il genere della sonata per violoncello e basso continuo, come testimoniano i lavori di Jean-Balthasar Tricklir, Johann Georg Christoph Schetky, Jean-Pierre Duport e, soprattutto, Antonín Kraft.
Così, quando Ludwig van Beethoven, dopo essersi trasferito a Vienna, decise nel 1796 di comporre le due Sonate op. 5 per violoncello e pianoforte, lo fece con la piena convinzione che avrebbe potuto creare delle opere con più libertà stilistica rispetto ad altri generi cameristici maggiormente fissati e già conclamati. Questa attenzione, da parte del genio di Bonn, aveva i suoi motivi, in quanto Beethoven fin dall’inizio della sua attività compositiva avvertì la questione dei generi posta tra la sfera della continuità storica e quella che può essere definita la sfera del prodotto musicale di consumo dato dall’attualità in cui si presenta e che, inevitabilmente, veniva dimenticato e messo da parte dalla generazione successiva. E se Beethoven, fin da subito, aderì alla sfera della continuità storica, fu perché si rese perfettamente conto che la figura del compositore, nel delicato passaggio tra XVIII e XIX secolo, sarebbe mutata in modo totale e inevitabile, vale a dire che l’artista si sarebbe dovuto misurare da quel momento, più che con i contemporanei, con i compositori del passato, mentre la definitiva consacrazione del valore di un musicista sarebbe spettata, più che ai coevi, ai posteri.
Questa continuità storica si applica parzialmente con la composizione della Sonata op. 5 n. 1 in fa maggiore e della Sonata op. 5 n. 2 in sol minore, dedicate al sovrano Federico Guglielmo II di Prussia, noto per essere un ottimo dilettante del violoncello (non per nulla Mozart scrisse per lui i celeberrimi Quartetti Prussiani e Boccherini diversi quartetti), il quale aveva a quell’epoca al suo servizio uno dei più abili violoncellisti europei, il francese Jean-Pierre Duport; Beethoven, che ebbe il privilegio di suonare a corte, le eseguì insieme proprio con Duport.
Affrontando questo “nuovo” genere, il quale non poteva di conseguenza vantare una solida tradizione trasmessa dal passato, Beethoven ebbe così modo di effettuare delle sperimentazioni a dir poco ardite, a cominciare dal fatto che la sonata esposta in due soli tempi, di per sé assai breve, fu incredibilmente dilatata, come dimostrano i primi due tempi delle altrettante Sonate op. 5, con il primo formato da 400 battute e il secondo addirittura da 553 battute! Questo ci fa comprendere come ancor prima che si chiudesse il XVIII secolo, Beethoven fu già in grado di preannunciare le strutture rivoluzionarie presenti nelle opere composte nel fatidico biennio 1803-1804 (Sonata n. 21 in do maggiore “Waldstein”, Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore “Eroica”, Sonata per pianoforte n. 23 in fa minore “Appassionata”).
Beethoven tornò poi al violoncello e al pianoforte esattamente tredici anni dopo, nel 1809, quando pubblicò a Lipsia da Breitkopf & Härtel, con la dedica all’amico barone Ignaz von Gleichenstein, la Sonata in la maggiore op. 69, la quale fu eseguita per la prima volta il 5 marzo dello stesso anno dal violoncellista Nikolaus Kraft. Composta l’anno precedente, e dunque appartenente al cosiddetto “periodo di mezzo”, questa Sonata si contraddistingue, rispetto alla “cantabilità” e all’apertura alla vita irradiate dalle due Sonate op. 5, per un fervore espressivo che si insedia in una totale revisione dello schema formale nella quale è incastonata.
E che il genere cameristico della Sonata per violoncello e pianoforte rappresentasse per Beethoven un passepartout attraverso il quale chiudere ed aprire le porte della sua evoluzione creativa e stilistica è confermato dal fatto che nell’estate del 1815, il genio di Bonn grazie ad esso trovò lo stimolo per un’ulteriore svolta nel suo processo compositivo. Ciò avvenne con le due Sonate op. 102, la prima in do maggiore e la seconda in re maggiore, che vennero dedicate, nella seconda edizione uscita a Vienna nel 1819, alla grande amica contessa Marie Erdödy. Queste due Sonate, che appartengono dunque al periodo della grande maturità, quello che coincide con l’afflato visionario culminante negli ultimi quartetti per archi e nella Sinfonia Corale, sono strutturate mediante una forma a dir poco olimpica, classica, con lo sguardo di Beethoven che torna a fissare il misterioso fascino della polifonia (già iniziato, a dire il vero, con il grande finale fugato del Quartetto per archi op. 59 n. 3), come si può constatare dalla presenza nell’ultimo tempo della Sonata op. 102 n. 2 di un fugato a quattro parti, che trasforma tale opera in un vero e proprio manifesto estetico.
Un manifesto estetico nel quale il costrutto musicale delle due Sonate op. 102 si prosciuga, si offre in una disarmante e coinvolgente asciuttezza, in cui brevi immagini, lapidari pensieri non vengono proiettati all’esterno, condivisi con un’idea di mondo, ma continuano a rimanere albergati all’interno di chi li ha promossi e creati; anche qui risiede la straordinaria modernità di queste due pagine, poiché in tal modo l’artista si assolutizza nella sua immanenza, disposto a dialogare più con se stesso che con gli altri, e con gli altri, coloro che lo ascoltano, costretti a sondare le profondità stesse del compositore, ad aderire alle sue intimità disseminate lungo la partitura. È questa la porta che separa la stanza del classicismo da quella del romanticismo, quindi dell’approdo a una modernità che vede l’artista creare per egli stesso, assolutizzando così il suo messaggio, e non per veicolare la sua musica sotto forma di un prodotto storico e banalizzato dal processo consumistico.
Queste cinque sonate sono state ultimamente registrate da Alessandro Andriani al violoncello e da Mario Sollazzo al fortepiano per l’etichetta discografica NovAntiqua Records. La peculiarità di questa incisione risiede nelle sue concezioni squisitamente filologiche, visto che Alessandro Andriani suona un violoncello Ferdinando Gagliano del 1782 e Mario Sollazzo due distinti fortepiani, un Joseph Brodmann costruito intorno al 1805 e un Johann Schanz del 1820 circa, entrambi restaurati da Ugo Castiglia. Queste peculiarità filologiche non solo permettono la restituzione di un suono assai prossimo a quello storico dell’epoca beethoveniana, ma permette anche, come spiegano i due interpreti nelle note di accompagnamento, di ottenere un maggiore equilibrio, un significativo bilanciamento tra i due strumenti, evidenziando così sfumature e dettagli che possono essere soltanto immaginati leggendo la partitura.
Se le due Sonate dell’op. 5 vengono giustamente esaltate con una narrazione musicale ricca di cantabilità e di luce (il duo Andriani & Sollazzo riesce a trasmettere la volontà, la gioia, persino il bisogno di suonare insieme, di comunicare totalmente, quasi con piglio fanciullesco, restituendo appieno quella speranza che ancora albergava nel cuore del giovane Beethoven), già nella resa stilistica dell’op. 69, ossia di quella che viene considerata la più celebre delle cinque Sonate per violoncello e pianoforte, il tessuto musicale si rende timbricamente più conturbato, più introspettivo, con il suono del violoncello che tende a graffiare e a lasciare il segno nelle zone in penombra del costrutto armonico, il che dimostra come i due interpreti abbiano voluto evidenziare correttamente, senza forzarne allo stesso tempo i contrasti e i chiaroscuri, quel processo innovativo che vedeva nel genere della Sonata per violoncello e pianoforte il banco di prova, il laboratorio di idee/suono approntato dal genio di Bonn. E la chiosa conclusiva di tale lettura si manifesta con le due Sonate op. 102, in cui il timbro e la resa espressiva subiscono un mutamento che Andriani & Sollazzo portano al debito compimento attraverso un andamento del fraseggio che trasuda logica nel momento stesso che diviene suono. Questo non significa che i due artisti si abbandonano a un freddo razionalismo, trappola in cui si può cadere nel tentativo di esporre un canone formale e stilistico che avrebbe fatto la felicità di un Winckelmann, ma imbastendo un suono che è dolcemente trattenuto, levigato, dando rilievo a un approccio “paesaggistico” in cui la ricerca dei dettagli non è lasciata al caso.
Buona anche la presa del suono, effettuata da Federico Pelle nell’Abbazia di San Martino delle Scale a Monreale, con una dinamica generosa ma controllata e con una riproposizione più che corretta dei due strumenti all’interno del palcoscenico sonoro. Le peculiarità degli strumenti filologici a volte, per ciò che riguarda il parametro dell’equilibrio tonale, porta il registro medio-grave del violoncello a invadere leggermente quello dei due fortepiani, ma senza stravolgere la piacevolezza dell’ascolto, anche grazie alla matericità che contraddistingue in sede di dettaglio gli strumenti utilizzati.
Andrea Bedetti
Ludwig van Beethoven – The Cello Sonatas
Alessandro Andriani (violoncello) – Mario Sollazzo (fortepiano)
2CD NovAntiqua Records NA20
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5