Disco del mese di Dicembre 2025
Se mai c’è stato un compositore capace di affrontare un determinato genere musicale solo una volta resosi conto di poterlo padroneggiare compiutamente senza remore o dubbi, questo è stato sicuramente Johannes Brahms. Ogni suo passo creativo fu sempre improntato all’umiltà (un’umiltà rivolta all’arte, difficilmente agli uomini), in nome di una saggezza che si manifestò fin da ragazzo, prima ancora del fatidico incontro con casa Schumann. Se il pianoforte e le sue diramazioni compositive furono fin da subito il suo pane quotidiano, lo stesso invece non avvenne con altri strumenti e con altre forme di applicazione creativa. Basti considerare il fatto che il genio di Amburgo decise di mettere mano al genere sinfonico (e con quali risultati!) solo dopo averlo masticato e digerito nel corso di più di vent’anni, tale è il lasso di tempo occorso per far sì che sbocciasse la Prima sinfonia, iniziata nel 1855 e conclusa nel 1876, passando dapprima attraverso la porta di servizio rappresentata dalle due Serenate per piccola orchestra (composte tra il 1857 e il 1859) e dalle Variazioni per orchestra, risalenti al 1873.

Saggezza, dunque, ma anche tanta severità e spietata autocritica, mutuate e mantenute, anche dopo essersi trasferito definitivamente nella “gaudente” Vienna, da quell’impronta anseatica e luterana, almeno a livello di comportamento antropologico, che accompagnarono Brahms come una seconda ombra nel corso della sua vita. E ciò che valse per il genere sinfonico, a livello strumentale la medesima cosa avvenne per il violino; se si considera alla stregua di un peccato veniale il contributo, non indifferente, sia ben chiaro, che il ventenne amburghese offrì alla collettiva Sonata F.A.E. del 1853, ad opera della premiata ditta Brahms-Schumann-Dietrich e dedicata a Joseph Joachim, con l’apporto del suo Scherzo, il nostro compositore affrontò la reale elaborazione creativa da dare a questo strumento ad arco solo all’età di quarantacinque anni quando pubblicò il Concerto in re maggiore op. 77. Anche grazie al clamoroso successo ottenuto con questa memorabile pagina, Brahms si rimboccò le maniche e diede avvio all’operazione che portò alla creazione delle tre Sonate violinistiche, colonna ineludibile della storia cameristica di tutta la tradizione della musica colta occidentale (senza dimenticare che l’amburghese ebbe modo di partorire altre due Sonate ma che, dopo una loro rilettura, furono da lui distrutte in quanto non soddisfatto non tanto della loro sostanza, quanto della loro forma in nome di una già ricordata e spietata autocritica).
Così, nel momento stesso in cui in Brahms la fiamma creativa riservata al genere sinfonico viene messa in modalità pausa, dopo la pubblicazione delle prime due gemme, si riaffaccia in lui il prepotente richiamo seducente della cameristica nel cui calderone fissato all’interno di un decennio, ossia tra il 1878 e il 1888, trovano spazio le tre Sonate in questione, la Prima in sol maggiore op 78, la Seconda in la maggiore op. 100 e la terza in re minore op. 108, scolpite dal sommo compositore rispettivamente tra il 1878 e il 1879, nel 1886 e nel 1888, pagine che nel corso del tempo sono state ovviamente fonte di ispirazione e di registrazione discografica (quest’ultima arricchita da decine di incisioni) per violinisti e pianisti ai quali si vanno ora ad aggiungere anche il nome di Alessio Bidoli e di Bruno Canino, i quali hanno fissato per l’etichetta Warner Classics una loro lettura, che include (cosa saggia e necessaria, a mio avviso) anche la presenza, quale ultima traccia audio, dello Scherzo brahmsiano appartenente alla già citata opera collettiva Sonata F.A.E.

La lucidità artistica che contraddistinse la sua visione estetica fece comprendere fin da subito a Brahms che il rapporto dialettico tra violino e pianoforte avrebbe dovuto, oltrepassando la lezione beethoveniana, abbandonare sia quella concezione elaborativa a favore dello strumento ad arco rispetto a quello a tastiera, sia un “marchio di fabbrica” compositivo teso ad esaltare il virtuosismo a favore, invece, di un eloquio e di una linea melodica espressi in modo paritario dai due strumenti, derivanti da un’atmosfera squisitamente liederistica, dalla quale è derivata poi quell’analisi critica che vede in questi tre capolavori un primeggiare di stampo “vocale” più che strumentale. D’altronde, basta prendere in considerazione la Sonata n. 1, detta Regen-sonate, ossia “Sonata della pioggia”, che prende spunto da un frammento del Regenlied op. 59, risalente a quattordici anni prima e che, oltre a manifestarsi compiutamente nel terzo e ultimo tempo della Sonata, l’Allegro molto moderato, si presenta fuggevolmente anche nell’incipit dell’opera stessa, ossia nelle primissime battute del Vivace ma non troppo, senza mai smettere di aleggiare su tutta l’arcata generale della pagina cameristica, complice anche la tipica impronta brahmsiana votata alla variazione e alla trasformazione delle cellule tematiche.
Ho sempre considerato il lirico intimismo che si sprigiona nelle pagine del sommo amburghese con l’immagine di un animale che si lecca le ferite nell’antro della sua tana, esiliato dalla natura circostante e incapace di confrontarsi costruttivamente con gli altri esemplari della sua specie. Intimismo come dolore, intimismo come impossibilità di accettare e di essere accettati, intimismo, quindi, come pura barriera per vivere al meglio il proprio mondo al colmo di un’esaltante e disturbante solitudine interiore, in cui il sogno si sostituisce alla realtà delle cose. Così, ascoltando la lettura fatta dal duo Bidoli & Canino di questo primo monumento cameristico sembra quasi di toccare questa suprema solitudine, in cui il binomio vocalismo/strumentalismo viene sostituito da un dolcissimo lamento in cui il tappo dell’esistenzialità viene tolto affinché il gorgo dell’immanenza possa tutto accogliere. Il violinista milanese non si abbandona a sterili sentimentalismi di sorta (e questo si percepisce fin dal dilaniante primo tempo della Sonata), e senza mai andare a strappare la linea melodica è metodico nell’esplorare fecondamente le possibilità che la scrittura brahmsiana offre sempre all’interprete. Canino che ha pochi eguali, anche a livello internazionale per ciò che riguarda queste tre pagine, non solo asseconda, ma indica continuamente la strada maestra, come testimonia il suo apporto nel secondo tempo della Prima sonata, permettendo al più giovane collega di staccare tempi pressoché perfetti, tali da aumentare il livello del pathos e della saturazione lirica, al punto da far accettare quietamente l’oceano di melanconica mestizia che satura questo momento. Il terzo tempo, colmo del tema liederistico, nell’esecuzione del duo in questione non è ancora all’insegna di un “canto”, ma seguendo la precedente falsariga, si trasforma in una sorta di danza in cui c’è un solo danzatore che si muove come se ci fosse anche l’altra presenza per dare vita a una coppia. Il suono sprigionato da Alessio Bidoli a tratti è quasi rappreso, senza mai fratturare la melodia che si alza e si abbassa, forse con la precisa intenzione di trasmettere un singhiozzo ideale, mentre il pianoforte di Canino lo incalza implacabilmente, come a dire che il sogno si deve sempre scontrare con il bicchiere di fiele che la realtà costringe a bere.

Se queste tre Sonate non devono essere ascoltate solo con il cuore, ma anche con il cervello, allora la cosa da fare è di comprendere come progressivamente il “progressivo” (non solo nel senso schönberghiano del termine) Brahms vada a limare, a smerigliare, a lucidare il rapporto volumetrico tra violino e pianoforte; prova ne è la Sonata n. 2 op. 100, la cui composizione risente indubbiamente dell’atmosfera emanata dal luogo in cui fu creata, ossia tra le imponenti montagne svizzere che sovrastano e custodiscono il villaggio di Hofstetten, il quale si affaccia sull’altrettanto magico lago di Thun (per questo motivo la Sonata n. 2 è stata sopranominata Thuner-Sonate).
Questo rapporto volumetrico che si fa sempre equilibrato, in grado di esaltare al massimo grado il lirismo e l’intimistico colloquio tra i due strumenti si coglie prepotentemente proprio in codesta Sonata, la quale zampilla liederismo da tutti i pori e che, in virtù di tale peculiarità, vede un suo ideale collegarsi all’alveo schubertiano-mendelssohniano. D’altronde, nel primo tempo, un Allegro amabile, sono diversi gli spunti tematici o, quantomeno, le cellule di sviluppo che derivano da precedenti Lieder brahmsiani, come Wie Melodien zieht es mir leise durch den Sinn (“Come melodia qualcosa passa lieve per la mente”) e Komm' bald (“Vieni presto”), che rappresenta il punto conclusivo del Lied Immer leiser wird mein Schlummer (“Sempre più leggero è il mio sonno”), che ebbero un grande successo anche grazie alla voce del giovane mezzosoprano Hermine Spies, raffinata interprete del repertorio liederistico tedesco e proprio di quello brahmsiano in particolare. La rotonda asciuttezza del timbro dato da Canino al pianoforte e l’eloquio appassionato e con una punta di soffice nostalgia fornito da Bidoli al violino fanno da contraltare a tutta la loro lettura, con una scelta dei tempi e del tessuto comunicativo che mette in evidenza la sovrana volumetria della composizione, calibrando gli interventi e la loro densità, frutto di un’articolazione tecnica e di un’espressività che non cedono mai a un sentimentalismo fine a se stesso.
Ora, questa ricerca di perfezione volumetrica e di equilibrio tra le parti, che vede sbocciare temi, sviluppi e riprese sul filo di una linea melodica mai banale, ma sempre ricca e coinvolgente, sembrò essere stata messa da parte da Brahms nella sua terza e ultima Sonata, quella che gli costò la maggior fatica e, parallelamente, anche dubbi e crucci alimentati dalla solita spietata autocritica (testimoniati anche da una missiva inviata a Clara Schumann), poco prima che la pagina venisse pubblicata come sempre da Simrock. Anche la Sonata in re minore vide la luce nel corso di tre estati, quelle che vanno dal 1866 al 1868, in quel di Thun, e ciò che notarono subito i critici dell’epoca è che il sommo amburghese aveva ceduto alla seduzione del richiamo virtuosistico (e questo vale soprattutto per il ruolo riservato al beneamato pianoforte), spostando l’ago della bilancia a favore di quest’ultimo rispetto al violino. Inoltre, a differenza delle prime due Sonate, qui l’intimismo, il lirismo e il pacato colloquio tra due amici in vena di ricordi dal sapore nostalgico lasciano spazio a un’esuberanza, a un vitalismo che è un improvviso sussulto esistenziale, prima ancora che artistico. Quando la Sonata viene conclusa a Brahms restano ancora nove anni di vita, buona parte dei quali vissuti e sperimentati nella parabola di un Untergang che non lascia spazio a un futuro o a una “volontà di potenza” quasi di nietzschiana memoria, ma a un progressivo lasciarsi andare, acuito dalla morte dell’adorata Clara. Certo, ci sarà la curiosità tramutatasi in un momentaneo ed entusiastico interesse nei confronti del clarinetto, ma il ripiegarsi è dettato soprattutto a favore del sempre amato pianoforte che, nelle sue ultimissime pagine, assume i contorni di un vero e proprio “diario/testamento sonoro”. Ecco, allora, che il Brahms della Terza sonata violinistica veste per un momento i panni “vitalistici” di un Bergson prestato alla musica, oltre al fatto di presentarsi in una predisposizione più canonica all’insegna dei quattro tempi, che permettono una maggiore diluizione dei temi e delle necessità creative dell’amburghese.

Si diceva, quindi, di una sorta di “tradimento” nei confronti dell’equilibrio volumetrico tra i due strumenti a favore di un Drang scontornato dall’apporto virtuosistico (un aspetto questo che, a livello concertistico, ha sempre visto poi primeggiare nel corso del tempo tra gli interpreti questa Sonata rispetto alle due precedenti), ma è altrettanto vero che dietro il nitore e il fascino delle linee melodiche che infarciscono questa composizione si annida ancora il seme della sperimentazione felicemente approdata a una solida conquista armonica e strutturale, visto che anche qui il concetto della variazione e del metodico e implacabile sfruttamento di tutte le cellule tematiche viene esemplarmente portato a termine dal compositore tedesco (con conseguente interesse a posteriori da parte di Schönberg nella sua disamina del Brahms der Progressive). Inoltre, vi è, come accade nel primo tempo, un Allegro, la capacità di coniugare il concetto di “instabilità”, fornito dal senso ritmico del pianoforte, con quello di “stabilità”, enunciato dalla linea melodica del violino, che a prima vista dà l’impressione di un procedere di due rette euclidee destinate a non incrociarsi mai, ma che in realtà, a un ascolto più attento, offre un continuo e reciproco cesellarsi che porta ad ampliare a livello timbrico la resa dei due strumenti, al punto che a tratti sembra di avere a che fare con un sentore realmente “sinfonico”. Il precipitarsi squisitamente cameristico avviene nell’Adagio, che rappresenta uno dei vertici melodici brahmsiani, in cui il violino si trasforma in un’idrovora capace di assorbire quasi totalmente lo spazio sonoro. E se il vivace intermezzo che segue è una sorta di brillante appetizer che prepara l’ascolto del finale, il Presto agitato, quest’ultimo rappresenta idealmente la sovrana capacità del compositore di manipolare la materia sonora, con il pianoforte che prende per mano il violino coinvolgendolo in uno straordinario Corale.
Penso che proprio la lettura di quest’ultima Sonata da parte del duo Bidoli & Canino possa sancire la riuscita globale di questo trittico; la loro interpretazione, infatti, fa affiorare non solo la dimensione singola di ogni composizione, evidenziandone le debite peculiarità stilistiche ed espressive, ma anche e soprattutto la coralità generale attraverso la quale Brahms considera e firma il genere cameristico specifico in sé. Così, questo disco si trasforma in un esaltante viaggio d’ascolto attraverso il quale si può percepire la reale portata d’intenti da parte del sommo amburghese. Inoltre, non dimentichiamo che ci troviamo di fronte all’incontro tra due generazioni interpretative (tra Bidoli e Canino, all’anagrafe, ci sono più di cinquant’anni di differenza!), le quali mettono a disposizione differenti visioni, diverse sensibilità capaci di coniugarsi fecondamente, arricchendosi reciprocamente nell’esplorazione del multiverso brahmsiano, con la saggezza dell’uno che si unisce nella freschezza dell’altro. Proprio la loro esecuzione della Terza sonata mostra come la ferma e rotonda esperienza pianistica di Canino metta a disposizione dell’esuberanza espressiva di Bidoli quel tappeto sonoro a dir poco necessario per dare vita a una pagina in cui entusiasmo e consapevolezza riescono a convivere felicemente, in quanto, come non mai, in questa composizione l’amburghese ormai vegliardo, volgendosi al proprio passato, sorride al ricordo del Brahms giovane e affascinante, con i suoi occhi cerulei, bussare timoroso per la prima volta alla porta di casa Schumann.

“Disco del mese” di dicembre di MusicVoice.
Mario Bertodo si è occupato della presa del suono e il risultato è complessivamente buono. Ciò che colpisce d’acchito è indubbiamente la dinamica, assai veloce e vigorosa, ma che allo stesso tempo non presenta colori inappropriati (lo strumento utilizzato da Alessio Bidoli, uno Stefano Scarampella del 1902, sprigiona un suono a dir poco sontuoso e potente, soprattutto nelle cavate). Il parametro del palcoscenico sonoro ricostruisce i due strumenti su un piano assai ravvicinato, il che a volte porta ad avvertire un leggero riverbero soprattutto quando il violino raggiunge il registro acuto e sovracuto, ma senza inficiare la veridicità dell’immagine sonora, la quale si irradia in altezza e in ampiezza. Allo stesso modo, l’equilibrio tonale appare corretto, con una fedele riproduzione del registro acuto e di quello medio-grave da parte dei due strumenti, senza che l’uno abbia il sopravvento sull’altro. Infine, il dettaglio è oltremodo materico, con una presenza tridimensionale del violino e del pianoforte, debitamente scontornati da una massiccia dose di nero, che contribuisce a rafforzare la tattilità di entrambi.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – The Violin Sonatas
Alessio Bidoli (violino) – Bruno Canino (pianoforte)
CD Warner Classics 5021732868572
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5