Tra le ultime novità pubblicate dalla casa discografica Urania Records spiccano due titoli, quello che riguarda la Sacred Liturgy in Bologna, con musiche di compositori che vanno dal XV fino al XIX secolo eseguite dai componenti del San Pietro Ensemble, e i Piano Works di Béla Bartók nella lettura del pianista lombardo Francesco Pasqualotto.
La prima registrazione, che presenta opere eseguite da autori come Benedetto Donelli (1782-1839), Giacomo Antonio Perti (1661-1756), Giuseppe Maria Carretti (1690-1774), Ignazio Fontana (1752-1820), Antonio Mazzoni (1717-1785), Niccolò Jommelli (1714-1774), Ferdinando Bertoni (1725-1813), Pietro Giuseppe Gaetano Boni (?-1750?) e Giovanni Battista Martini (1705-1784), oltre ad alcuni brani appartenenti alla tradizione del canto gregoriano, parte da una domanda che l’estensore delle note di accompagnamento, Lars Magnus Hvass Pujol, si pone a livello retorico, ossia che tipo di musiche ascoltarono Leopold e Wolfgang Amadeus Mozart quando giunsero per l’appunto nell’ottobre del 1770 a Bologna affinché il quattordicenne Amadé potesse sostenere l’esame di ammissione presso la prestigiosa Accademia Filarmonica davanti al famoso e riverito frate francescano Giovanni Battista Martini. La risposta che lo stesso Leopold scrisse in una lettera indirizzata alla moglie Anna Maria fu che lui e il figlio avevano ascoltato «un concerto nella grandissima chiesa di S. Petronio, cui hanno partecipato tutti i signori musici di Bologna».
Così, i pezzi presentati dai membri del San Pietro Ensemble, attinti dalle partiture originali conservate nel Fondo Musicale del Capitolo della Cattedrale Metropolitana di S. Pietro a Bologna, che si trova attualmente presso l’Archivio Generale Arcivescovile, sono probabilmente quelli che i Mozart padre e figlio ebbero modo di ascoltare, restandone meravigliati, proprio tra le volte di S. Petronio. Da qui, una pletora di brani che vanno dal Graduale & Alleluja di Jommelli, sicuramente l’autore più famoso qui presente con Antonio Mazzoni e Giovanni Battista Martini, il quale giunse a Bologna proprio per studiare con l’erudito francescano, all’articolata XII Profezia del Sabbato Sancto dello stesso Mazzoni, a quelli tratti dalla Messa a quattro voci e basso continuo dell’operista Ferdinando Bortoni, oltre a tre canti gregoriani trascritti da Martini.
Data la natura della registrazione, la tipologia di autori, il genere musicale e il taglio delle scelte fatte dai componenti del San Pietro Ensemble, questo disco è chiaramente consigliabile agli appassionati di musica sacra e ai cultori del rapporto tra storia e musica. Convincente l’interpretazione da parte del San Pietro Ensemble (formato dal soprano Alice Fraccari, dal contralto Angela Troilo, dal tenore Paolo Davolio, dal baritono e concertatore Giacomo Contro, oltre a Francesco Righini all’organo, Silvia De Rosso al violone e Antonio De Luigi alla tiorba e chitarra barocca, senza dimenticare anche le voci della Schola Gregoriana di Antonio Bitella, Davide Carollo, Antonio Lorenzoni e Gaspare Valli). Sia la resa strumentale, sia soprattutto quella vocale riescono a trasmettere la solennità e le peculiarità dei brani presi in oggetto (i quali, a dire il vero, non possono rientrare di diritto nell’ambito di capolavori, ma la cui esecuzione fissa e focalizza al meglio la situazione storico-musicale bolognese soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento).
Andrea Della Lena Guidiccioni si è occupato della presa del sono, avvenuta nella Parrocchia di San Giovanni Battista a Borgo Capanno, vicino a Bologna; il risultato è complessivamente buono, con una dinamica sufficientemente convincente nel restituire la velocità e una discreta naturalezza del suono. Il palcoscenico sonoro ricrea un’immagine corretta dei cantanti, così come degli strumentisti, anche se la scena risulta essere leggermente piatta e senza una debita ampiezza. Anche l’equilibrio tonale e il dettaglio vantano un risultato positivo nel restituire un ascolto piacevole e coinvolgente.
Ha perfettamente ragione il pianista Francesco Pasqualotto quando nelle note di accompagnamento del suo CD dedicato ad alcune opere pianistiche di Béla Bartók afferma che il compositore magiaro fu uomo e artista dai mille volti, anche se poi il Novecento, secolo dagli altrettanti mille volti, ha faticato non tanto ad accettare, quanto a comprendere e a metabolizzare la sua musica. Una non accettazione che in un certo senso vige tuttora, soprattutto se rapportata a quanto invece è accaduto a Schönberg da una parte e a Stravinskij dall’altra, ossia per i depositari dei due linguaggi musicali, per dirla con Adorno, che hanno indicato i principali sentieri musicali del Ventesimo secolo, mentre ciò non è ancora pienamente riconosciuto a Bartók e alla “terza via” da lui seguita e difesa appassionatamente nel corso della sua attività di compositore e teorico.
E che Pasqualotto ami la musica del grande compositore ungherese lo si capisce non solo dalla sua appassionata lettura, ma soprattutto (e questo, se permettete, è l’aspetto più importante che risiede a monte dell’interpretazione stessa) per la scelta del programma, che intende per l’appunto non presentare tout court il pianismo di Béla Bartók, bensì i meccanismi della sua arte pianistica, la sua capacità di essere rivoluzionaria nel pieno solco di una tradizione mai tradita o svilita. Ecco, allora, pagine mirabili, ma rare da ascoltare, come i quattro Canti funebri op. 9a, risalenti al 1910, i Dieci pezzi facili BB.51, di due anni prima, e le 14 Bagatelle BB.50, messe a confronto con pietre miliari più conosciute, come una pagina terrificante per difficoltà quale può essere All’aria aperta BB.89 (1926), e con la “classica” Suite BB.70 (1916), la quale può essere definita la Kehre non solo del pianismo bartókiano, ma dell’epoca stessa.
Ecco, un programma del genere, in cui al di là del pianista prende il sopravvento anche la “deformazione professionale” dell’insegnante (Pasqualotto insegna pianoforte all’Istituto Superiore Musicale “Franco Vittadini” di Pavia e all’Istituto Musicale Pareggiato “Giacomo Puccini” di Gallarate), permette, a chi ne possiede gli strumenti, di imparare ad ascoltare in meno di settantacinque minuti quei “meccanismi” che presiedono all’evoluzione dello stile e della concezione pianistici di Bartók. E il pianista lombardo lo fa nel modo più acconcio, nel senso che, come si è già accennato prima, Pasqualotto affronta queste opere sempre con un occhio fisso sui due piatti della bilancia, quello della tradizione e quello della innovazione/rivoluzione bartókiana. E la prima lezione che ci sottopone è che nel pianismo del sommo magiaro nulla vi è di facile, ma che ogni accordo e ogni nota, soprattutto il modo di renderli, devono essere affrontati e vissuti dall’interprete come un atto di conquista, poiché l’esecuzione e l’ascolto di Bartók è come affrontare la scalata di una montagna, in cui ogni passo, ogni movimento devono essere fatti guardando non solo quel punto della roccia che si sta affrontando, ma anche guardando con attenzione ai punti successivi, quelli che si trovano in alto. Il pianismo del magiaro è una proiezione futura che si concretizza sempre nel presente tenendo per mano il passato, sembra dirci Pasqualotto.
E, come ci ha ricordato nel booklet, l’uomo dai mille volti si rivela anche attraverso il suo pianismo, che dev’essere intrapreso come se fosse il Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria, quello che è uno, nessuno e centomila, poiché per padroneggiare la tastiera in Bartók bisogna saperne restituire le molteplici sfaccettature, le quali, come dimostra esemplarmente il nostro interprete, possono manifestarsi contemporaneamente sul pentagramma. E qui sono dolori per chi non riesce a venirne a capo o, peggio, per chi le fa affiorare singolarmente, una ad una. Così, All’aria aperta, come fa giustamente Pasqualotto, non dev’essere affrontata come se dalla tastiera eruttasse in un processo senza fine solo l’elemento ctonico, tellurico (e questo soprattutto nel segmento iniziale With drums and pipes, in cui dev’essere evidenziata invece la grande tradizione “classica” che lo sovrintende, quasi fosse un rigurgito di polifonica memoria) o la cristallina e rappresa contemplazione che intride i quattro Canti funebri, nei quali Bartók legge i suoni con Debussy, affiancandolo e superandolo allo stesso momento. Oppure, ancora, le sabbie mobili dei dieci Pezzi facili (il lemma “facile” non appartiene al lessico bartókiano, se non nell’immagine dell’idea, ma non certo nella sua realizzazione tecnica ed espressiva) in cui l’ingannevole pacatezza non deve mai tradire la presenza di una tensione interiore, di una nervatura dolcemente febbrile, di un fuoco che cova sotto una cenere fredda.
Quindi, se amate Bartók, dovete amare i suoi (rari) interpreti ideali, come nel caso del nostro pianista lombardo, artefice contemporaneamente di un programma intrigante, squisitamente propedeutico, e di una conseguente lettura che è un’immagine olistica di quelle che furono le necessità compositive, creative del musicista magiaro, offrendo una loro identificazione, una loro focalizzazione sonora, senza mai tradirne la prodigiosa peculiarità espressiva.
La presa del suono, effettuata da Luca Ricci, non penalizza le sonorità richieste dal pianoforte e dal suo interprete, restituendo uno Steinway Modello D cristallino e perentorio allo stesso tempo, merito di una dinamica assai veloce nei transienti, così come di una più che sufficiente naturalezza timbrica. Il palcoscenico sonoro ricostruisce lo strumento idealmente al centro dei diffusori, con la complicità di un’idonea immagine sufficientemente profonda. L’equilibrio tonale e il dettaglio, infine, vantano l’uno un pieno rispetto dei piani timbrici dei registri, senza possibili e spiacevoli sbavature, l’altro una matericità capace di regalare un ascolto esente da qualsiasi fatica.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Sacred Liturgy in Bologna
San Pietro Ensemble
CD Urania Records LDV 14069
Giudizio artistico 4/5 Béla Bartók – Piano Works Francesco Pasqualotto (pianoforte) CD Urania Records LDV 14074 Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 3,5/5
Giudizio tecnico 4/5