Disco del mese di Agosto 2022
In un’intervista televisiva concessa da Federico Zeri alla RAI qualche anno prima di morire (è ancora possibile vederla su YouTube), il grande erudito e critico d’arte affermò che l’uomo contemporaneo è ormai fondamentalmente incapace di leggere, nel senso che non riesce più a proiettare a livello tridimensionale il piano di lettura, ossia non sa più immaginare spazialmente ciò che sta leggendo. Per spiegarsi meglio, Zeri prese come esempio la Divina Commedia che dev’essere “letta” non solo attraverso la sua gigantesca dimensione poetica ma, partendo proprio dalla visione espressa dei suoi immortali versi, anche mediante i colori e i suoni che riesce a sprigionare. Come a dire che il capolavoro dantesco non è né “cieco”, né “sordo”, ma vive, respira, odora, trasudando in ogni suo passo tonalità visive e uditive. Quest’affermazione non solo potrà sorprendere coloro che sono abituati a leggere e a riflettere la loro lettura in modo non “tridimensionale”, vale a dire non concependo l’assimilazione semantica nella sua volumetria sensoriale, ma anche chi si rende conto che l’arte musicale, al di là di una pagina lisztiana, la celeberrima Dante Symphonie (Eine Symphonie zu Dante’s Divina Commedia, S. 109), non ha mai cercato e progettato di esplorare sonoramente il viaggio dantesco nell’inferno, nel purgatorio e nel paradiso. Un’incomprensibile dimenticanza, quella dimostrata dall’arte dei suoni o, al contrario, un conscio rifiuto scaturito da quel “timore e tremore” di kierkegaardiana memoria di fronte a un capolavoro talmente assoluto che non poteva essere reso e ampliato dalla musica.
Qualcosa, però, negli ultimi anni, grazie alla volontà di ricerca espressa dalla musica contemporanea, sta finalmente cambiando; dapprima ci ha pensato un autore romano, Luigi Esposito, allievo, collaboratore e biografo di Sylvano Bussotti, il quale ha fissato la sua esplorazione sonora sull’ottavo cerchio dell’inferno dantesco, quello dedicato alle Malebolge, con la composizione Dieci luoghi malsani per pianoforte a quattro mani, suoni registrati e suoni elettronici, mentre ora è recentissima una registrazione discografica ad opera del soprano romagnolo Laura Catrani, la quale in un disco pubblicato dalla Stradivarius, Vox in bestia, ha voluto dare voce, è il caso di dirlo, agli animali che popolano il capolavoro della letteratura mondiale, chiedendo a tre musicisti italiani, Fabrizio De Rossi Re, Matteo Franceschini e Alessandro Solbiati, di dare vita con la loro creatività e sensibilità compositive, ai possibili suoni emessi dalle bestie che rispettivamente appaiono nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso.
Così, entrando nello specifico di questo progetto discografico, il romano Fabrizio De Rossi Re ha immaginato sonoramente gli animali presenti nella cantica infernale, ossia le tre fiere (la lonza, il leone e la lupa) presenti nel primo canto, i mosconi, le vespe e i vermi che si trovano nel terzo canto, gli storni, le gru e le colombe nel quinto canto, il cerbero, animale immaginario e terrificante, nel sesto canto e le cagne, presenti nel tredicesimo canto; da parte sua, il trentino Matteo Franceschini ha tratteggiato gli animali che Dante pone nella cantica del Purgatorio: i due angeli nelle fattezze di falchi nell’ottavo canto, i botoli, ossia cani di piccola taglia, che fanno la loro comparsa nel quattordicesimo canto, l’agnello nel sedicesimo canto, l’ape nel diciottesimo canto e il piccolo di cicogna nel venticinquesimo canto; infine, al bustocco Alessandro Solbiati è toccato occuparsi delle bestie che affollano la cantica del Paradiso: l’aquila nel primo canto, il colubro, vale a dire l’aspide, nel sesto canto, un uccello nel ventitreesimo canto, ancora l’agnello nel ventiquattresimo canto e il pellicano nel venticinquesimo canto.
Al visionario scrittore Tiziano Scarpa è stato riservato poi un delicato compito, quello di fissare nelle note di accompagnamento una sorta di spiegazione riassuntiva di ognuno di questi animali e la loro funzione nelle pagine della Commedia dantesca, facendo sì che le sue parole potessero preparare all’ascolto, una sorta di trampolino di lancio dal quale i versi del sommo poeta dedicati alle bestie in questione (riportati anch’essi nel generoso booklet del disco, così come alcuni disegni di Gianluigi Toccafondo) venissero poi cangiati in suono dalla voce di Laura Catrani. Detto ciò, ci troviamo di fronte a un progetto discografico che definire ardito significa affermare nulla, poiché per sessanta minuti, quanto dura il disco in questione, abbiamo solo il canto del soprano riminese, il quale, tutt’al più, in brevi momenti si accompagna con un triangolo e battendo le mani: per il resto solo la voce o, per meglio dire, come si dirà, le voci. L’arditezza, con il rischio di dare vita più che a un bestiario di medievalistica memoria a un raffazzonato zoo, stava proprio nell’ambizione del progetto in sé, immaginare voci, dimensioni sonore, registri comportamentali partendo dalla voce poetica dantesca, fissata, scolpita, cristallizzata nel nostro immaginario collettivo, dalla potenza assoluta dei suoi versi, parole, rime, assonanze lette e metabolizzate con l’ausilio degli strumenti letterari. L’ambizione, potremmo anche definirla la tentazione, di strappare suoni (e relative immagini) da questi versi, da queste parole divinamente concatenate per renderli fonemi artistici, bagliori sonici, esplosioni spaziali, ossia quanto richiesto proprio, attraverso una lettura finalmente intelligente e appropriata, da Federico Zeri nel corso di quell’intervista: costruire, quindi, tridimensionalmente un afflato che la nostra consuetudine ci impone di considerare nella forma piatta, monodimensionale della pagina scritta.
E qui subentra l’indubbia capacità da parte dei tre compositori chiamati in causa di procedere, mediante la potente arma dell’immaginazione creativa, di saper concentrare questa pletora di molteplici necessità nella voce/voci di Laura Catrani, confezionando ad hoc, perché di questo si tratta, una serie di vestiti canori nei quali il soprano si potesse calare, cambiandoli con la stessa velocità di un Leopoldo Fregoli o di un Arturo Brachetti, fate voi. Essenzialità, figlia delle simbologie e delle allegorie che marchiano a fuoco la cultura e la visione del mondo medioevalistico, moltiplicata per il trasformismo richiesto dai bisogni di elargire movimento al canto stesso, cioè fare in modo che il testo cantato, sillabato, ruttato, digrignato, distorto potesse divenire, di volta in volta, immagine di una spazialità in continuo mutamento.
Ricordiamoci che nelle pagine del capolavoro dantesco, gli animali non sono immobili, non recitano il ruolo di un’allegoria incollata nella scena che si presenta ai nostri occhi, alle nostre orecchie e al nostro naso, ma sono sempre com-partecipi, e che il loro muoversi, il loro agire sono sempre prodigiosamente riportati dai versi del sommo poeta. Quindi, il canto richiesto non doveva andare a investire solo la dimensione vettoriale/acustica, ma anche, e qui il rischio poteva tramutarsi in farsa, la spazialità, la plasticità che l’animale chiamato in causa doveva attuare con il suo movimento, che fosse di ali, di zampe, di corpo, oltre che dei versi emessi. Voce come irradiazione esistenziale, come progettazione comportamentale, come manifestazione di un essere calato precisamente in un luogo fisico, da ricostruire e descrivere compiutamente, affinché la voce avesse un suo perché e un suo preciso essere.
Io non so se il lavoro di creazione e di stesura da parte dei tre compositori sia stato preventivamente concordato tra di loro, ma se ciò non è avvenuto, allora ci troviamo davanti a un risultato miracoloso, la cui miracolosità si evince da come il canto, la voce, la dimensione portante del tutto tendono a modificarsi mediante l’immagine proposta che dai substrati ctonici infernali conduce fino alle sfere empiree decantate (durante l’ascolto, ho ripercorso quanto Anselmo d’Aosta afferma con il suo pensiero, con quel tragitto che inizia dal de casu diaboli e che porta al Cur Deus homo, come se gli animali chiamati in causa fossero altrettante tappe, stazioni che portano, seguendo la visione del filosofo e teologo aostano, alla concezione del suo De veritate, nel quale viene dibattuto il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia che, guarda caso, fanno parte del mistero interpretativo che permea tutta la costruzione della commedia dantesca). Questo progressivo sentimento di elevazione, di lievitazione timbrica muta con il conseguente mutare delle cantiche, con la spigolosità da stridor di denti che De Rossi Re fa trangugiare alle bestie del suo Inferno, in cui la gutturalità viene spalmata, incatramata, fatta fluire sadicamente nelle tessiture alle quale il soprano riminese è costretto. E poi, la carne che non è ancora pesce e viceversa rappresentata da quanto Franceschini pone nel bestiario del Purgatorio, nel quale le croste del registro grave cominciano ad essere tolte, lasciando sanguinare, molto o poco che sia, il richiamo verso acuti che non hanno ancora un ordine sistematico, quello che si riconduce al pensiero tomistico, ma sono tuttora schegge che devono essere ricomposte, tasselli di un puzzle che non trova una forma definitiva, anche se il canto emesso dalle voci assume un alito meno pestilenziale, corretto dal collutorio della ricerca, dell’anelito della virtù, della verità, della giustizia (ecco Anselmo d’Aosta!). E, infine, l’agognata conquista della rotondità, della linea frammentata, del segmento strozzato che diviene cerchio giottesco, la perfezione tratteggiata da Solbiati, che però, a mio avviso, delineando gli animali calati nella luce paradisiaca, non dimentica la dimensione, il ruolo di un Dio-uomo redentore (il Cur Deus homo, per l’appunto), in cui la voce di Laura Catrani non è obbligata a divenire un calco canoro dei colori di un Beato Angelico, ma subisce sempre il fascino antropocentrico di una cultura, di un sistema, di una visione che segnerà la fine del Medioevo. Rotondità acquisita, centellinata, dispensata sagacemente, fluidamente di cantica in cantica, di canto in canto: ecco dove risiede la miracolosità compositiva di questo progetto musicale.
Infine, la voce/voci di Laura Catrani. Ascoltandola, pur da agnostico, mi è tornato in mente il passo evangelico di Marco 5:1-20, quello che afferma «Il mio nome è Legione perché siamo in molti», poiché il soprano riminese, punto di riferimento (ma sarebbe meglio definirlo “autorità”) del canto contemporaneo, dimostra non di incarnare, ma di essere schizofrenicamente capace di modulare la sua voce come meglio crede, partendo da registri abissali nei quali H. P. Lovecraft si sarebbe trovato a suo agio, fino a raggiungere vette acute sulle quali persino sherpa nepalesi avrebbero avuto bisogno di bombole di ossigeno per poter respirare e sopravvivere. Ma, al di là delle questioni e delle capacità tecniche della sua voce, Laura Catrani è totalmente convincente nel saper ricreare il movimento e la conseguente spazialità di cui si è accennato sopra attraverso la sua straordinaria capacità espressiva (vi ricordate di Cathy Berberian?) in grado di restituire adeguatamente quella profondità tridimensionale con cui il suono si manifesta (se si deve scegliere un brano icona, allora è sufficiente ascoltare Agnel di Matteo Franceschini). Ma in un progetto come questo non bisogna accantonare la dimensione teatralizzante (in tal senso, Vox in bestia non dev’essere solo ascoltata e immaginata, ma vista in concerto per far collimare pienamente l’aspetto dell’ascolto con quello dell’immagine, cosa che si evince ascoltando Cerbero di Fabrizio De Rossi Re e Augello di Alessandro Solbiati, in cui il movimento fisico, attoriale è componente ineludibile del tutto).
Tutto ciò porta a considerare la performance a tutto tondo del soprano riminese come la piena e compiuta realizzazione di una suprema vox clamantis, il cui rimando non è assimilabile al significato dato dal Vangelo di Marco, quando si riferisce ai battesimi fatti nel deserto da Giovanni Battista, ma di una voce capace di piangere, un pianto fatto di dolore nella cantica infernale, di amarezza in quella del Purgatorio e di gioia nel Paradiso. Un pianto, dunque, il quale, qualunque sia la sua portata affettiva ed emotiva, è sempre segno tangibile di una purezza interiore, di un’emissione che permette di scorgere, dietro la dimensione allegorica di ogni animale, le fattezze di un’anima, di una proiezione inconscia che cerca di esprimere la sua capacità percettiva, vuoi nel male, vuoi nel bene. Sia ben chiaro, quello che propone Laura Catrani è un ascolto non certo facile, che abbisogna di reiterate e progressive assimilazioni, le quali devono essere ispessite da un’inevitabile conoscenza del capolavoro dantesco, affinché la sua emanazione ineludibile possa fare da collante, da ponte ideale per proiettare l’ascoltatore nella dimensione di un novello viaggiatore dell’oltretomba, il quale nel suo viaggio stavolta non è accompagnato né da Virgilio, né da Beatrice, ma da un esemplare sismografo vocale chiamato Laura Catrani.
Di fronte a un risultato artistico del genere, non può che essere il disco del mese di agosto di MusicVoice.
Per rendere al meglio una registrazione del genere, in cui vi è solo una voce che si irradia per un’ora di tempo, una presa del suono a dir poco ottimale doveva essere il minimo sindacabile. Ma quella di Andrea Dandolo, per nostra fortuna, è andata ben oltre, poiché qui era fondamentale prima di tutto individuare una location adatta (nella fattispecie la Chiesa di San Giuseppe ai Piani a Bolzano) e in secondo luogo saperla sfruttare acusticamente in modo da permettere alla voce/voci di Laura Catrani di impadronirsi della spazialità del luogo in questione, facendone un tutto. La cosa è riuscita in quanto la dinamica proposta è ottimamente energica, velocissima, così come precisa e naturale nella microdinamica. Energia e velocità che hanno permesso di conseguenza di ricostruire in modo convincente non solo la figura del soprano, scolpita al centro dei diffusori in una posizione ravvicinata rispetto l’ascoltatore, ma anche e soprattutto la spazialità che la sua voce domina e propone a livello tridimensionale. L’equilibrio tonale, parametro particolarmente critico in tali circostanze, risponde adeguatamente all’appello, soprattutto per ciò che riguarda il registro medio-acuto, senza che si presentino picchi o anche solo accenni di saturazione. Infine, il dettaglio è denso di un’ottima matericità, in grado di scontornare sempre in modo ideale la voce e la figura fisica dell’artista.
Un’ultima annotazione: questo scritto è dedicato alla figura di Roberto Elli, deus ex machina della Stradivarius e figura chiave della musica contemporanea italiana degli ultimi decenni, il quale è mancato poco tempo fa in modo del tutto inaspettato. Roberto è stato non solo un compagno di viaggio, ma anche un amico, senza il quale il mondo della musica registrata sarà purtroppo più povero e spaesato.
Andrea Bedetti
Fabrizio De Rossi Re - Matteo Franceschini - Alessandro Solbiati – Vox in bestia
Laura Catrani (soprano)
CD Stradivarius STR 37207
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5