Disco del mese di Luglio 2024
Prima di affrontare la disamina di una recentissima pubblicazione da parte della Da Vinci Classics, che presenta la registrazione in prima assoluta mondiale dei Novelli Fiori Ecclesiastici Opera IX del musicista milanese Michel Angelo Grancini, effettuata dall’ensemble Nova Ars Cantandi, desidero spendere due parole su Giovanni Acciai, vale a dire il deus ex machina della ricerca musicologica in ambito antico e barocco e della sua, a dir poco prodigiosa, capacità di “ciclostilare”, sfornare almeno una registrazione discografica a livello annuale di suprema qualità, sempre con la preziosa collaborazione delle quattro voci che formano l’ensemble in questione, unitamente all’indispensabile presenza di Ivana Valotti all’organo, oltre che dello stesso Acciai in qualità di direttore. Non credo che a livello internazionale ci sia un’altra figura in grado di emulare o di ottenere gli stessi, mirabili risultati che Acciai riesce a produrre, sia a livello di studio e di ricerca, sia nella conseguente e sfociante trasposizione e resa di incisione discografica.
Tanto per chiarire meglio, di fronte a una simile messe di studio e di relativa applicazione sonora, non si può parlare solo di encomiabile e instancabile passione, in quanto la sola passione, a volte, rischia di mancare di un’altrettanta, ineludibile, dote, quella che porta il nome di lucidità. Lucidità intellettuale, lucidità di ricerca, lucidità di programmazione e lucidità gestionale, le quali, messe tutte insieme, permettono la costruzione di un edificio in cui tutti i piani sono collegati da un ascensore che ne rappresenta il denominatore comune. Ebbene, in Giovanni Acciai, trovo che questo “ascensore” faccia idealmente rima con il concetto di “ricerca centrifuga”, poiché se si va a indagare lo studio sistematico e certosino che il nostro musicologo e musicista porta avanti da tanti, tantissimi anni, parallelamente alla sua produzione discografica, possiamo renderci conto che il suo spettro d’indagine e di disvelamento artistico e culturale tende ad allargarsi in modo logico e concatenante, un qualcosa che è frutto, quindi, non di passione in sè, la quale, torno a ripetere, può dare adito anche a risultati che sono a casaccio o che sono figli di un parto intellettualmente “anarchico”, ma di indefessa e implacabile lucidità. Per comprendere ciò, è sufficiente dare un’occhiata alla discografia di Giovanni Acciai e della “sua” Nova Ars Cantandi, con gli autori da loro presi in considerazione: i pilastri portanti, dai quali si diramano poi i conseguenti agganci, sono da una parte Giovanni Pierluigi da Palestrina e, dall’altra, e non potrebbe essere altrimenti, Claudio Monteverdi. Da entrambi partono poi segmenti storico-interpretativi che vanno a formare progressivamente strutture, scuole, canoni, panorami più o meno direttamente collegati, passando da Lodovico Grossi da Viadana (il primo ad utilizzare regolarmente e sistematicamente il basso continuo al posto delle voci), Giovanni Contino (filone palestriniano), Giacomo Moro e Pietro Vinci (filone madrigalesco), Isabella Leonarda (la prima compositrice ad aver pubblicato sonate per uno, due, tre e quattro strumenti), Giovanni Legrenzi (filone monteverdiano della “seconda prattica”) e lo studio della Scuola napoletana in chiave sacra (Francesco Durante e Leonardo Leo) e, ancora tra rimandi e anticipazioni, ora si aggiunge per l’appunto Michel Angelo Grancini, di cui proprio Legrenzi cercò di succedere, senza riuscirvi, come organista al Duomo di Milano.
Ecco che cosa vuol dire coniugare la passione dell’interprete con il rigore scientifico del musicologo, fornendo quindi una discografia come se fosse un corso di lezioni sonore a livello universitario o conservatoriale (e da qui si può comprendere meglio per quale motivo abbia utilizzato il termine di “ricerca centrifuga”). Inoltre, non è certo esagerato affermare che Giovanni Acciai e i componenti della Nova Ars Cantandi abbiano “resuscitato” un musicista come Michel Angelo Grancini, se si tiene conto che a tutt’oggi il suo nome, nel panorama discografico, appare in due, dicasi due, dischi che presentano brani di autori vari, oltre a un disco dello stesso Acciai e della Nova Ars Cantandi, risalente al 2019 e live, in cui presentarono una parziale esecuzione di codesti Fiori musicali. Quindi, quello pubblicato dalla Da Vinci Classics è in assoluto il primo progetto discografico dedicato interamente ed esclusivamente a quello che il musicologo e studioso di musica sacra Giuseppe Biella ha definito il musicista milanese più illustre del Seicento.
Facendo affidamento sulle consuete e approfondite note di accompagnamento stilate da Giovanni Acciai, vediamo di capire prima di tutto chi fu Michel Angelo Grancini, a cominciare dalla sua data di nascita che può essere stabilita nell’anno 1605 grazie al certificato di morte conservato fino ai nostri giorni. Invece, non si sa nulla della sua famiglia e della sua prima educazione anche se, grazie alle sue innegabili doti mostrate in campo musicale, sappiamo che a soli diciassette anni Grancini fu nominato organista presso la chiesa di Santa Maria del Paradiso, all’epoca posta nel centro storico di Milano. Le sue capacità esecutive furono ulteriormente confermate nel 1624, quando il nostro autore divenne organista anche della chiesa del Santo Sepolcro, sede degli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo, una congregazione fondata nel 1578 dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Borromeo, uno dei più accaniti nemici in campo cattolico della Controriforma. La scalata alla notorietà organistica non si fermò però qui, poiché quattro anni dopo Grancini si trasferì nella chiesa di Sant’Ambrogio Maggiore per ricoprire tale incarico.
Fu proprio durante questi ultimi anni che all’organista si affiancò anche l’attività di compositore, visto che Grancini pubblicò le sue prime raccolte di musica sacra, vale a dire l’Armonia Ecclesiastica de Concerti, a una, due, tre e quattro voci, op. I, stampata nel 1622; Il secondo libro de Concerti, a una, due, tre e quattro voci op. II (1624); una terza opera, andata perduta; e le Messe, Motetti et Canzoni a otto voci, op. IV (1627). È indubbio che, oltre ad essere un notevolissimo organista, il fatto che il compositore milanese avesse pubblicato tali opere, gli permise di accedere all’impiego più prestigioso che un musicista all’epoca potesse ambire, quello di ricoprire uno dei due incarichi di organista presso il Duomo di Milano, che Grancini riuscì a mantenere per ben vent’anni, prima di essere promosso, nel 1650, maestro della cappella della cattedrale, permettendogli di assumere lo status di principale compositore milanese incaricato dell’apporto musicale per i maggiori eventi politici e civili della città, cosa che fece fino alla morte, avvenuta il 16 aprile 1669.
Michel Angelo Grancini fu uno di quegli artisti che dovettero affrontare con la loro vita e la loro opera l’immane sciagura della peste, che flagellò l’Italia settentrionale tra il 1629 e il 1632, e che vide Milano particolarmente colpita (la lettura, in tal senso, de I promessi sposi di Manzoni potrebbe aiutare a comprendere meglio che cosa rappresentò tale evento… ). Eppure, Grancini non venne mai meno al suo incarico e alla sua missione creativa, producendo pagine di musica sacra, esclusivamente dedicata al servizio liturgico consueto per la chiesa milanese.
Per quanto riguarda i Novelli fiori ecclesiastici concertati nell’Organo all’uso moderno, […] divisi in Messa, Salmi, Motetti, Magnificat, et le Letanie della Madonna, a quattro voci op. IX, pubblicati a Milano da Giorgio Rolla nel 1643, si tratta di un’antologia di brani in grado di soddisfare qualsiasi tipo di esigenza liturgica, incarnando un repertorio ideale per servizi specifici come la Messa e l’Ufficio divino. Non per nulla, questa raccolta ingloba mottetti (Exultemus in Domino, Ecce nunc benedicite, Jubilemus omnes, Audite haec omnes gentes, Exultate gaudio), salmi (Domine ad adjuvandum me, Dixit Dominus, Confitebor tibi Domine, Beatus vir, Laudate pueri Dominum, Laudate Dominum omnes gentes), oltre a un Magnificat, primo tono, e a un altro breve Magnificat, terzo tono, unitamente a una Messa concertata (non inclusa in questa registrazione) e le Litanie della Madonna, capaci di servire, alla bisogna, a tutti gli scopi nell’ambito delle funzioni religiose.
Giustamente, Giovanni Acciai mette in rilievo un particolare assai interessante, che riguarda la dicitura che appare sul frontespizio della stampa, la quale recita testualmente “Concertati nell’organo all’uso moderno”, come si può leggere facilmente sulla cover del disco. Un particolare che si deve ricollegare al fatto che dodici anni prima, quando Grancini fece stampare la sua sesta opera (Sacri fiori concertati a una, due, tre, quattro, cinque, sei et sette voci con alcuni Concerti in Sinfonia d’Istromenti et due Canzoni a quattro, pubblicata a Milano, sempre da Giorgio Rolla), fu rimproverato dalle autorità ecclesiastiche per aver apertamente aderito al cosiddetto stylus modernus, sorto sulla scia della grande lezione monteverdiana. Oltre ad amareggiarlo profondamente, il compositore milanese pagò un ulteriore dazio quando pubblicò i Novelli fiori, in quanto sebbene il suo riferimento all’uso moderno apposto per questa raccolta fosse quasi fuori posto, poiché le quattro voci sostenute dall’organo non mostravano atteggiamenti lessicali inappropriati o comunque tali da giustificare un atto di censura, fu sufficiente per suscitare il biasimo da parte della chiesa milanese del tempo solo per il fatto che Grancini aveva osato usare il termine “moderno” sul frontespizio della stampa. A condannarlo, dunque, non fu la musica da lui composta in quest’opera, ma l’aver “intellettualmente” aderito al “manifesto” rappresentato dalle nuove esigenze stilistiche e formali che si stavano affermando intorno alla metà del Seicento nel Nord Italia, anche se questo vento di rinnovamento non aveva ancora lambito il territorio milanese, roccaforte di quelle bieche e becere regole sancite dal concilio tridentino e rappresentate musicalmente dalla concezione polifonica palestriniana, contro la quale lo stylus modernus, incarnato dal canto monodico e dallo stile concertato, stava ormai sovvertendo radicalmente il linguaggio musicale del tempo.
Come sovente accade e non solo per quanto riguarda l’arte musicale, Grancini, da vittima sacrificale, a quel punto si sentì in dovere di offrire il proprio atto di contrizione rappresentato dalla sua decima opera, la Musica Ecclesiastica da Cappella a quattro voci, divisa in Messe, Motetti, Magnificat. Aggiuntovi il Basso continuo a beneplacito per l’organo, stampata sempre da Giorgio Rolla nel 1645 (vi ricordate per quale ragione Dmitrij Šostakovič nel 1937 compose la Quinta sinfonia? Corsi e ricorsi storici… ). Un atto di contrizione che lo portò a “lubrificare” ulteriormente il tutto sia attraverso un mirato e “ortodosso” titolo, sia a dedicare l’opera a un altro bieco censore ecclesiastico e nemico giurato della Riforma, l’arcivescovo cardinale Cesare Monti, che aveva preso le redini della chiesa milanese dopo la morte, avvenuta nel 1631, del predecessore Federico Borromeo, quest’ultimo cugino di Carlo Borromeo, il quale pubblicamente definì, proprio per aver appoggiato lo stylus modernus monteverdiano, “effeminata” la musica di Grancini.
Di “effeminato”, però, nel senso dispregiativo del termine, i Novelli fiori non hanno nulla, ma rappresentano un meraviglioso esempio di quel processo evolutivo fornito dalla seconda prattica monteverdiana, la quale consigliava di fornire al testo cantato quella propulsione, quella forza, quell’espressività supreme, in modo da scatenare nell’ascoltatore moti di sensualità emotiva. Per Monteverdi e per coloro che vennero dopo di lui, seguendo le sue orme, la parola fu una sorta di pontifex, uno straordinario tramite, un potentissimo transfert semantico, la cui profondità e il cui fascino dovevano essere esaltati attraverso la sua enunciazione, sempre perfettamente intellegibile e pervasa da un’irresistibile comunicabilità. E tutto ciò per donare emozione, mettere a nudo il cuore, generare stupore e commozione nell’ascoltatore.
E Grancini, in ciò, fu primissimo attore e continuatore, anche se la sua innovativa e, per certi versi, rivoluzionaria opera in nome delle possibilità esplorative fornite dalla seconda prattica cessarono nel momento stesso in cui il “movimento creativo” cedette il passo al “regime retrivo”, ossia quando nel 1659, assumendo l’incarico di maestro di cappella del duomo di Milano, il compositore milanese divenne servo e servitore dell’asfissiante nomenklatura ecclesiastica tout court.
Tornando nello specifico dell’opera nona, Giovanni Acciai fornisce delle preziose informazioni per far comprendere meglio, soprattutto ai non addetti e ai non specialisti, la bellezza creativa e formale di questa raccolta, che riguardano l’intonazione dei testi dei Salmi, in cui Grancini segue due metodi compositivi distinti: il primo, dato da un procedimento costante, in cui i versi poetici di David vengono resi attraverso un’unica, ampia sezione che si arricchisce di un flusso costante di imitazione tra le parti; il secondo, invece, è fornito da un procedimento a più sezioni (come nel caso di Domine, ad adjuvandum, Dixit Dominus, Beatus vir, Magnificate delle Letanie della Madonna), che porta ad ottenere un contesto interpretativo più dinamico e variegato, in quanto le singole sezioni sono caratterizzate da uno stile, da una metrica e da un’agogica contrastanti, il tutto ulteriormente esaltato dalla “discreta” presenza dello stile concertato, tenendo conto che anche i mottetti presenti nell’opera nona vengono trattati ed eseguiti con il medesimo approccio.
Senza approfondire ulteriormente l’analisi compositiva dei Novelli fiori, ma invitando in tal senso a un’attenta lettura di quanto Giovanni Acciai spiega minuziosamente, c’è da fare un’ulteriore considerazione che ci permette di apprezzare la personalità e l’arte del compositore milanese, ossia quella di aver saputo mediare, offuscare tra le pieghe del suo fare musica, pur nel pieno rispetto delle dogmatiche regole controriformiste, il suo impellente bisogno di rendere sempre chiaro, diretto, immediato il processo declamatorio del testo religioso, privilegiando l’espressività che covava nell’affascinante linea melodica, a scapito del palestriniano articolarsi della natura contrappuntistica. Non per nulla, lo stesso Acciai si spinge nel sostenere che la poesia della musica granciniana in fondo è la poesia di un linguaggio parlato (ossia quanto di più luterano si possa immaginare!), ma elevato al vertice di un’intensità espressiva tale che non ha nulla di riformistico, facendoci immaginare che l’arte musicale del nostro autore possa essere messa sullo stesso piano di quella oratoriale di stampo ciceroniano, in quanto anche quest’ultima, per sua manifesta perfezione formale e semantica, assume i connotati di una vera e propria poetica.
Un ultimo particolare e che si va, come vedremo, a unire alla lettura fatta dai componenti della Nova Ars Cantandi, ossia quello che riguarda in Grancini il rapporto tra le parole e il suono ottenuto tramite la loro declamazione/canto. Traendo spunto proprio dalla potenza oratoriale della quale si fa forza, risulta incontestabile il fatto che il suo rendersi atto rientri nei canoni di una pura recitazione, manifestandosi in nome di un’innegabile eloquenza declamatoria. Personalmente, sono sempre stato convinto che un fare arte in tal modo sia fondamentalmente un atto che produca teatralità, in quanto la parola che affiora, crea inevitabilmente spazio e tempo, ossia è fautrice di una rappresentazione tale da rasentare quanto avviene su un palcoscenico teatrale o lirico. Da qui l’odor di satanismo del quale, come ricorda ancora sagacemente Giovanni Acciai, lo stesso Carlo Borromeo metteva in guardia fedeli e sgherri della fede, ammonendo testualmente: «Il diavolo abita nei bordelli, nelle osterie, nei palcoscenici, nei teatri».
Quindi, e qui affronto finalmente quanto fatto dalla Nova Ars Cantandi, da Ivana Valotti all’organo e da Giovanni Acciai alla direzione, signore e signori, benvenuti a una suprema rappresentazione in cui la parola/canto si trasforma in quel tanto temuto teatro osteggiato dal nefasto intento borrominiano. Sono ormai svariati decenni che ascolto musica, facendo riflessioni e dispensando i relativi omaggi o vituperi, ma mai mi era capitato di assimilare acusticamente una tale forza fonica trasudante bellezza, l’ineguagliata capacità di costruire, con la potenza della parola (come non rammentare quanto scrisse Heidegger sulla poesia di Hölderlin?), un teatro dell’anima e del cuore. Sì, perché quanto sono riusciti a esprimere (e qui voglio ricordare i loro nomi, Alessandro Carmignani al cantus, Andrea Arrivabene all’altus, Gian Luca Ferrarini al tenor e Marcello Vargetto al bassus) i componenti dell’ensemble rappresenta, a mio modo di sentire, il loro apice assoluto in fatto d’interpretazione (e chi scrive ha avuto modo di ascoltare praticamente tutta la loro nutrita discografia): il gioco dei rimandi, il loro sfumarsi preciso e “vaporoso” allo stesso tempo, la prodigiosa lama dei loro attacchi, la capacità di trasformare l’atto declamatorio come se fosse un dipinto in perenne movimento (ecco il perché dell’importanza della parola che diviene suono in Grancini!), il far sì, e ciò può essere colto solo attraverso un reiterato ascolto sistematico del disco, che lo stesso respiro divenga πνεῦμα artistico, vero e proprio ātmanvedico, ossia nucleo portante di ciò che viene per l’appunto soffiato, dando così vita al verbo stesso, rende assolutamente unica questa registrazione.
Va da sé che l’apporto all’organo positivo di Ivana Valotti ha rappresentato alle mie orecchie un discretissimo “vestire gli ignudi” sonoro, nel senso che un apposito ascolto dovrebbe essere fatto concentrandosi esclusivamente sul suo accompagnare, in quanto è riuscita a manifestare il concetto del basso continuo per quello che idealmente avrebbe dovuto essere nella sua concezione teorica applicata al barocco, ossia contemporaneamente indispensabile e invisibile (o, per meglio dire, inascoltabile), supremo ossimoro di un qualcosa che si avverte nel momento stesso in cui non è più avvertibile. Mi dispiace soltanto per una cosa, che di questa registrazione non ci sia (probabilmente) anche il debito video, perché avrei voluto assistere al gesto direttoriale di Giovanni Acciai, in quanto credo, anzi ne sono sicuro, che il musicologo e direttore sia ormai giunto a realizzare una gestualità “oratoriale”, un Cicerone capace di indossare i mirabili panni di un musicus rinascimentale, che declama con le mani e con le espressioni del volto.
Un’ultimissima considerazione: se negli anni Trenta dello scorso secolo, i tedeschi, musicisti e no, venivano a Milano per capire come si dovesse dirigere il Tristan und Isolde wagneriano sotto la bacchetta di Victor De Sabata, allo stesso modo gli attuali paladini d’oltralpe del fare musica in ambito filologico dovrebbero prendere la briga di venire ad ascoltare dalle nostre parti Giovanni Acciai, Ivana Valotti e i componenti della Nova Ars Cantandi. Avrebbero sicuramente molto da imparare.
Ovviamente, Disco del Mese di luglio per MusicVoice (ma dovrebbe essere Disco dell’Anno), per quella che è una delle più straordinarie registrazioni in assoluto di musica barocca di tutti i tempi. E che diamine…
La presa del suono di Jean-Marie Quint, che è anche un raffinato violoncellista barocco, è il cioccolatino finale che conclude alla grande un pasto in uno dei migliori ristoranti a tre stelle della Guida Michelin. Questo perché catturando il suono tra le volte della Basilica Palatina di Santa Barbara a Mantova, luogo prediletto per le registrazioni dell’ensemble, è riuscito a restituire in modo assai efficace quell’idea di teatralità declamatoria, fondamentale per rendere il canto di Grancini. Ciò è avvenuto con una dinamica a dir poco palpabile per naturalezza, energia nucleare e trasparenza timbrica. Risulta quindi scontata, in sede di palcoscenico sonoro, la coinvolgente ricostruzione del luogo fisico, senza che vi sia un pur minimo alone di pernicioso e letale riverbero, con un sentore granitico degli interpreti che, posti a una discretissima profondità, emanano un canto, sempre certosinamente a fuoco, capace di irradiarsi in altezza e in ampiezza. L’equilibrio tonale non è da meno, e basti prestare attenzione alla distinzione dei registri canori rispetto a quelli dell’organo portativo, il quale, privilegiando la gamma medio-grave, non va mai a sovrapporsi o a inquinare le voci che, nel gioco dei rimandi, restano sempre perfettamente conchiuse e autonome nel loro disvelarsi. Infine, il dettaglio è prodigo di tonnellate di nero che circondano e potenziano la matericità, la fisicità degli esecutori, contribuendo ad esaltare ulteriormente la magia di questa registrazione.
Andrea Bedetti
Michel Angelo Grancini - Novelli fiori ecclesiastici concertati nell'Organo all'uso moderno, […] divisi in Messa, Salmi, Motetti, Magnificat, et le Letanie della Madonna, a quattro voci op. IX
Nova Ars Cantandi - Ivana Valotti (organo portativo) - Giovanni Acciai (direzione)
CD Da Vinci Classics C00895
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5