Non è mai facile analizzare la musica del violinista, direttore d’orchestra e compositore genovese Marcello Fera. E questo per svariati motivi che cerco ora di spiegare; innanzitutto, l’impossibilità di etichettarlo tassonomicamente in una precisa categoria o corrente della musica contemporanea attuale, sia per la peculiarità della sua produzione, sia per il fatto che artisticamente e culturalmente Fera risulta essere repellente a qualsiasi tipo di “identificazione”, in quanto fedele all’immagine di un battitore libero, di un cane sciolto a tutti gli effetti. Inoltre, la sua è una continua e instancabile ricerca di come si può manifestare il suono e di come si possa organizzarlo, combinarlo, assemblarlo a seconda della prospettiva esistenziale che vive al momento, un momento che viene poi metabolizzato in concatenazioni, anche di carattere extramusicale, in cui il suono rimanda a qualcosa d’altro o lo stesso qualcosa d’altro rimbalza su un’essenza sonora.
Ecco perché ritengo che se proprio si deve fissare la sua ricerca compositiva e artistica, lo si possa fare abbandonando l’idea standardizzata di un linguaggio musicale a favore, invece, di una “linguistica” del suono, se per linguistica, in senso lato, intendiamo lo studio scientifico di un linguaggio umano e delle strutture che ne derivano, questo per il semplice fatto che la musica che Marcello Fera crea ormai da decenni è un approdo di diverse tendenze, di strutture che non sono mai univoche o scolpite nel tempo e nello spazio, ma tendenti ad essere perennemente cangianti, mutevoli, lemmi sonori capaci di dare vita a un lessico nel quale si agita un glossario di sensazioni che l’artista genovese cerca non di catturare e riproporre, ma solo di portare fuggevolmente in superficie, anche per un solo attimo.
Tale fuggevolezza diviene poi un elemento a dir poco critico, perfino inquietante, quando questi lemmi sonori devono forzatamente, così vuole la fisica acustica, abbandonare il mondo della stasi a-sonora per essere rappresentati in enti percepibili, ossia nel momento in cui sono strappati dal mistero del silenzio per diventare suono. E in ciò non posso che dare pienamente ragione al musicologo Guido Barbieri con quanto scrive nelle note di accompagnamento all’ultimo disco di Marcello Fera, intitolato Piccoli Arcanie pubblicato dalla Da Vinci Classics, nel quale sono raccolti i risultati compositivi di due decadi, esattamente dal 2003 al 2023, nel campo della musica cameristica. Barbieri, all’inizio del suo intervento critico, focalizza l’attenzione dell’ascoltatore su una celebre affermazione di Debussy, secondo la quale «La musica è quella cosa che nasce dal silenzio, sosta per qualche istante davanti a noi e poi torna nuovamente nel silenzio». Un’affermazione che può permettere a chi si avvicina alla musica di Marcello Fera di comprenderne quantomeno i presupposti ideali ed estetici del suo comporre che, è bene ricordarlo, si pone come un tentativo di anestetizzare il trauma, sublime e terribile allo stesso tempo, del momento stesso in cui il silenzio cede il passo al suono, e il conseguente ritorno del silenzio, dopo che il suono cessa acusticamente di esistere, per restare solo come onda mnemonica in chi ascolta.
In fondo, questo modo di considerare il suono, di strapparlo per un istante dal silenzio, per poi ricondurlo al silenzio stesso, fa di Marcello Fera, per citare il titolo di un saggio di Elias Canetti, un “testimone auricolare”, ossia di chi resta in ascolto per produrre suoni. Ecco perché il compositore genovese, a mo’ di epigrafe, nel booklet ha voluto riportare un suo pensiero relativo a ciò che presenta questo disco e che recita testualmente: «Piccoli Arcani si riferisce all’idea che la musica abiti una dimensione tutta sua e che in fondo, benché ne riconosciamo intimamente la logica, sia irriducibile ad essere compresa interamente attraverso parole e concetti. In questo senso ogni composizione, ogni accadimento musicale, ci parla e ci interroga al tempo stesso, come un arcano».
Alla luce di quanto asserito, le ventuno tracce che appartengono a questo CD sono altrettanti interrogativi attraverso i quali Marcello Fera cerca di rifuggire a vane tentazioni di logica costruita sulla forza di un logos che si deve necessariamente arrendere di fronte al materializzarsi dell’affioramento sonoro. Da bravo e compito “testimone”, l’autore non fa altro che attingere a momenti, emozioni, accadimenti personali o interpersonali, rigurgiti di tradizioni della propria regione e della propria città per offrire in pasto agli stessi accadimenti di chi ascolta un momento di confronto che di dialettico non ha nulla e che non deve avere nulla. Un testimone, fino a prova contraria, non deve comunicare, ma solo apportare, la sua missione ha contorni precisi oltre i quali non è lecito andare. Se vogliamo metterla su un piano altissimo, la sua musica da camera, ma non solo, è una musicalisches Opfer, un offrire, appunto, com’era d’abitudine in epoca barocca, poiché a ben vedere, Fera è e resta fondamentalmente un musicista barocco, e non solo perché, come fa notare ancora Guido Barbieri, in lui si fondono la figura del compositore e quella dell’interprete, ma soprattutto perché le sue creazioni sono alla ricerca se non di una logica conoscitiva e semantica, quantomeno di una logica formale capace di reggere al disgregarsi delle tentazioni concettuali, di quelle anomalie ermeneutiche per le quali tutto dev’essere decodificato e metabolizzato, come se la musica fosse un transfert per asserire o meno ciò che si vuole. Forma come rispetto, come elemento in grado di r-esistere, come testimonianza (ancora) per sopperire alle secchiate di vomito cerebrale e interpretativo.
La cartina al tornasole di ciò è dato da cinque dei dodici Canti dal silenzio per violino solo, composti tra il 2020 e il 2022, presenti nella tracklist (i brani in questione sono Aframunda, Interludio alla voce, Sensa Sciou, All’intorno e Segno); questi Canti sono nati durante il nefasto e lungo periodo della pandemia e dalla personale esperienza di Marcello Fera di recarsi per un mese e mezzo ogni mattina in una piccola chiesa di Merano, aperta al pubblico, per tenere dei concerti all’insegna della spontaneità e avulsi da ogni tipo di programmaticità. In quei frangenti, è come se il suo violino si fosse trasformato in un sensibilissimo sismografo con il quale estrapolare materia non silente, agglomerati di suoni che venivano cullati dalle consonanze e dalle dissonanze dello strumento, sostenuti da inviti ritmici o ricusati da rigurgiti di silenzio (in ciò, Segno è a dir poco illuminante). Canti, non “dialoghi”, suoni che rimandano quindi alla voce, non necessariamente del violino, ma di un canto qualsiasi, anche solo pensato, non conclamato, il cui osare acustico è senso continuo di rimando (quanto della poetica montaliana si cela in ciò?): un ricordo, un profumo, un’immagine, un soliloquio in cui la dichiarata entropia fonica è già foriera di un auspicato ritorno a quel silenzio dalla quale è giunta.
Ma il violino non è la sola voce (scrivendo della musica di Marcello Fera, non mi piace usare il termine di strumento musicale, ma di “voce” in senso più generico, in quanto il suo sfruttamento esula dal contesto maggiormente ristretto), in quanto il compositore genovese, in questo disco, lo abbina al violoncello di Nathan Chizzali, Francesco Dillon e Alberto Casadei in tre brani distinti, In risposta, Perdue e La sacra conversazione. Tre brani assai differenti gli uni dagli altri, in quanto si va da una dimensione in cui il colloquio sembra instaurarsi placidamente, organicamente, soavemente tra le due voci, come accade nel pezzo In risposta, all’aggregazione di suoni disarticolati, in cui le voci pur confrontandosi si mostrano più autonome e autoreferenziali, e ciò avviene in Perdue, fino a un’esasperata ambivalenza strutturale che pervade La sacra conversazionein cui si avvertono perfino profumi glassiani da parte del violino nella coda, ma il cui costrutto, dapprima esasperato, fratturato, gutturato, per poi declinarsi in una parvenza di rotondità timbrica, si basa su un terzo elemento “incomodo”, quello fornito proprio dai versi della poesia che porta lo stesso titolo di cui è autrice la poetessa bolzanina Roberta Dapunt.
Come cerchi concentrici che tendono ad allargarsi con il progressivo coinvolgimento timbrico di altre voci si proiettano gli altri brani di questa silloge, così al violino e al violoncello si aggiunge un’altra voce per arco, il contrabbasso, quello di Silvio Gabardi, che danno vita alla Suite in sei parti Le due vite, a Ode, a Lidia Spina, a Selvagia Fera, a Siebzig Karat e a That’s it. La Suite Le due vite, è lo scheletro sonoro di un melologo tratto dalle Autobiografie delle leggera di Danilo Montaldi, una serie di brevi racconti dedicati alla cosiddetta ligera, come furono definite a livello dialettale quelle comunità formate da piccoli criminali, ladri, prostitute diffuse tra Milano e Cremona fino al primo dopoguerra. Un mixdi tango fumoso, di illanguidito minimalismo, di ritmi a serramanico in cui si dibattono alcuni “dannati della terra” alla Frantz Fanon ed echi di Revolveratee Nuove revolverate anarchiche alla Gian Pietro Lucini; anche qui parole, versi, immagini scritte lucidati a nuovo con unguenti di timbri smaglianti, saettanti (con le arcate del violino ci si può tagliare, se non si fa attenzione).
Di particolare interesse è la rivisitazione “antica” che Marcello Fera fa con Lidia Spina e Selvagia Fera, il primo come ammirata citazione da Lidia spina del mio core, un brano di Claudio Monteverdi per soprano, contralto, basso, due violini e basso continuo tratto dagli Scherzi musicali del 1607, e il secondo in guisa di suite concentrata di tre ballate trecentesche dello “stil novista” Francesco Landini: Selvagia fera, Muort’oramaied Echo la primavera; il silenzio sa essere anche ancestrale e immemore, poiché tramite esso tutto svanisce e tutto ritorna e Marcello Fera prende una manciata di ciò che non merita di svanire e lo fa ritornare, lo plasma, lo modella, lo forma, lo rispetta, lo ammira, lo svela, per poi riconsegnarlo nelle mani del Dio Silenzio.
L’irruzione della voce a fiato del clarinetto (quello del mago Gabriele Mirabassi) pone poi altre prospettive, altri modi osservare e di rendere sonoramente tale osservazione. Quindi, ecco, il breve e “secondo viennese” Hi Jack per violino e clarinetto, un dolcemente agghiacciante soliloquio a due, perfido fenomeno timbrico euclideo, con le rette delle due voci che si guardano dai finestrini dei rispettivi treni e, infine, il brano di apertura, Diaphonia per violino, clarinetto e violoncello, in cui il compositore genovese si ripresenta nei panni dell’orchestratore di immagini/suono che vanno ad appoggiarsi sulle immagini/vita[falsa]/morte[che dà vita/falsa] impresse nel documentario Fish di Elisabeth Hölzl, con il suono che va a diluirsi nella rappresentazione stereofilmica che mostra da un lato squarci d’alba del mercato del pesce di Catania e, a fianco, prodotti ittici pronti ad essere venduti/acquistati, trofei carnali e consumistici, prodromi della nostra esistenza che è essa stessa un dilemma, un Dia- che si dibatte tra ingrosso e dettaglio.
A livello di lettura, con interpreti di tale caratura, l’esecuzione diviene un mero dettaglio: lezione di tecnica, di espressività, di gioco psicologico gettato in faccia all’ascoltatore mediante una paletta timbrica in perenne mutazione, esaltazione del mistero di un suono che è emblema del passaggio continuo e irrealizzabile tra sfera del silenzio e concretizzazione del non-silenzio (sono convinto che se dovessi scrivere musica, Marcello Fera si offenderebbe a morte). Preso singolarmente o in presenza di altre voci più o meno narranti, più o meno spiazzanti, il violino di Fera assume sempre più la consistenza di una bacchetta biforcuta da rabdomante/testimone canettiano, con il compositore, direttore d’orchestra e violinista che dovrebbe, a mio modestissimo avviso, aggiungere anche il ruolo di auscultatore, poiché capace come pochi di arrotolarsi la manica musicale (questa sì) per immergere il braccio nel mare immoto del silenzio e sollevarla, osservando con curiosità e finta freddezza le gocce che colano, fameliche nel tornare da dove sono state strappate, giusto il tempo di fissarle e tramutarle in suono. Ossia le ventuno tracce che fanno parte di Piccoli Arcani.
Giuseppe Scali, per La sacra conversazione, e Simon Lanz, per gli altri brani, si sono occupati della presa del suono. Complessivamente, il risultato è più che lusinghiero, in quanto la dinamica è assai corposa e adeguatamente veloce, senza perdere in naturalezza, a tutto vantaggio delle sfumature timbriche enunciate dai vari strumenti. Ne consegue un palcoscenico sonoro in cui interpreti e strumenti risultano alquanto ravvicinati, senza però dare luogo a una ricostruzione scorretta e poco veritiera, tenuto conto che vengono sempre a trovarsi al centro dei diffusori, irradiando un suono apprezzabile anche in ampiezza e in altezza. Buono anche l’equilibrio tonale, che presenta una notevole pulizia nei registri (un esempio è dato da come il registro medio-grave del contrabbasso non soverchi mai quello degli altri strumenti) e il dettaglio, infine, trasmette un senso di piacevole e accurata matericità.
Andrea Bedetti
Marcello Fera – Piccoli arcani - Chamber Music 2003 - 2023
Trio Conductus (Marcello Fera, violino - Nathan Chizzali, violoncello - Silvio Gabardi, contrabbasso) - Gabriele Mirabassi (clarinetto) – Francesco Dillon & Alberto Casadei (violoncello)
CD Da Vinci Classics C00876
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5