La musica contemporanea, a partire dalla seconda metà del Novecento, è diventata inevitabilmente più ostica, più difficile nel suo ascolto non solo per il fatto di aver perso progressivamente l’utilizzo della melodia, rendendo più arduo il suo approccio da parte di chi non conosce la “grammatica musicale”, ma anche per via di un ulteriore ostacolo, sempre che si possa definire tale, quello che lega in modo indissolubile la musica alla conoscenza dei meccanismi culturali, interdisciplinari che ne hanno determinato la creazione da parte del compositore. Questo significa che per comprendere l’articolazione di suoni/rumori che fanno parte di quella determinata pagina bisogna (bisognerebbe) conoscere aprioristicamente le sue componenti metamusicali, vuoi che siano letterarie, pittoriche, scientifiche, anche se poi viene a mancare pur sempre la sua acquisizione diretta, data dalla lettura della partitura.
Sia ben chiaro, il legame musica/acquisizione metamusicale fa parte storicamente dell’intero excursus della musica colta occidentale, dal canto gregoriano fino al tardoromanticismo, ma la sua quasi costante fruibilità d’ascolto, data dalla presenza “rassicurante” della linea melodica, permette a chi non conosce il linguaggio della musica, di saltare a piè pari ciò-che-si-cela-dietro-il-suono, vuoi che sia la sua grammatica fatta di segni sul pentagramma, vuoi le motivazioni extramusicali che hanno portato alla sua genesi e alla sua creazione. Però, a partire dalla musica post-weberniana, questo trucchetto viene impedito di fatto da un’intrinseca impossibilità di accedere a un mondo di suoni/rumori che abbisognano quantomeno di comprendere adeguatamente i motivi, i meccanismi, le chiavi di volta che il compositore ha adottato e impiegato per dare vita a una sua determinata opera.
Questo processo musica/conoscenza metamusicale è a dir poco ineludibile in uno dei più originali compositori del secondo Novecento, l’americano John Cage, il cui (immenso) catalogo è in massima parte vincolato da questo meccanismo che impone all’ascoltatore di acquisire a priori quelle connotazioni filosofiche/artistiche/letterarie che permisero al geniale musicista statunitense di dare vita a opere il cui ascolto del tutto “vergine”, a-conoscitivo, genera il più delle volte un elemento di repulsione, di rifiuto, di distacco da parte di coloro che le ascoltano. Se la non-conoscenza implica un ascolto ignorante della musica colta occidentale, la non-conoscenza dei procedimenti interdisciplinari della musica contemporanea, come nel caso di quella di John Cage, causa nel suo non-ascolto un suo rifiuto netto, implacabile, rendendola di fatto inavvicinabile.
Un inevitabile inavvicinamento che si può presentare puntualmente anche nel caso della registrazione fatta dalla Da Vinci Classics relativamente al sesto volume dell’interessante progetto discografico AboutCAGE, voluto portato avanti da Sergio Armaroli, che intende presentare un nutrito numero di opere del grande compositore californiano. Questo sesto disco porta il titolo di Renga, un termine che nella letteratura giapponese rappresenta uno stile poetico sorto nel XV secolo e che consiste in un componimento che coinvolge più autori e che alterna due tipi di strofa (definita ku), entrambe tipiche della metrica tradizionale, una composta da diciassette more e l’altra da quattordici more, quest’ultima suddivisa in due versi di sette. Ogni poeta che partecipa al Renga prosegue la composizione inserendo alternativamente uno dei due tipi di strofa, facendo attenzione che la sua strofa sia diametralmente opposta nel suo significato rispetto a quella che la precede, scritta da un altro autore del gruppo. Questo espediente ha un preciso obiettivo, quello di aprire le menti non solo da parte di colui che compone i versi, ma anche di coloro che li leggono o li ascoltano, ampliando la loro percezione emotiva e cognitiva.
Nell’omonimo brano di John Cage, composizione scritta tra il 1975 e il 1976, unitamente ad Apartment House 1776, vi è la medesima volontà di ricreare un’opera volutamente “imprevedibile” per ciò che riguarda la sua semanticità, facendo sempre affidamento alla proverbiale concezione aleatoria (si pensi all’uso che il musicista americano fa dell’I-Ching), che nel caso di questo lavoro si concretizza mediante l’apporto dato dal trombone e dalla tuba di Giancarlo Schiaffini, dal pianoforte e dal pianoforte preparato di Francesca Gemmo, dagli electronics di Walter Prati e dalle percussioni e dai natural sounds dello stesso Sergio Armaroli.
Per comprendere l’entità sonora non solo di questo lavoro, ma anche di moltissimi altri del geniale autore californiano, bisogna tenere a mente una sua celebre affermazione: «I rumori della 6th Avenue sono il mio pianoforte»; quindi, il rumore proveniente dalla strada (Cage a New York abitò in un palazzo che faceva angolo con la 6th Avenue e la 18th Street), qualunque esso fosse, per il compositore era degno di essere equiparato al suono di uno strumento nobile come il pianoforte. E ciò si evince perfettamente in Renga, nel quale si assomma un altro elemento interdisciplinare, metamusicale, rappresentato da frasi e scarabocchi che lo scrittore e filosofo trascendentalista David Herbert Thoreau, celebre per i suoi scritti in cui esalta il concetto della disobbedienza civile, ebbe modo di annotare nel suo taccuino. Questa “trasmigrazione di intenti” Cage giunse al punto di apporla anche a livello grafico nella partitura di Renga (il pentagramma presenta 361 disegni a volte sovrapposti tratti da quelli di Thoreau), dando così modo agli strumenti impiegati di tradurre a livello sonico liberamente e in modo casuale quanto annotato dallo scrittore e filosofo americano. Così come i “ku timbrici” emessi di volta in volta dagli strumenti, ai quali si unisce l’elemento, altrettanto fondamentale in Cage del silenzio, rappresentato da puntuali cesure, si collegano idealmente alla rappresentazione ideogrammatica di quelli presenti nei Renga della poesia giapponese.
Ecco perché quest’opera unisce sincreticamente la rappresentazione di quelle forme naturali schizzate da Thoreau, da intendere nell’accezione marxiana di Dinge, di “cosa-non-creata-dall’uomo”, con l’espressione squisitamente umana del verso poetico, dando luogo a una continuità che è equilibrio, sintesi ideale di ciò che è insito e di ciò che è al di fuori dell’umano. E qui interviene, ineluttabilmente, la lettura/ricreazione effettuata nella registrazione della Da Vinci Classics da parte dei quattro interpreti, consci del fatto di avere sulle spalle un lavoro enorme, un riempimento disarmante del segno grafico da tramutare timbricamente nello spazio che li circonda e che investe parallelamente quello dell’ascoltatore. In questi casi, come sovente avviene nella musica di John Cage, l’interprete sostiene il ruolo di un Sisifo costretto a portare sulle spalle il peso di un masso in cui la dimensione musicale, che deve rendere con la propria sensibilità e la propria aderenza di perpetuatore, dev’essere in grado non solo di restituire ciò che il compositore americano suggerisce, ma anche di fornire un’autonoma corposità sonora, una propria anima timbrica tale da trasformare l’interprete in autore-di-se-stesso. In questo caso, Giancarlo Schiaffini, Francesca Gemmo, Walter Prati e Sergio Armaroli riescono pienamente ad essere convincenti autori-di-se-stessi, ampliando in modo più che adeguato la portata della loro interpretazione/creazione e confezionando un viaggio sonoro in cui l’entità del segno, del verso e del suono formano un pulsante crogiolo, un athanor alchemico di rara lucidità intellettuale.
La presa del suono, effettuata da Piergiorgio Miotto, è complessivamente valida, dotata di una dinamica capace di trasmettere la corposità, l’energia dell’atto ricreativo dato dagli strumenti usati, con i quattro interpreti ricostruiti in modo corretto all’interno del palcoscenico sonoro e con l’equilibrio tonale e il dettaglio che concorrono a rendere coinvolgente l’esperienza della lettura/ascolto.
Andrea Bedetti
John Cage – Renga
Giancarlo Schiaffini (trombone & tuba) - Francesca Gemmo (pianoforte & pianoforte preparato) - Walter Prati (electronics) - Sergio Armaroli (percussioni & natural sounds)
CD Da Vinci Classics C00357