Nel 1731, all’età di ventun anni, Giovanni Battista Pergolesi, alla fine dei suoi fruttuosi studi musicali fatti presso il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo di Napoli e dopo aver composto la sua prima opera, ossia l’oratorio in due parti La fenice sul rogo, o vero La morte di San Giuseppe, su testo di Antonino Maria Paolucci, dovette affrontare il saggio finale, musicando il dramma sacro in tre atti Li prodigi della divina grazia nella conversione e morte di san Guglielmo duca d’Aquitania, su libretto di Ignazio Maria Mancini. La rappresentazione ebbe luogo nel chiostro del monastero di S. Agnello Maggiore e il successo fu tale che al giovane musicista jesino si spalancarono le porte del Teatro San Bartolomeo, a quel tempo uno dei più popolari e importanti di Napoli, per il quale Pergolesi compose poi la sua prima opera seria, La Salustia.
Certo, oggigiorno, rispetto ad altre opere che hanno decretato la fama immortale di Pergolesi, vale a dire da Lo frate ‘nnamorato a La serva padrona, senza contare naturalmente lo Stabat Mater, il giovanile (ma si può parlare di periodo giovanile per un genio morto ad appena ventisei anni?) dramma sacro non gode degli stessi favori, ma ciò non ha impedito al direttore Mario Sollazzo, alla testa dell’ensemble filologico Alraune e a un’ottima pattuglia di voci soliste, di registrare nella versione di “dramma sacro”, in prima assoluta mondiale, quest’opera per l’etichetta discografica NovAntiqua Records. I motivi per i quali La conversione e morte di san Guglielmo duca d’Aquitania non ha mai ottenuto i medesimi onori lo spiegano molto bene, con preziose notizie e precisazioni, le dotte note di accompagnamento curate da Paolo V. Montanari (l’incisione presenta anche il libretto con il testo di Mancini, introdotto da un’altra nota esplicativa dello stesso Sollazzo, nella quale spiega le modalità interpretative adottate).
Tra i motivi non aiuta di certo il fatto che di quest’opera esistono due versioni diverse: il manoscritto conservato presso la Biblioteca del Conservatorio di Musica S. Pietro a Majella di Napoli, che presenta la partitura di un dramma sacro in tre atti, quindi una vera e propria opera teatrale, la quale presuppone cambi di costume, effetti scenografici e azioni fisiche, oltre a prevedere sette personaggi, di cui uno comico, il Capitano Cuosemo, che recita in napoletano; e altre quattro partiture manoscritte, conservate una a Parigi presso la Bibliothèque Nationale, una a Casale Monferrato presso la Biblioteca Civica “Giovanni Canna” e due a Londra, presso la British Library e la biblioteca del Gresham College, che presentano invece un oratorio in due parti decisamente più breve, dal titolo La conversione di san Guglielmo, Duca d’Aquitania, a quattro voci e senza nessun personaggio napoletano. Dalle ultime acquisizioni musicologiche si è ormai sostanzialmente concordi nel sostenere che la versione oratoriale sia posteriore al “dramma sacro” vero e proprio, una sorta di “riduzione”, per rendere più facilmente rappresentabile l’opera stessa, mentre la versione scelta per la presente registrazione, come si è già accennato, è per l’appunto quella del “dramma sacro” in tre atti, con la presenza del personaggio comico del Capitano Cuosemo.
A conferma della difficoltà ricettiva di quest’opera basterà ricordare che, dopo alcune rappresentazioni effettuate nel corso del Settecento, il dramma sacro è stato nuovamente presentato, in forma scenica nel 1942, ossia in piena guerra, in una rielaborazione curata da Corrado Pavolini e Riccardo Nielsen, con Alceo Galliera alla direzione. Per avere, invece, una ripresa basata su un’edizione critica si è dovuto attendere fino al 1986, quando Gabriele Catalucci e Fabio Maestri allestirono proprio la versione presente nel manoscritto conservato presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli (dalla quale ne è stata tratta una versione discografica della versione oratoriale pubblicata dalla Bongiovanni di Bologna), mentre altre rappresentazioni sono state fatte nell’estate 1989, non in forma scenica, al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, con Marcello Panni sul podio, e nel 1997 nella chiesa di San Marco a Jesi, con ancora Fabio Maestri che la diresse in forma drammatizzata, per la regia di Stefano Piacenti. Infine, quattro anni fa, al Festival Pergolesi Spontini di Jesi, l’opera è stata riportata anche sul palcoscenico teatrale, nella revisione critica curata da Livio Aragona, con la direzione di Christophe Rousset e per la regia di Francesco Nappa.
Giungendo al cuore della recensione in oggetto, che cosa distingue e valorizza la presente registrazione effettuata da Mario Sollazzo? Innanzitutto, quello di evidenziare un aspetto poco curato, soprattutto quando viene eseguita la versione oratoriale, vale a dire il notevolissimo spessore dato dalla drammaturgia musicale insita nell’opera. Non dimentichiamo, come sottolinea giustamente lo stesso Montanari nelle già citate note di accompagnamento, che Pergolesi a Napoli fu allievo di Leonardo Vinci, figura a dir poco leggendaria della musica barocca del tempo, uno dei padri putativi della Scuola napoletana, nella quale infuse quella tipica melodiosità della quale è permeata e che ne caratterizza il suo inconfondibile DNA. La melodiosità che contraddistingue il “dramma sacro” in questione, e qui sta il grande merito di Pergolesi (e parallelamente la presente registrazione), s’innesta nella forza espositiva del libretto di Mancini, il quale, a sua volta, si rifà, almeno allegoricamente alla temperie politica del periodo, quando a Napoli, a partire dalla fine del Seicento, si venne a creare un movimento intellettuale, ispirato alle concezioni filosofiche di Cartesio, Pierre Gassendi e Nicolas de Malebranche che, oltre al libero pensiero, mirò, almeno nelle intenzioni, ad ottenere l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa, fenomeno noto come “giurisdizionalismo” e rappresentato principalmente all’epoca dalla figura del giurista e storico napoletano Pietro Giannone, perseguitato dalla Santa Inquisizione e incarcerato a vita nel 1736. L’imperatore Carlo VI d’Asburgo, in qualità di re di Napoli, dimostrò fin da subito molta simpatia per le idee giurisdizionaliste, al punto che decise di far sequestrare i benefici e le rendite ecclesiastiche nel regno borbonico, coadiuvato da colui che aveva preso il posto di Giannone, l’avvocato Gaetano Argento, il che portò a un grave conflitto con papa Clemente XI. Quindi, il soggetto della vita di san Guglielmo Magno, di cui tratta il “dramma sacro” pergolesiano e che vede un regnante pentirsi di aver disobbedito alla Chiesa, rappresentò un chiaro riferimento per il pubblico partenopeo del tempo proprio alla figura di Carlo VI.
Da qui, nello svolgersi di tutta l’opera, e ciò anche nei recitativi, vi è sempre una febbrile pulsione, un’instabilità interiore dalla quale emerge instancabilmente questo elemento storico, questa capacità di restituire filologicamente tale dimensione conflittuale, di rendere una drammaticità che esula dalla semplice entità rappresentativa, quasi che il direttore e clavicembalista napoletano abbia voluto, con la piena compartecipazione delle voci e dell’accompagnamento orchestrale, raffigurare con i suoni l’incalzare della storia e delle sue influenze sull’uomo. Questa febbricità, questa “elettricità” interiore che si annida nel filone di tutta l’opera non solo viene mai meno, ma va a intervenire anche in una figura “stemperante” come può esserlo il ruolo comico incarnato dal Capitano Cuosemo (reso dallo stesso Mario Sollazzo con un’ottima resa “attoriale”), la cui dimensione “estraniante”, squisitamente “umana”, invece di rappresentare il tipico “elemento di rottura”, incarna lo strato sociale, la questione politica ed economica (per dirla con le concezioni marxiane) del tempo che vive, trasformando così la sua comicità in un’allusione drammatica.
Ecco, allora, che la lettura in questione del San Guglielmo di Pergolesi assume un contorno che non solo va ben oltre i confini restrittivi e “stilistici” di un oratorio, ma anche e soprattutto di un “dramma sacro”, la cui “verticalità” spirituale, o quantomeno religiosa, viene compendiata da una necessità “orizzontale”, in cui persino le figure di San Guglielmo, dell’Angelo, di San Bernardo, del Demonio, proprio sull’esempio di ciò che è stato detto sugli eventi storici, culturali e sociali di cui fu al centro Napoli tra il finire del Seicento e la prima metà del Settecento, assumono una valenza “carnale”, in cui la consistenza antropomorfica cede il passo a un’antropologia caratteriale, data per l’appunto dalla proiezione “orizzontale” all’interno della quale si muovono i personaggi e si svolgono le azioni.
Al di là dell’“elettricità” timbrica che permea tutta la lettura fornita dai vari interpreti, la dimensione sonora e canora risponde più che adeguatamente a un sentore artistico-musicale in cui il coinvolgimento di altre forme espressive (nelle note Montanari cita giustamente anche la potenza data dall’iconografia e dall’apporto pittorico riguardante la figura di San Guglielmo di Malavalle), sostiene a cementare la proiezione visiva data dal dramma, aiutando a fornire un ulteriore elemento ritmico che si delinea nel succedersi delle arie e dei recitativi, uniformando i vari segmenti e facilitando la coesione del tutto.
Oltre al già citato Sollazzo, nel ruolo di direttore, clavicembalista e Capitano Cuosemo, la prova offerta dagli elementi dell’ensemble Alraune risponde pienamente alle necessità espressive richieste da questo tipo di lettura, in cui la coesione esecutiva si deve sposare con la dimensione individuale dei vari strumenti che, di volta in volta, devono raffigurare sonicamente la psicologia, l’esistenziale dei personaggi chiamati sulla scena dell’ascolto. Tale coesione riguarda anche le voci soliste, a cominciare da quella del soprano Monica Piccinini nel ruolo di San Guglielmo (ricordiamoci del ruolo dei castrati all’epoca nelle opere sacre e non solo), che enuncia una debita tavolozza di inflessioni e di sensazioni, continuando con l’Angelo di Caterina Di Tonno, il San Bernardo di Carla Nahadi Babelegoto, l’Arsenio di Federica Carnevale, così come il possente Demonio di Mauro Borgioni e l’Alberto di Arianna Manganello.
La presa del suono riesce a restituire nella ricostruzione del palcoscenico sonoro la fisicità delle voci e degli strumenti, merito di una dinamica scevra da indebiti elementi coloristici o artefatti in fase di editing, restituendo in tal modo la necessaria realtà dei suoni, anche grazie a un equilibrio tonale mai invadente tra i vari registri vocali e strumentali, così come al dettaglio, più che sufficientemente materico nella resa fisica dei cantanti e degli strumenti.
Andrea Bedetti
Giovanni Battista Pergolesi - Li prodigi della divina grazia nella conversione e morte di san Guglielmo duca d’Aquitania
Ensemble Alraune - Monica Piccinini - Mauro Borgioni - Federica Carnevale - Caterina di Tonno - Carla Babelegoto - Mario Sollazzo (direzione)
3CD NovAntiqua Records NA39
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5