È sempre disagevole parlare di altre sfere artistiche, di altri interessi culturali che divengono fattivamente risultato plasmato in chi è già famoso e apprezzato per una sua specifica attività culturale. Come nel caso di uno dei maggiori compositori italiani del secondo dopoguerra, il milanese Carlo Alessandro Landini, che non ha mai nascosto la sua propensione verso altre forme d’arte e di conoscenza, a cominciare dalla saggistica e dalla poesia, quest’ultima coltivata come atto di suprema intimità intellettuale e formale.
L’ultima pubblicazione letteraria del compositore milanese è proprio un libro che raccoglie la sua trentennale produzione poetica, almeno quella che si conosce ufficialmente, dal titolo Stanze, formata esattamente da 432 ottave in endecasillabi, ossia il verso più puro ed equilibrato che esista nella poesia italiana, per un totale di circa tremilacinquecento versi, frutto di un’opera di filtro e di limatura, visto che l’autore in sei lustri ne ha scritti più di seimilacinquecento. Ottave che in buona parte rappresentano una riflessione, un cogitare ritmato su una sterminata serie di letture che Landini non ha mai abbandonato fin dalla giovinezza e che lo hanno portato a sperimentare un dono intellettuale che è riservato a pochi, ossia la concezione della biblioteca come labirinto enunciata da Borges o lo scrutare spaziale e temporale di una messe di titoli come quelli consigliati da Hermann Hesse in Una biblioteca della letteratura universale.
La poesia come forma di riflessione, quindi, o ancora meglio come forma nella quale lo spirito inquieto e insaziabile di Carlo Alessandro Landini trova un suo compimento, una sua realizzazione che in questo caso si avvale delle parole, così come nella sua musica le note si tramutano in una ricerca sistematizzante nella quale far coagulare influssi che vanno dalle conquiste armoniche della musica medievale fino a quell’“amore proibito” rappresentato da Darmstadt e dai suoi corsi estivi.
C’è da chiedersi quanto coraggio abbia avuto il compositore milanese nell’affidare agli occhi e alle coscienze altrui riflessioni così intime, così larvali nella loro purezza costruttiva; c’è quasi la sensazione che Landini abbia voluto mettersi maggiormente a nudo con queste Stanze piuttosto che con la sua musica, la quale è repellente a qualsiasi tentativo di intrusione vocale e testuale, una Heliopolis di jüngeriana memoria nella quale vi sono continui instancabili richiami a un’età dell’oro del suono. Certo, la tentazione di evidenziare assiomi, collegamenti, richiami tra la musica del compositore milanese e la sua via del rifugio poetico è forte, ma se si volesse ricercare la semplicistica musicalità nei suoi endecasillabi, un equilibrio sonoro (quello che contraddistingue il suo corpus compositivo) si farebbe solo un torto alla sua onestà intellettuale, al suo entusiasmo di ricercatore, alla sua curiosità di instancabile lettore, ma soprattutto si mancherebbe di rispetto al suo pensiero, alla sua capacità di usare le parole come senso di proiezione dei suoi sogni e dei suoi desideri, che trovano per l’appunto forma in un lessico che vuole essere altro da ciò che è convogliato nella sfera dei suoni.
Ma leggendo queste ottave, assaporandone la loro riflessione che diviene specchio della nostra riflessione, ci si rende conto di avere tra le mani un breviario estetico (i nomi degli autori, delle opere e dei personaggi citati supera i duecento) che, nell’atto stesso in cui il verso si tramuta in un cogitare, diviene dispensario di un sentimento etico (la concezione filosofica di Carlo Alessandro Landini vuole essere un superamento della visione kierkegaardiana della sfera estetica, di quella etica e, infine, di quella religiosa); ecco perché, usando una metafora visionaria, la sua espressione poetica è la rappresentazione di John Donne e di Paul Valéry che si stringono la mano davanti alla tomba di Michel de Montaigne.
D’altronde, la predisposizione, l’offerta votiva che le Stanze vogliono incarnare è di rappresentare un’ideale tour de la librairie, come quella in cui si rinchiuse volontariamente Montaigne nell’ultima parte della sua vita, per elaborare il suo pensiero e le sue opere, circondato dal conforto delle centinaia di volumi che si affacciavano dalle pareti di quel luogo; allo stesso modo, le ottave del compositore milanese vogliono essere un altro modo di confortare sia l’autore stesso, sia il lettore in nome di un passato la cui incarnazione, data dal lato estetico e da quello etico, si riflette nelle opere di chi è pregno della dimensione del “testimone”.
E in ciò Carlo Alessandro Landini, prima ancora di essere un poeta e un musicista, è fondamentalmente un “testimone”, un umanista che fa finta di dimenticarsi del tempo presente per attingere instancabilmente da uno passato, dal quale implacabilmente trae spunti, pensieri, impressioni da riversare poi in tutto ciò che può essere concepito come forma di creazione, poiché la caratura che lo contraddistingue come artista è quella di nutrirsi di un continuo pluralismo che non cessa mai di essere valore.
La Stanza numero 367 recita testualmente: Il personaggio mio val troppo poco / a paragone del contemplativo / che suol negarsi ad ogni benefizio. / Luogo non v’ha né merito ne vizio. / Una maschera io sono dunque, un essere / fittizio cui non s’apprendono né / ghiaccio né foco: Sitio, anima mea! / Atroce, troppo atroce è questo gioco.
Che cos’è in fondo, sembra dirci Landini, un artista se non un essere fittizio che si traveste continuamente di sguardi e volti altrui, poiché il suo compito è proprio quello di raccontarli con qualsiasi segno che abbia a disposizione?
Andrea Bedetti
Carlo Alessandro Landini – Stanze
Fara Editore, 2018, pagg. 176
Giudizio artistico 4/5