A volte un progetto discografico, oltre al valore interpretativo che manifesta, ha anche la propedeutica capacità di rappresentare un momento di riflessione atta a comprendere o, quantomeno, a far ricordare meglio l’importanza di ciò che è stato per l’appunto registrato in quel dato disco. Questo, soprattutto, quando si cade nel vizio assurdo di essere convinti di conoscere a fondo un’opera, una composizione, una o più pagine di un determinato autore. Insomma, una registrazione discografica può essere anche un fecondo e provvidenziale rappel à l’ordre attraverso il quale si può fare opera di ammenda o, più semplicemente di ripasso, in modo da riassaporare la bellezza, la profondità, l’importanza di ciò che si sta ascoltando.

Quindi, ascoltando una nuovissima registrazione pubblicata dalla Da Vinci Classics e che vede protagonisti due artisti spagnoli, il violoncellista Ramon Bassal e la pianista Maria Canyigueral, presentare l’integrale delle sonate per violoncello, unitamente alle tre serie di variazioni dedicate a questo strumento da Ludwig van Beethoven, non ho potuto fare a meno di pensare proprio a questo particolare, ossia a come determinate incisioni siano una sorta di memento artem, il cui compito è quello di non dimenticare o mettere da parte, nell’immane calderone di ciò che si ascolta, e questo vale soprattutto per i cosiddetti “addetti ai lavori”, opere che sono fondamentalmente pietre miliari fissate nel tempo, proprio come nel caso di queste straordinarie pagine cameristiche.

La cover del doppio CD Da Vinci Classics con l'integrale dell'opera per violoncello e pianoforte di Ludwig van Beethoven.

La prima cosa da notare, andando a leggere la disposizione di registrazione di questa integrale, spalmata comprensibilmente su due dischi, è come il duo spagnolo abbia seguito una successione per così dire più “didattica” che rigorosamente cronologica, cioè partendo dalle due Sonate dell’op. 5, la cui gestazione creativa risale al biennio 1795-96, intervallate dalle 12 Variazioni in fa maggiore, op. 66 sul tema Ein Mädchen oder Weibchen da Die Zauberflöte di Mozart, risalenti al 1796, dalle 7 Variazioni in mi bemolle maggiore, WoO 46 sul tema Bei Männern, welche Liebe fühlen, sempre da Die Zauberflöte, per poi passare alla meravigliosa Sonata in la maggiore op. 96, composta tra il 1807 e il 1808 e, prima di concludere con le due ultime Sonate dell’op. 102, fissate creativamente nel fatidico 1815, facendo un salto indietro nel tempo, per la precisione al 1797, quando vennero scritte le 12 Variazioni in sol maggiore, WoO 45 sul tema See the conqu’ring hero comes dall’oratorio Judas Maccabäus di Händel.

Forse, prima di cominciare la disamina di questa registrazione, è bene ricordare, repetita iuvant, che l’approccio del genio di Bonn al corpus cameristico con il violoncello fu per certi versi ardito e rivoluzionario, almeno per lui, se si tiene conto che quando Beethoven decideva di affrontare un determinato genere musicale, lo faceva sempre partendo dalle solide e tradizionali basi che il passato sonoro gli poteva offrire. Cosa che, in questo caso, non gli fu possibile fare, visto che il genere della Sonata per violoncello e pianoforte prima di lui era stato praticamente inesplorato, soprattutto dai due autori dai quali attingeva a livello di guida, ossia Haydn e Mozart (l’unica traccia lasciata dalla tradizione musicale, semmai, era stata fornita dalla Sonata per violoncello e basso continuo, come dimostrano le opere di Jean Balthasar Tricklir, Johann Georg Christoph Schetky, Jean-Pierre Duport e di Antonín Kraft). Quindi, il genio di Bonn, sul finire del Settecento, fece in tal senso da battistrada, nel corso di quel periodo che ho già definito “in discesa” quando, giunto da poco a Vienna, affrontò la vita musicale con entusiasmo e ottimismo.

A dire il vero, però, le due Sonate op. 5 risalgono alla sua permanenza a Berlino, dopo essere stato a Praga e, ma non ne siamo certi, a Lipsia e a Praga. Il re di Prussia, Federico Guglielmo II, era un eccellente interprete dilettante del violoncello e all’epoca aveva al suo servizio uno dei più notevoli virtuosi di quel tempo, il già ricordato francese Jean-Pierre Duport (ancora oggi ricordato per lo sviluppo della tecnica del capotasto). Beethoven, che ebbe modo di esibirsi a corte, offrì al re le due Sonate in questione, eseguendole proprio insieme con Duport. Ma il nome del virtuoso transalpino, per ciò che riguarda le due Sonate, dev’essere messo in primo piano anche per un altro fatto: studi musicologici della seconda parte del Novecento hanno messo in luce quanto sia stata importante l’influenza nel corso della loro creazione, partendo proprio dagli abbozzi delle partiture, oggi conservate a Londra e a Bergamo. Dal loro studio, si è potuto così accertare come le Sonate op. 5 vantino innumerevoli caratteristiche tecniche nell’uso del violoncello da parte di Duport, peculiarità che confluirono poi, in sede teorica, nel suo Essai sur le doigté du Violoncelle et la conduite de l’archet, pubblicato nel 1806. Queste caratteristiche, riflesse nell’op. 5 vedono così la perfetta coesistenza tra strumento ad arco e tastiera, con il violoncello che agisce sul piano melodico, soprattutto nel registro medio-acuto, mentre il pianoforte agisce su quello medio e grave, oppure con il primo che si concentra sul registro grave e di conseguenza il secondo su quello medio-acuto o, ancora, con i due strumenti che si confrontano nello stesso registro, con ritmi assai differenziati, con un netto miglioramento, sia sul piano armonico, sia melodico, nella seconda Sonata.

Il virtuoso francese Jean-Pierre Duport, in un ritratto di Remi-Fursy Descarsin.

I tre cicli trascrittivi dedicati al violoncello da parte di Beethoven meritano qualche riflessione, tenuto conto che fanno parte di quel bagaglio compositivo del sommo di Bonn troppo spesso messo improvvidamente da parte, a cominciare dall’op. 66 che il compositore tedesco scrisse probabilmente per un virtuoso, prendendo in oggetto la celebre aria mozartiana che appare nel secondo atto de Die Zauberflöte. Sia ben chiaro, ci troviamo di fronte a un’opera ancora decisamente settecentesca nel trattamento delle variazioni, concepite quindi sotto l’afflato di semplici fioriture del tema portante, ma costruite con grande gusto ed equilibrio tra i due strumenti, oltre a manifestare quella straordinaria capacità in Beethoven di dare forma al senso ritmico della composizione, anche di fronte a un’aria che nella Vienna del tempo era conosciuta a memoria perfino dall’ultimo dei mendicanti. Un decisivo passo in avanti, rispetto all’op. 66, è dato dall’altro ciclo dedicato a un’altra aria dell’ultimo capolavoro operistico mozartiano, anche se lo spirito della composizione resta su una falsariga all’insegna del pas engagé. Ma questa atmosfera di spensierato disimpegno viene resa più intrigante dal fatto che Beethoven comincia a considerare in modo del tutto nuovo il concetto di variazione, che non esprime più la visione settecentesca di questo genere, ma punta a superarne i limiti tecnici e stilistici per dare luogo finalmente a un atto sonoro in cui prevale l’originalità creativa. Un’originalità che si fissa nella ricchezza materica che viene trattata dal violoncello e dal pianoforte e nel conseguente dialogo che riescono a mettere in atto: senso delle proporzioni, sviluppo dei sottotemi, sfruttamento delle potenzialità strumentali, soprattutto sulla base degli intrecci e dei continui rimandi a livello timbrico. Insomma, un bel passo avanti.

Da ultimo, le dodici Variazioni su un tema di Händel, anch’esse scritte probabilmente a favore di un virtuoso dello strumento ad arco, che rappresentano, in concomitanza con l’elaborazione delle due Sonate op. 5, l’approccio compositivo beethoveniano al violoncello con pianoforte. Qui, siamo di fronte ancora a una proiezione della variazione che deve trasmettere innanzitutto piacevolezza e senso dell’intrattenimento, un coinvolgimento emotivo instillato dall’introduzione pianistica e svolto in maniera piana dal violoncello, anche se nelle intenzioni dell’autore non mancano prospettive per così dire intellettuali, tenuto conto che, contrariamente a Mozart, nella Vienna dell’epoca il nome e le opere del divino Sassone erano conosciuti a livello esoterico (e ciò potrà apparire a dir poco incredibile); possiamo quindi considerarla una nota di sberleffo, un modo di fare che già rasenta quel proverbiale “io so’ io, e voi non siete un cazzo” che caratterizzerà spesso il comportamento del futuro Beethoven amareggiato e irriverente del dopo Heiligenstadt.

A proposito di amarezza incipiente e dell’inizio della fase “in salita” della vita di Beethoven, in cui la composizione musicale diviene disperato rifugio di fronte alle avversità e all’indifferenza altrui, la Sonata n. 3 in la maggiore è a dir poco un commovente esempio, per via della sua solarità e straordinaria nobiltà espressiva (il contrasto dato dalla locuzione che il sommo di Bonn appose sulla copia dedicatoria, ossia inter lacrimas et luctum, la dice lunga). Sul punto di lasciare Vienna e mandare a fare in culo tutto e tutti, Beethoven fu dissuaso dal celebre “contratto” che l’arciduca Rodolfo e i principi Lobkowitz e Kinsky decisero di sottoscrivere, impegnandosi di passargli un vitalizio di quattromila fiorini annui per sollevarlo dalle bieche necessità pecuniarie, a patto però che il compositore non abbandonasse Vienna e il territorio austriaco, accettando altri incarichi al di fuori di esso.

Se si vuole avere un’idea di che cosa significhi un perfetto equilibrio strumentale, in ambito cameristico, l’op. 69 rappresenta un ideale esempio. I piani sonori ed espressivi emanati dal violoncello e dal pianoforte sono tali, che si deve immaginare il fluire di un torrente le cui acque, nel loro scorrere, pur nell’essere dirompenti, scoppiettanti, tumultuose, risultano essere sempre magnificamente disciplinate. E il tutto, a livello di spazialità sonora, è arricchito da una stupefacente nobiltà, nel senso che, pur nella gioiosità e nell’entusiasmo che traspare, si avverte sempre un senso di pacato distacco, di un protagonista che osserva se stesso, a cominciare dal solare e trascinante Scherzo, che in fatto di enigmaticità sembra anticipare il celebre Allegretto della Settima sinfonia.

Infine, le due Sonate dell’op. 102; il percorso stilistico e strutturale beethoveniano sta ormai raggiungendo il suo apice, sempre sotto l’egida dell’equilibrio: equilibrio che si manifesta in due aspetti cruciali, il trattamento, estremamente sofisticato della materia contrappuntistica e, allo stesso tempo, economia dei mezzi utilizzati, eliminando tutto ciò che non è strettamente necessario alla creazione sonora. Tutto ciò, e questo non vale soltanto per le due Sonate in questione, porta a una suprema condensazione del risultato finale (si pensi, per esempio, alle ultimissime Sonate pianistiche); eppure, tale parsimonia dei mezzi, e qui torniamo a bomba alle due pagine dell’op. 102, non significa cassare, annullare, annichilire la tavolozza capace di esaltare le sfumature che tratteggiano la vena umoristica, così come quella ironica e, anche, quella squisitamente gioiosa che contraddistinguono queste due composizioni. Attenzione, però, perché quando parliamo di condensazione non lo si fa solo in termini musicali, ma anche estetici, in quanto la portata allegorica, significativa di queste due Sonate va a investire la visione antropologica dell’universo beethoveniano, un universo che, in un certo senso, rappresenta un compromesso tra il soggetto dell’Io esistenziale personale e l’oggetto dato dal mondo che lo circonda.

Il violoncellista Ramon Bassal e la pianista Maria Canyigueral durante la fase di registrazione al Teldex Studio Berlin (© Cameron Manion).

Quanto si è cercato di spiegare è necessario non tanto a livello di compitino riassuntivo della produzione cameristica per violoncello e pianoforte del sommo genio di Bonn, quanto per rimarcare l’inevitabile difficoltà del tipo di approccio a livello interpretativo che si deve attuare per proporre in maniera degna la complessità di tale universo sonoro. Cosa che il duo spagnolo in questione riesce a fare in buona parte; ciò avviene, a mio parere, attraverso un denominatore comune che è presente in tutte le letture di questi due dischi. Vale a dire il denominatore dato dalla nobiltà espressiva del suono emanato sia dal violoncello, sia dal pianoforte. Un compromesso efficace, in quanto effettivamente tutta la produzione cameristica di Beethoven dedicata al duo per questo strumento ad arco e tastiera si offre alla dimensione di un suono che rimane fondamentalmente “classico” nella sua struttura comunicativa. Fermo restando che Beethoven non è un “romantico”, almeno nell’accezione comune del termine, è vero che anche quando si cala nei panni del “rivoluzionario”, almeno nella sfera musicale, lo fa sempre senza mai dimenticare la grande lezione del passato, persino quando questo passato viene a latitare, come nel caso della letteratura della sonata per violoncello e pianoforte. Così, la struttura classica, “tradizionale”, l’idea di continuità data da Beethoven si realizza attraverso una compostezza del gesto interpretativo, fissando un limite che è già insito nella partitura stessa: niente eccessi, niente entusiasmi di facile acquisizione, ma struttura “classica”, capace sempre di decodificare il suono in sé nelle intenzioni e nel risultato che si può, di conseguenza, ottenere.

Un risultato che Ramon Bassal e Maria Canyigueral perseguono costantemente nel suo dipanarsi tra sonate e variazioni, tra l’obiettivo del piacevole, ma costruttivo, intrattenimento, rappresentato dalle seconde, e dalla progressiva edificazione strutturale, dato dalle prime; si avverte la distinta volontà, da parte loro, di aderire pienamente a questa resa “classica”, mirando a una limpidezza che non mira soltanto, quando l’identificazione del segno lo permette, a irradiare un’idea di radiosità, ma anche la profondità del significato che si cela dietro il suono stesso (elemento, questo, a dir poco immancabile, visto che siamo di fronte a uno dei più grandi geni della musica). Comunicare con una spontaneità per ottenere quella deliziosità che permea i tre cicli delle Variazioni, e con ponderata precisione per dipanare la complessità che contraddistingue le cinque Sonate.

Il suono catturato al prestigioso Teldex Studio Berlin dai tre tecnici chiamati in causa, ossia Wolfgang Schiefermair, Sebastian Nattkemper e Julian Schwenkner, è complessivamente più che buono; la dinamica è corposa, veloce e sufficientemente naturale, mentre il palcoscenico sonoro mette in evidenza a una discreta profondità i due artisti, i cui strumenti si stagliano al centro dei diffusori. L’equilibrio tonale è ottimo, con una netta distinzione dei registri del violoncello e del pianoforte, sempre messi a fuoco; infine, il dettaglio è piacevolissimo nella resa materica.

Andrea Bedetti

Ludwig van Beethoven – Complete Sonatas & Variations for Cello and Piano

Ramon Bassal (violoncello) - Maria Canyigueral (pianoforte)

2CD Da Vinci Classics C00749

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5