Non nego che quando mi si offre la possibilità di poter ascoltare e valutare esecuzioni che riguardano la musica di Leoš Janáček, non posso fare a meno di ringraziare quella casa discografica e quel solo o più interpreti che ha/hanno avuto il merito di proporre un simile progetto sonoro. E il motivo è assai semplice, perché eseguire e registrare pagine del grande compositore moravo rappresenta indubbiamente un atto di coraggio; pur essendo Janáček, infatti, uno dei pochi, pochissimi musicisti realmente ineludibili e insostituibili riguardanti il Novecento, le sue opere continuano ad essere centellinate con il contagocce, sia a livello concertistico/operistico, sia a livello discografico.
Le cause che si celano dietro tale sporadicità sono presto dette: 1) in linea generale, la musica del compositore di Hukvaldy non è di semplice comprensione e assimilazione, sia per la peculiarità del suo impianto armonico, sia per la capillare distribuzione di elementi dissonantici, all’interno della linea melodica, che trasformano il suo ascolto in una sorta di “corsa ad ostacoli”; 2) in sopraggiunta, per ciò che riguarda la sua produzione operistica (è bene chiarire fin da subito che Janáček, insieme con Giacomo Puccini e Richard Strauss, forma la “trimurti” dei più grandi operisti del ventesimo secolo), la lingua ceca cantata nelle opere non aiuta di certo la sua diffusione e la sua fama; 3) la materia musicale del compositore moravo si abbevera continuamente e sistematicamente alla fonte di campi e discipline extramusicali, a cominciare dalla psicologia e dalla linguistica e se non si conoscono tali apporti, la piena comprensione delle innovazioni e delle idee che fecondano la musica di Janáček non può avvenire, castrando di fatto il processo di apprezzamento e di lucidità d’ascolto; 4) inoltre, quella del musicista di Hukvaldy è un’opera che è strettamente legata ai fatti e alle sciagure che appartengono alla sua vita privata; quindi, chiunque volesse affrontare con piena coscienza e con reale interesse il suo catalogo, farebbe bene a conoscere preventivamente la sua vita, in cui ogni azione fatta o da lui subita, quasi sempre si trasforma in una conseguente re-azione artistica.
Premesso ciò, veniamo al disco al centro di questa analisi e che riguarda una recente produzione della Da Vinci Classics con il pianista molisano Gianluigi Daniele che presenta il trittico per eccellenza che Janáček confezionò per questo strumento, vale a dire la raccolta di pezzi Po zarostlém chodníčku (che potremmo tradurre letteralmente Lungo il sentiero incolto, una traduzione sulla quale ritornerò nel corso di questa analisi), il ciclo in quattro pezzi V mlhách (Nella nebbia) e la Sonata in mi bemolle minore recante il titolo di Z ulice, 1.X.1905 (Nella strada, 1°-X-1905). Rispetto al resto della produzione dedicata al pianoforte, se si eccettua l’ultima sua composizione, i tredici Pezzi per l’album di Kamila Stösslová, eseguibili anche su harmonium, questo trittico rappresenta sicuramente l’esito più felice e riuscito, tale da essere proposto sia in sede concertistica, sia in quella discografica, non dico con una certa continuità e frequenza, ma quantomeno da non farlo rientrare nel cronico dimenticatoio dell’interpretazione musicale (chi mi legge, sa perfettamente che non sono un ottimista di natura, ma lo divento se chi ha scritto le note di accompagnamento al CD, ossia la musicologa e soprano Elisabetta Braga, giunge al punto di affermare che queste pagine pianistiche tuttora «rimangono nell’ombra»).
Semmai, c’è da fare un’altra specifica per sgombrare il campo da ogni possibile malinteso: la produzione pianistica, così come quella cameristica e quella orchestrale di Janáček, non dev’essere considerata e ascoltata come corollario propedeutico per affrontare con maggiore consapevolezza (?) il corpus operistico, vale a dire nel valutare la pregnanza di tali pagine alla stregua di pianeti musicali che girano intorno al sole simboleggiante le opere teatrali, poiché sarebbe un gravissimo errore. Quindi, tanto per essere chiari fin dall’inizio, lo Janáček pianistico non è inferiore e non fa da semplice propileo a quello operistico, così come quello della Sinfonietta e della Messa Glagolitica impallidisce di fronte allo spietato Káťa Kabanová e al visionario Věc Makropulos (della serie Reddite quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo… ).
A proposito della funzione linguistica nell’opera del compositore di Hukvaldy e dei suoi indubbi influssi anche dove viene a presentarsi solo una pagina strumentale, non si deve intenderla propriamente in senso tecnico, anche se si è cercato di farlo talvolta in sede critica, vale a dire secondo la disciplina esplorata da Ferdinand de Saussure e ampliata dal cosiddetto Circolo linguistico di Praga, del quale l’esule russo Romаn Jakobsòn ha rappresentato l’esponente più illustre, ma piuttosto secondo le indagini compiute dalla speculazione heideggeriana, quindi considerando l’impiego della lingua da parte di Janáček non tanto nella sua valenza applicativa (τέχνη), quanto piuttosto in quella che riguarda il processo di disvelamento (ἀλήθεια), ossia dello “stato-del-non-essere-nascosto” (semmai il procedimento che conduce dal τέχνη al ἀλήθεια può essere applicato al teatro musicale janáčekiano). Questo procedimento di dis-velamento può essere applicato, e qui torniamo al titolo del primo ciclo di pezzi, all’espressione del Po zarostlém chodníčku, la cui traduzione letterale deve lasciare posto anche a quella data dal suo stesso disvelarsi, anche grazie a una linea “programmatica” fornita dallo stesso autore, con la quale spiega le motivazioni e gli intendimenti che si celano dietro i pezzi della raccolta, tutti dettati, grossomodo, dalla reazione emotiva ed esistenziale del compositore moravo di fronte all’improvvisa morte dell’adorata figlia Olga, scomparsa a ventun anni nel febbraio del 1903 (senza dimenticare che già nel 1890 il suo primogenito Vladimir era deceduto in tenera età).
Cinque dei dieci brani che compongono la prima serie di Po zarostlém chodníčku (presentata da Gianluigi Daniele nella sua registrazione), esattamente l’1, 2, 4, 7 e 10, furono scritti per harmonium nei primissimi anni del Novecento e racchiusi con il titolo di Melodie slave, mentre la seconda serie, formata dagli ultimi cinque brani, quelli che vanno dall’undicesimo al quindicesimo, non hanno titolo ma solo l’indicazione del tempo e furono pubblicati diversi anni dopo la morte di Janáček, precisamente nel 1947. La prima considerazione riguarda, per l’appunto, il titolo della raccolta, in quanto a livello di traduzione la lingua ceca presenta varie opzioni, in quanto oltre a Lungo il sentiero incolto, si potrebbe anche tradurre in Sul sentiero erboso e Sul sentiero ricoperto, in cui sul principio semantico che connota il richiamo naturalistico si va potentemente ad aggiungere anche quello allegorico, in cui il concetto di “sentiero” assume quello di un elemento “tempo/ricordo”, al punto, come ha argutamente sostenuto Piero Rattalino, il vero titolo della raccolta dovrebbe essere Sui sentieri della memoria (se si dovesse fare un raffronto tra l’opera proustiana e la sua trasformazione in sede musicale, le composizioni di Janáček sarebbero tra quelle che potrebbero ambire in assoluto a tale prerogativa). Una nobiltà d’intenti che apparentemente potrebbe andare invece a cozzare con i titoli alquanto banali dei singoli brani, Le nostre serate, Una foglia portata via, Venite con noi, La Vergine di Frydek, Come le rondini, Senza parole, Buonanotte, Indicibile angoscia, In lacrime, La civetta prese il volo, roba da far esultare Gozzano, Corazzini e l’ondata crepuscolare di primo Novecento… Attenzione, però, perché l’intento del compositore moravo non è quello di essere un inconsapevole epigono di nonna Felicita, ma solo il lucido testimone di un’epoca racchiusa nel profumo mesto e nostalgico di un sentimentalismo piccolo borghese che non dev’essere inteso nella sua concretizzazione privata, domestica, ma come simbolo di un tempo>ricordo nel quale fissare e incastonare un rapporto più proficuo e intimo tra l’uomo e la natura, con quest’ultima concepita come rappresentazione di assoluta e incontaminata purezza (il che rimanda inevitabilmente a quello splendido e commovente capolavoro operistico che è Příhody Lišky Bystroušky, ossia Le avventure della volpe astuta).
L’aspetto del tempo>ricordo in Janáček è anche l’inevitabile sbocco fornito da un altro aspetto legato alla sua vita privata, quello che riguarda le conseguenze e le instabilità psicologiche derivate sia dalla morte di entrambi i figli, sia dai continui rifiuti da parte dell’Opera di Praga di mettere in scena il suo primo capolavoro operistico, Jenůfa. Lascia riflettere il fatto come, quasi nello stesso lasso di tempo, ci possa essere una sorta di affinità speculativa tra l’opera del compositore moravo e quella di Sigmund Freud; se quest’ultimo approderà al Traumdeutung, pubblicato nel 1899, dopo un lungo e angoscioso periodo di “autoanalisi” avviato all’indomani della traumatica morte del padre, Janáček riverserà a livello di patologia/espressione sul sismografo emotivo della sua musica le scomposizioni psicologiche delle quali fu inevitabilmente vittima in quegli anni. Quindi, è sotto quest’ottica che dev’essere considerato e affrontato il breve ciclo V mlhách (Nella nebbia), i cui quattro pezzi che lo compongono, concepiti nel 1912, non vantano dei titoli capaci di esprimere un sentore semantico, ma il tutto dev’essere rimandato, a livello centripeto, nella dimensione angosciante del non-definito, del non-affiorato, del non-risolto. Da qui, l’immagine allegorica della “nebbia”, altro elemento che rimanda alla natura, non più pura, idilliaca, immacolata nella sua bellezza, ma emblema di ciò che è patologicamente malato, infetto, incancrenito. E Janáček rende questo “incancrenimento” attraverso una visione musicale distorta, che anticipa di fatto, almeno nelle intenzioni esplicative, ma non certo in quelle armoniche, quanto poi verrà fatto in sede teorica e compositiva dalla Seconda scuola di Vienna. La scrittura volutamente scarna, votata all’annidarsi, al nascondersi, al celarsi negli anfratti più grigi e marcescenti, è la rappresentazione di un impressionismo decisamente negato e osteggiato dal compositore di Hukvaldy, il quale con questo ciclo prende la mira e sputa nell’occhio di Debussy, pur adempiendo a un aspetto del pianismo del collega francese, ossia quello della piena libertà nel collegamento degli accordi. Ma lo fa senza la presenza indispensabile di quell’elemento precipuo e insostituibile esaltato dall’impressionismo pittorico, la luce. Persino quei momenti “aperti”, votati ad esplosioni sonore, sono esplorati con l’ausilio di un visore ad infrarossi, capace di dare una forma e una ricostruzione agli oggetti e alle cose immersi nelle tenebre.
Il terzo elemento che contraddistingue la vita e l’opera di Janáček è quello legato al suo impegno politico e sociale, soprattutto a favore delle istanze nazionalistiche del suo Paese contro l’impero austro-ungarico al quale apparteneva la sua Moravia. Quindi, non deve sorprendere una pagina quale la Sonata in mi bemolle minore Z ulice, 1.X.1905, che fu composta di getto, con un senso di rabbia e di rivolta, all’indomani di un tragico fatto di cronaca, avvenuto proprio il 1° ottobre 1905, come riportato nel titolo della pagina pianistica. Quel giorno a Brno, durante una manifestazione popolare in favore dell’apertura di un’università in lingua ceca, osteggiata dal governo e dalla minoranza di lingua tedesca, un giovane operaio venne ucciso dalla polizia. Janáček, sull’onda dello sdegno e dell’emozione, scrisse questa sonata che in origine fu composta in tre tempi, ma la sera stessa della prima esecuzione, in programma con la pianista Ludmila Tučková, il compositore moravo decise di eliminare l’ultimo movimento, il Presto. Non solo, ma dopo la seconda esecuzione, Janáček distrusse anche i primi due (la storiella romanzesca che si narra a tale proposito, ossia che l’autore gettò “romanticamente” la partitura nelle acque della Moldava, appartiene solo al mondo variopinto dei gonzi). Ma il compositore non aveva fatto i conti con la stessa Tučková, la quale nel frattempo aveva trascritto segretamente i primi due tempi, dei quali Janáček autorizzò infine la pubblicazione nel 1924. Al senso di rifiuto nei confronti della violenza e della mancanza di libertà e di autonomia della popolazione ceca, il musicista di Hukvaldy aggiunse anche un rifiuto stilistico in materia compositiva, vale a dire che i due tempi in questione, Con moto e Adagio, rispettivamente denominati Predtucha (Presentimento) e Smrt (Morte), non presentano né le consuete tecniche di sviluppo e del contrappunto, né le collaudate strutture di matrice austro-tedesca; al loro posto, Janáček, per evidenziare la frammentazione, la dissociazione, il sentimento di straniamento causati da quella tragedia, volle basare la Sonata su una ripetizione e giustapposizione di un cospicuo numero di piccole cellule musicali. Da qui, un’inevitabile trasposizione della linea musicale frammentaria a quella che raffigura simbolicamente il conflitto psicologico e morale di Janáček stesso, il quale prende evidentemente a prestito le soluzioni linguistiche escogitate per la sua produzione operistica e le plasma secondo le necessità della materia pianistica, lavorando così sulle inflessioni timbriche che scaturiscono esemplarmente da quelle lessicali.
Confido di aver saputo trasmettere, con queste brevi considerazioni, quanto sia difficile non solo l’ascolto, ma anche interpretare realmente la musica di Leoš Janáček, una difficoltà che appartiene anche al suo striminzito catalogo pianistico, a cominciare dalle tre opere prese in considerazione da Gianluigi Daniele nel suo CD della Da Vinci Classics. Le difficoltà pianistiche si manifestano, a mio parere, a causa di quello che personalmente definisco un “soggettivismo oggettivizzato” richiesto dalle opere dedicate a questo strumento. Che cosa significa? Che la ricerca espressiva, anche quella che va a toccare le corde intime più insondabili e profonde, non deve mai sfociare in una veicolazione dominata dal lirismo, dalla passione e dal sentimentalismo in sé; in ciò la musica pianistica del compositore moravo non si distacca da quella offerta dalla produzione cameristica, operistica e orchestrale, ossia il suo descrittivismo si basa sempre su un rigore formale in cui la connotazione melodica viene sempre messa a dura prova da un continuo ricorso a soluzioni armoniche originali che portano a privilegiare le irruzioni dissonantiche che vanno letteralmente a frantumare l’organizzazione e la compattezza dell’intreccio consonantico. Queste continue ed estenuanti interruzioni portano di conseguenza la materia musicale su un piano espressivo in cui le tentazioni soggettive di chi le espone devono essere complessivamente riassunte ed esposte sulla base di un’oggettività che si concentra esclusivamente sul processo psicologico elaborato e sulla sua realizzazione acustica, sia che riguardi la voce umana, sia quella strumentale. Cosa facile a dirsi, difficile, difficilissima a realizzarsi, se si vuole offrire un’interpretazione convincente e aderente.
Un’interpretazione che il pianista molisano riesce ad esprimere al massimo grado, in quanto pienamente, totalmente aderente non solo da quanto richiesto da Janáček in sede di partitura, ma anche e soprattutto per quelle che sono le volumetrie emotive e psicologiche che muovono e, alternativamente, fermano la massa sonora del pianoforte. La prima dote richiesta, quindi, è data da un’instabilità esecutiva che deve riprodurre adeguatamente la linea che il pennino del sismografo rappresentato dall’Io del compositore moravo vomita sul pentagramma; questo significa ricostruire l’imprevedibilità del suo fraseggio, i coups de théâtre escogitati dall’autore, che equivalgono all’uso della pistola taser, ossia scaricare saette elettriche capaci di innervare e di distruggere, di innalzare e di radere al suono l’esposizione del tessuto sonoro. Questo fattore costruttivo e decostruttivo va a innestare un altro aspetto fondamentale nella fase interpretativa della musica janáčekiana, quello che riguarda la ricostruzione di un tempo esteriore instancabilmente à la recherche di quello interiore (e qui entriamo trionfalmente nei territori di caccia speculativa appartenuti a Henri Bergson). Il gesto pianistico dev’essere qualcosa che va a colmare il solco di un tempo effettivo ed uno auspicato/immaginato, di uno reale e l’altro fantasticato, come avviene in quel miracolo di equilibrio agogico rappresentato dal settimo brano di Po zarostlém chodníčku, intitolato Buonanotte: qui, si deve approntare un suono che fisicamente dia anche, a livello parallelo, un’immagine metafisicamente desiderata, cosa che Daniele effettua in maniera esemplare.
L’ultima considerazione deve riguardare lo psicologismo che va a solleticare il côtépatologico/creativo così rilevante nell’opera del compositore moravo. Nel caso della produzione pianistica, V mlhách in maniera specifica e Z ulice, 1.X.1905 in quella parziale, rientrano in tal senso; qui la materia compositiva deve fare i conti con le contingenze inconsce, le quali, nell’essere lette e rese sonoramente, non devono vantare alibi rappresentati da smussamenti o addolcimenti improvvidi, ma rese con una debita eziologia esecutiva, come nel caso di quell’edificio precubista rappresentato dal Molto adagio di V mlhách, la cui ricostruzione sonora richiede una simil scissione della personalità, la capacità di trasformarsi in un Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria applicato alla tastiera pianistica. E il tutto condito, ovviamente e immancabilmente, da quella ossessiva, compulsiva “oggettività” timbrica di cui si è detto.
Per essere dei bravi interpreti di Janáček bisogna essere come Janáček, ed è indubbio che, con la sua esaltante lettura e “guida” esecutive, Gianluigi Daniele lo sia. Da annoverare nelle registrazioni di riferimento di tali opere.
Più che efficace la presa del suono fatta da Gabriele Zanetti. La dinamica presenta un’energia più che sufficiente per esaltare la timbrica dello strumento, così come un’adeguata velocità e una piacevole naturalezza, in modo da evidenziare la microdinamica, un parametro con il quale bisogna fare i conti quando si affronta il pianismo di Janáček. La ricostruzione dello strumento, per ciò che concerne il parametro del palcoscenico sonoro, lo vede fissato a una discreta profondità, senza però che lo scontorno ne risulti penalizzato, anche perché il suono si propaga a sufficienza sia in ampiezza, sia in altezza. L’equilibrio tonale, anche per via della particolare scrittura janáčekiana “a contrasti”, è assai sollecitato e non mostra sbavature di sorta, con una restituzione del registro medio-grave che risulta essere sempre distinto rispetto a quello acuto. Infine, il dettaglio è materico e con dosi abbondanti di nero che circondano il pianoforte, in modo da rendere più coinvolgente e meno faticoso l’ascolto.
Andrea Bedetti
Leoš Janáček – Piano Works. On an Overgrown Path (Series I) - In the Mists - 1.X.1905
Gianluigi Daniele (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00858
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5