Il concetto dell’arte scenica, che riguardi la sfera operistica o drammaturgica poco importa, si basa anche su una figura per certi versi irrinunciabile per definire in sé lo stesso atto artistico, la sua espressione e la sua concretizzazione che si realizza in quel “cerchio magico” che è il palcoscenico, una volta che si rivela agli occhi dello spettatore all’alzarsi del sipario. Questa figura è il cosiddetto “istrione”, l’attore o cantante che, grazie al suo irresistibile ascendente, riesce a catalizzare l’attenzione di chi assiste, coinvolgendolo in quell’atto artistico di cui lui è l’artefice assoluto.
Ed è indubbio che nella storia della dimensione istrionica il ruolo dei cantanti castrati abbia rappresentato un capitolo fondamentale, capace di anticipare di fatto l’irruzione del divo, dell’idolo delle folle, di colui che realizza pienamente la sostituzione del tempo storico a favore di quello incarnato dalla manifestazione artistica, della finzione soggettiva che prende il posto della realtà oggettiva. Ma l’istrione, per poter rompere la realtà soggettiva, il tempo storico, ha bisogno anche di determinati artefici, deve poter attuare specifici meccanismi visivi in modo da permettere al “cerchio magico” nel quale agisce di dare avvio all’opera di sostituzione, insomma deve rompere gli schemi pre-fissati (e questo lo dobbiamo principalmente all’antica tragedia greca, quella esaltata dal pensiero nietzschiano) attraverso un principio di “post-fissazione” fornito dalla frantumazione di ciò che è normalmente costituito e che appartiene alla quotidianità.
Facendo, in tal senso, un banale esempio, per quale motivo personaggi come Elton John o, prima di lui, come il pianista Liberace, per non parlare degli artefici del cosiddetto glam rock, erano soliti entrare in scena agghindati con paillettes e mantelli variopinti, calzando stivaletti dai tacchi a dir poco esagerati, se non per evidenziare, attraverso questi strumenti/simboli, l’estraneità dal contesto quotidiano per catapultare gli spettatori presenti in uno spazio temporale risolutamente antitetico al quotidiano stesso, vale a dire proiettandoli nel diretto opposto, ossia l’atto “artistico”?
Bene, alla luce di ciò, facciamo un salto indietro nel tempo di più di duecento anni e immaginiamo di trovarci in un teatro operistico nel quale, all’alzarsi del sipario, accompagnato da un trionfale squillo di trombe, vediamo entrare in scena in sella a un cavallo, sulla sommità di una finta collina, un cantante di fine Settecento, il più famoso e blasonato del tempo, con in testa un elmo con piume variopinte e sgargianti lunghe anche più di un metro, il quale, indipendentemente dall’opera o dal personaggio che doveva interpretare, invariabilmente faceva questo ingresso cantando la sua aria preferita, Mia speranza, io pur vorrei, scritta appositamente per lui dal compositore faentino Giuseppe Sarti, capace di strappare applausi e urla entusiaste da parte del pubblico presente. Quel cantante, il milanese Luigi Marchesi, il più grande e ammirato castrato di fine Settecento, non fece altro che adottare le medesime strategie d’impatto visivo utilizzate al giorno d’oggi dai cosiddetti idoli adorati dalle masse/greggi, un istrione dotato non solo di una delle voci più belle e articolate della storia dell’opera, ma anche uno degli uomini più belli e affascinanti che abbiano mai calcato i palcoscenici dei teatri musicali.
Dopo aver fatto il suo debutto nel mondo operistico nel 1774, all’età di vent’anni, a Roma, al Teatro delle Dame, in un ruolo femminile, in una ripresa de La serva padrona di Pergolesi, otto anni più tardi, grazie allo strepitoso successo ottenuto a Torino ne Il trionfo della pace di Francesco Bianchi, fu insignito del titolo di musicista del re di Sardegna, con la possibilità, come prevedeva il contratto, di recarsi per nove mesi all’anno all’estero. Ciò gli permise, nel 1785, di esibirsi dapprima a San Pietroburgo, poi a Vienna, dove rimase fino al 1788, e infine a Londra, dove la sua fama crebbe a tal punto da essere considerato il più grande cantante del suo tempo. Rimane celebre, a livello storico, il suo rifiuto nel 1796 di cantare per Napoleone (scelta, questa, dovuta anche al fatto che il grande castrato era un massone, iscritto alla loggia milanese La Concordia), quando il futuro imperatore entrò in Milano: un gesto che spinse Vittorio Alfieri ad incitare Luigi Marchesi di agganciarsi l’elmetto e a marciare contro l’invasore francese, non con le armi, ma con la sua voce. L’“idolo delle folle” si esibì fino al 1806, quando si ritirò dalla scena per trasferirsi nella sua villa a Inzago, alle porte di Milano, dove morì nel 1829.
Marchesi, però, come due altri grandi castrati della storia, Farinelli e Bernacchi, si volle anche cimentare nei panni del compositore, visto che nella capitale inglese pubblicò dodici Ariette italiane, suddivise in due parti, l’op. 1 e l’op. 2, oltre a composizioni più didattiche, come alcuni solfeggi, e a delle arie occasionali, oggi perdute. Queste dodici ariette per voce e accompagnamento con arpa o pianoforte, scritte tra il 1788 e il 1790 sono state registrate per l’etichetta discografica Glossa dal musicologo e direttore Stefano Aresi e da alcuni componenti dell’ensemble Stile Galante nel CD A Souvenir from London. Ma il fine di questo progetto discografico non è solo quello di presentare queste curiosità in chiave rigorosamente filologica, ma anche, ed è l’aspetto che reputo più affascinante e coinvolgente, quello di ricostruire idealmente una deliziosa soirée musicale, come quelle di cui lo stesso Luigi Marchesi fu protagonista nell’ambiente dell’high-society durante la sua dorata permanenza londinese, durante le quali il celeberrimo cantante si esibì in compagnia di altri artisti che, a loro volta, presentavano loro composizioni da camera, come nel caso dell’arpista francese Anne-Marie Krumpholtz (1766-1813), del violoncellista inglese James Cervetto (1748-1837) e della pianista boema Veronika Cianchettini (1769-1833), sorella del ben più famoso compositore Jan Ladislav Dussek (anche se quest’ultima probabilmente non si esibì mai con il cantante castrato), ospiti fissi nel corso di questi home concerts organizzati dall’upper class londinese del tempo.
Così, oltre alle dodici Ariette di Marchesi (cantate dal soprano Francesca Cassinari e con l’accompagnamento all’arpa di Chiara Granata e al fortepiano da Andrea Friggi), il disco (contrassegnato da una generosa durata), presenta A new introduction and a Piemontois air with variations e Minuetto by Krumpholtz, the variations by Madame de. di Anne-Marie Krumpholtz, con l’arpa di Chiara Granata, il Duett for two violoncellos in C Major di James Cervetto, eseguito dal duo Agnieszka Oszańca e Giulia Gillio Gianetta al violoncello, e la Sonata for the pianoforte (…) in which is introduced the favorite Portogueze hymn Adeste Fideles con Andrea Friggi al fortepiano.
Anne-Marie Krumpholtz, figlia del liutaio francese Christian Steckler, studiò arpa con il compositore praghese Johann Baptiste Krumpholtz e fece il suo debutto nel 1779 in un concerto con lo stesso Krumpholtz ai Concerts Spirituel di Parigi. Anne-Marie sposò il compositore ceco alla morte della sua prima moglie e da lui ebbe tre figli, ma in seguito lasciò la Francia con il pianista Jan Ladislav Dussek, andando a vivere a Londra intorno al 1788. Tuttavia, Dussek la lasciò poco tempo dopo per la cantante, pianista e arpista scozzese Sophia Corri nel 1792. James Cervetto nacque a Londra e suo padre, il violoncellista Giacobbe Cervetto, fu il suo primo insegnante. Nel 1771, James Cervetto entrò a far parte dell’orchestra privata della regina e nel 1780 divenne membro dell’orchestra privata di Lord Abingdon. Nel 1783 suo padre morì, lasciandogli un patrimonio di ventimila sterline, il che gli garantì una vita sufficientemente agiata, vissuta all’ombra della potente aristocrazia inglese (il suo ultimo concerto ebbe luogo il 2 marzo 1795 a Frederick, nella residenza del duca di York House, al quale presenziò anche il sovrano Giorgio III). Kateřina Veronika Anna Dusíková Cianchettini, cantante, arpista, pianista e compositrice boema, nacque a Čáslav e iniziò i suoi studi musicali con il padre, l’organista Jan Josef Dusik. Successivamente, si trasferì a Londra per stare con suo fratello, il compositore Jan Ladislav Dusik, e dove sposò l’editore musicale Francesco Cianchettini.
Musicisti, quindi, non di primissimo piano, la cui creazione artistica fu rivolta essenzialmente, non facendo rientrare in tale discorso la figura interpretativa di ben altra portata di Luigi Marchesi, a un côté privato, quello dei salotti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia inglesi, e il cui scopo fu quello di donare piacevolezza, svago e lietezza, facendo del messaggio musicale un elemento di cementazione, di aggregazione sociale. Una piacevolezza, però, come dimostra questa interessantissima registrazione della Glossa, che non può essere considerata del tutto effimera. Se è vero che questo progetto discografico ha voluto ricreare, come si è già accennato, la dimensione sociale di una soirée musicale inglese di fine Settecento, non bisogna dimenticare che alcune delle pagine qui presentate vantano indubbiamente un loro intrinseco valore, una reale dimensione artistica che va oltre al semplice contesto storico e culturale tout court.
Non sono di certo un ammiratore sfegatato della romanza o dell’aria da camera, così come di tutta quella musica che si prefigge non di essere tempo, ma solo passatempo, ma devo ammettere che alcune delle Ariette scritte da Luigi Marchesi sono dei minuscoli gioielli stilistici, la cui interpretazione non è facile come bere un bicchiere d’acqua (a differenza di quanto fecero altri musicisti del tempo nel creare pagine simili, destinate a un pubblico di appassionati dilettanti, quindi comprensibilmente esenti da difficoltà tecniche), poiché il cantante milanese quando le concepì, lo fece pensando alle sue specifiche e straordinarie capacità canore, capaci di esaltare la linea del registro acuto, così come di dominare, in modo subitaneo, con salti improvvisi, quello grave, mandando comprensibilmente in visibilio gli spettatori dell’epoca (mi riferisco, in particolar modo, alle Ariette Sembianze amabili Op. 1 n. 3 e Auretta grata Op. 2 n. 5). Ma siccome queste brevi arie da camera furono scritte per dare modo a Luigi Marchesi di mostrare le sue doti canore, non si deve sottovalutare un altro loro aspetto, quello di richiedere non solo una tecnica non indifferente, ma anche una debita capacità di recitazione, ossia di rendere con il canto determinate sfumature e carature psicologiche, giocando sui respiri, sulle inflessioni, sui ricami, anche se non sono più quelli squisitamente barocchi, bensì appartenenti a un modo di fare teatro più moderno (e questo significa anche l’irruzione di un elemento che sarà fondamentale nel mondo dell’opera del primo Ottocento, quello dell’ironia, il quale permette di assimilare il messaggio musicale attraverso una visuale del tutto diversa, anche quando il tema è malinconico o, peggio, drammatico o tragico: si ascolti, per esempio, mediante questa visuale, immaginando al contempo il comportamento istrionico di Marchesi, Che fa il mio bene? Op. 2 n. 3 e Non è ver che l’ira insegni Op. 2 n. 4).
Lo spessore temporale non viene poi a mancare anche in certe pagine strumentali presenti in questa registrazione, a cominciare dal Duett for Two Violoncellos Op. 5 n. 1 di Cervetto, suddiviso in tre tempi, in cui si avvertono debiti riferimenti all’universo haydniano e la cui piacevolezza espressiva va oltre la semplice manifestazione effimera di un suono educato e spensierato (le perigliosità tecniche che sono disseminate nella partitura non rientrano nel canone dello sterile esercizio stilistico del virtuosismo fine a se stesso), dando così modo al dialogo dei due strumenti di avvalorarsi di un tessuto armonico e melodico che mette in luce un’insospettata profondità del linguaggio sonoro. E lo stesso vale, nella sua vaporosa leggerezza, per la Sonata for the pianoforte di Kateřina Veronika Anna Dusíková Cianchettini, anch’essa suddivisa in tre tempi, la cui cristallinità viene resa assai bene, un incantevole involucro dove l’inevitabile frivolezza viene istintivamente perdonata grazie alla briosità dei due tempi veloci opposti, in cui non mancano neppure delle velatissime patine melanconiche tali da richiamare alla mente le primissime sonate mozartiane, le quali avevano fatto ormai scuola e prese all’epoca come punto di riferimento (la particolarità dell’Andante centrale è data da una serie di variazioni sul celebre canto natalizio Adeste fideles).
Personalmente, considero davvero incantevole il brano finale di questa deliziosa soirée musicale, ossia il Minuetto with Variations di Anne-Marie Krumpholtz: mi piace pensare che la scelta di questa pagina sia stata fatta in quanto ascoltandola si può avere una raffigurazione perfetta dell’epoca a cavallo tra il tramonto del Barocco, con le sue certezze, la sua spazialità, le sue tentacolari ricerche di una Bellezza suprema in cui il richiamo mitologico e pagano fa a pugni con l’Assolutismo instillato dal potere protestante e cattolico europeo, e la nascita informe di qualcosa di completamente diverso, di una modernità che non sa ancora di esserlo, di un uomo che scopre improvvisamente la solitudine esistenziale data dalla futura spersonalizzazione. La bellezza di questo brano è fissata dal suono dell’arpa che progressivamente si trasforma in quello di un delicato e struggente carillon nel dipanarsi delle variazioni che annunciano la morte di un’epoca attraverso il tramonto stesso di un tempo musicale che lo ha magicamente incarnato, il Minuetto, il quale si tramuta in una danza spettrale, sempre più evanescente e malinconica nel momento stesso in cui scopre la propria inutilità inattuale.
L’immediatezza, il senso della pregnanza di questo progetto discografico viene fornito anche dalla scelta degli strumenti utilizzati, come fa giustamente notare Stefano Aresi nelle note di accompagnamento; tranne i due violoncelli, che sono copie moderne di strumenti della fine del XVII secolo, gli altri sono non solo originali, ma anche perfettamente funzionanti, a cominciare dalla splendida arpa costruita intorno al 1790 da Jean-Baptiste Holtzman e con i tre fortepiani, tutti appartenenti al Museum Geelvinck di Amsterdam, costruiti rispettivamente da Johann Christoph Zampe & Gabriel Buntebart (1769), da Matthaus Heilmann (1760-1790) e da André Stein (1803-1805), proprio per rendere il più fedele possibile il suono che doveva propagarsi dai salotti di quell’epoca. E il risultato che si ottiene è che alla fine di un ascolto immersivo di questo disco, viene istintivo spegnere i candelabri che hanno illuminato la sala. E continuare a sognare.
Certo, tutti gli interpreti hanno fatto a gara per dimostrare chi fosse il più bravo, tale è stata la loro capacità non solo esecutiva, ma soprattutto espressiva, nel sapersi idealmente calare in un possibile ésprit comunicativo, nel restituire l’incanto, la delizia, la lietezza, così come la facezia, l’ironia, la dimensione sociale (diciamolo chiaramente, una registrazione del genere dovrebbe essere ascoltata per chi vuole approfondire, per dirla con Max Weber, gli ambiti della sociologia della musica), il saper usare la musica come mezzo di veicolazione, di aggregazione, di intrattenimento. Se Francesca Cassinari riesce a trasmettere non solo la caratura delle Ariette con una proprietà d’intenti che non può non affascinare, modulando assai bene gli impervi saliscendi dei registri (e buon per lei che Marchesi non fosse presente, poiché si sarebbe ingelosito della sua bravura, rischiando quasi una rissa fisica, come accadde al soprano portoghese Luisa Todi nel 1790 a Venezia, proprio durante una disputa canora con il celebre castrato), sia Chiara Granata all’arpa, sia Andrea Friggi al fortepiano non sono stati da meno, così come Agnieszka Oszańca e Giulia Gillio Gianetta ai violoncelli. Un plauso finale deve andare, naturalmente, a Stefano Aresi, la cui caratura direttoriale non è inferiore a quella che ha dimostrato in chiave musicologica, donando, a chi vorrà farlo, la possibilità di rivivere a livello musicale una soirée che non potrà essere scordata tanto facilmente. Fascino allo stato puro.
A livello tecnico, la presa del suono (effettuata da Andrea Friggi, che dimostra altrettanta perizia come sound engineer, oltre che come fortepianista) vanta la consueta eccellenza che è un marchio di fabbrica dell’etichetta discografica spagnola. La dinamica non solo è esplosiva, ma anche ottimamente veloce nei transienti e squisitamente trasparente, tale da restituire ogni sfumatura della microdinamica (e questo soprattutto nella resa del suono dei fortepiani e dell’arpa). Anche il palcoscenico sonoro è pienamente convincente nella ricostruzione, a una discreta profondità e ampiezza tra i diffusori, degli strumenti e della voce, con quest’ultima leggermente avanzata, in modo corretto, rispetto all’arpa o al fortepiano. L’eccellenza prosegue con il parametro dell’equilibrio tonale, fondamentale per poter restituire la generale cristallinità del timbro, con i registri acuto e grave che non perdono mai una stilla di messa a fuoco e di scontorno ideale (è proprio ciò a comunicare il fascino sonoro espresso dagli strumenti utilizzati); infine, il dettaglio è sontuosamente materico, con la voce del soprano e con gli strumenti che, oltre a non provocare mai una fatica d’ascolto, possono anche essere toccati ad occhi chiusi.
Andrea Bedetti
AA.VV. – A Souvenir from London by Luigi Marchesi
Stile Galante – Stefano Aresi (direzione)
CD Glossa GCD 923531
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5