Abbiamo intervistato il compositore, pianista e direttore d’orchestra che recentemente ha condotto, con Corrado Augias e Speranza Scappucci, la trasmissione divulgativa La Gioia della Musica, ottenendo un notevole successo di pubblico. Attraverso le sue risposte, ha voluto anche spiegare il suo concetto di estetica musicale, votata a una primaria comunicazione sonora mediante un impiego raffinato del linguaggio tonale
Maestro Canonici, la pubblicazione del suo ultimo disco, Piano Preludes, pone delle questioni che vorrei affrontare con lei su un piano non solo strettamente musicale. Ma cominciamo da quest’ultimo. Il genere del Preludio pianistico, nella storia della musica, prendendo come punto di inizio Chopin e come punto finale Skrjabin, è andato sempre più a trasformarsi in un genere che rasenta lo Studio (vedasi i due libri dei Preludi debussyani). Nel suo caso specifico, invece, il risultato creativo annulla di fatto la marea montante di una complessità strutturale, per offrire al contrario una linea artistica votata all’estrema semplicità di ascolto, tesa a stimolare una totale introspezione. A questo punto, la domanda è scontata: la volontà di racchiudere questi sedici brani nel titolo Piano Preludes rappresenta un’inversione ad u nel processo evolutivo di questo genere pianistico oppure la volontà di andare oltre al genere stesso, dando così vita a una sorta di “metapreludi”?
Credo che i grandissimi compositori del passato da lei citati abbiano fatto scaturire la loro ispirazione innanzitutto dal “colore” della tonalità scelta. Se analizzo, eseguo o ascolto i Preludi e gli Studi di Chopin, ma anche i Preludi di Bach dal suo “Clavicembalo ben temperato”, mi sembra che il carattere sia dettato molto spesso appunto dal suono che lo strumento acquista a seconda se ci si trova in una tonalità piuttosto che in un’altra. Un brano “nasce” così già con un carattere più o meno estroverso a partire dall’ambito tonale scelto. Il Do maggiore ha quasi sempre ispirato una luce sgorgante, a differenza della morbida e calda luminosità del Mi maggiore; il do minore porta con sé un tono tragico, il la minore spesso un carattere cromatico o nostalgico; il Sol maggiore ha intrinseca una semplicità quasi naif, il Fa maggiore ha carattere pastorale e naturalistico, il Re bemolle è notturno, ecc. Quando scrivo un brano è dunque naturale e istintivo farmi inizialmente guidare dalla sonorità della tonalità che esploro. Il concetto di Preludio poi per me è letterale, un brano appunto che prelude, che fa aspettare qualcosa, che prepara un’atmosfera; un insieme di vibrazioni e rifrazioni sonore, quasi come i vetri di una cattedrale, i mosaici, che attraverso diversi colori accostati ti preparano e accolgono verso una dimensione intima, separata e lontana dal clangore del fuori. Da questo punto di vista non mi ha interessato dunque, in questo ambito e in questa forma, il colore ridondante della scrittura virtuosistica, l’abbondanza di note.
In barba ai discepoli e ai nipotini darmstadtiani, il ritorno a una forma di “neotonalismo”, nella musica contemporanea attuale, rappresenta un ineludibile dato di fatto. Un dato che va in decisa controtendenza rispetto a ciò che ha affermato il pensiero adorniano, ossia che la vera opera d’arte si manifesta come tale nel momento stesso in cui rimane indecifrabile, non decodificabile nella sua essenza estetica. I suoi Preludes, al contrario, sono pregni di una “semplicità finale”, almeno alle orecchie di un ascoltatore che non conosce il linguaggio musicale, che bandisce a valle qualsiasi problematica di ordine armonico. Ma a monte, invece, che cosa si cela in essi?
La storia della musica (e la storia delle arti figurative in generale) ha visto tra Ottocento e Novecento una sempre maggiore complessità di scrittura, complessità che alla fine è come esplosa, deflagrata, per poi implodere e arrivare quasi alla rarefazione, addirittura alle volte alla volontà di non comunicazione. L’opera d’arte non credo che possa manifestarsi nella incomunicabilità e indecifrabilità; è il simbolo piuttosto ad essere non spiegabile, non essendo mai totalmente decifrabile e traducibile: ma attrae, trasporta, proietta altrove, perché “parla” a noi senza mai finire di spiegarsi. La semplicità che lei ha colto nei miei Preludes è forse solo apparente, traspare nella scelta di base di mettere in campo pochi elementi. Questi miei brani, più che voler essere assertivi e voler dare risposte, tendono a porre domande (domande sonore, ovviamente), a lasciarle aperte, ad aprire percorsi senza necessariamente ricondurre al punto di partenza.
In linea generale, che cosa risponde a coloro che, dall’ambiente musicale, critici compresi, tuonano contro quel minimalismo pianistico che, almeno in sede nazionale, parte da Ludovico Einaudi e che arriva fino a Roberto Cacciapaglia (vogliamo inserirci anche il “contestato” Giovanni Allevi?) e nel quale lei trova posto? E poi, in termini squisitamente estetici, ritiene che questo genere musicale rientri di diritto nei canoni della cosiddetta “musica colta”, oppure è destinato a virare sempre più in un ambito prossimo all’easy listening? D’altronde, è innegabile che, sempre a livello di fruizione d’ascolto, quanto esposto dai suoi Piano Preludes offra un’indubbia fruibilità assimilativa, fin dal primo approccio. È possibile, al contrario, trovare la complessità di significato (per dirla con i musicologi “analisti”) sotto la forma di una semplicità espositiva?
Resto all’esempio citato da lei: Einaudi. È indubbio che la sua musica sia di grande semplicità armonica, con formule ripetute più e più volte. Ma posso dirle, per esperienza personale, che mi è capitato di ascoltare la stessa sua musica, suonata da altri esecutori, perdendo in questo caso gran parte del suo fascino, che evidentemente quando è il compositore stesso a suonarla, ha. Dunque, una semplicità che nasconde comunque un suo velato mistero, che io colgo e apprezzo, in diversi casi. Riguardo al genere musicale, cerco sempre di fare a meno di dare etichette; chi lavora in un negozio di CD ha spesso oggi molta difficoltà a mettere alcuni autori nel giusto reparto. Considero la musica per quello che in profondità è: vibrazioni, architetture foniche, accostamenti di suoni, ritmi e timbri. Con i suoni si può educare, invitare all’ascolto oppure anestetizzare; si può giocare, danzare, incitare, meditare, dialogare, pregare; Schopenhauer diceva che dietro alla grande musica si cela la più alta filosofia. Ogni compositore, oggi, sceglie dunque cosa raccontare attraverso i suoni, senza più porsi il problema di quale etichetta si debba applicare al suo linguaggio. I miei Piano Preludes hanno, come lei ha colto, una comunicativa semplice e forse immediata, una “cantabilità” dietro la quale è comunque nascosta una ricercata, se non complessità, diciamo raffinatezza. A livello armonico, in un gioco di alternanza tra consonanze e dissonanze, tensioni e distensioni; a livello fraseologico, dove le generate simmetrie vengono poi interrotte e disattese; a livello timbrico, per far risuonare il pianoforte nella più piena ricchezza dei suoi armonici.
Mi ha incuriosito il fatto che ogni brano di questo disco ha un titolo inglese. Mi chiedo se ormai le emozioni, gli aspetti interiori che possiamo individuare e scoprire debbano essere semanticamente resi attraverso una lingua straniera, sebbene ormai “internazionalizzata”, come quella anglosassone...
In questo caso devo dirle che oggi la scelta della lingua è dettata dal fatto che un CD si rivolge a un mercato aperto e internazionale, e in questo la lingua inglese permette a un brano di essere inquadrato da un ascoltatore, da un regista, da un fruitore ancora prima di essere ascoltato. È una tendenza, per così dire, suggerita dal mercato.
I processi d'ascolto che il minimalismo pianistico promuove, facilitano la proiezione di immagini. Da qui, un ovvio accostamento tra essa e l’arte cinematografica, un’arte che ha saputo attingere da questo genere musicale a piene mani (si pensi, in tal senso, solo alla collaborazione tra un musicista come Michael Nyman e cineasti quali Peter Greenaway e Jane Campion). E non è un caso, suppongo, che abbia voluto affidare i brani “visualizzanti” di Piano Preludes alla lettura di Gilda Buttà, ossia la pianista preferita di Ennio Morricone.
Sì, ha perfettamente colto le ragioni della mia scelta. La mia musica prende ispirazioni dalle sonorità evocative che le colonne sonore devono avere. Ho scritto molto, soprattutto per la televisione, e questo grazie al fatto che più volte registi hanno trovato nella mia musica una componente narrativa, generatrice di immagini. Gilda Buttà è sempre stata un mio punto di riferimento, e avevamo dunque già collaborato assieme in passato, in occasione di un CD edito da Rai Trade. Gilda ha la rara capacità di leggere un brano, inquadrarlo subito, e saperci aggiungere una profondità e delle potenzialità di fraseggio e di tocco che possono essere sfuggite anche al compositore stesso.
Musica e divulgazione. Dando per assodato che viviamo un’epoca votata all’informazione veloce e sintetica (e qui le nuove tecnologie ci mettono lo zampino), a scapito del mero concetto di conoscenza, di sapienza, che cosa ha potuto desumere dall’esperienza televisiva che l’ha vista protagonista con Corrado Augias, votata a un’operazione a dir poco titanica, ossia cercare di stimolare e trasmettere non tanto curiosità, quanto interesse, nei confronti della cosiddetta “musica classica”? Quali sono state le sue riflessioni a posteriori? E poi, se le fosse offerto di ripetere tale esperienza, la rifarebbe con le medesime modalità o cambierebbe qualcosa nel suo tipo di approccio divulgativo?
Innanzitutto, facendo televisione ho capito in profondità in che modo questo media comunica: con quali modalità e in quali tempistiche bisogna far passare un’idea, un’informazione; quale contenuto può “funzionare” e quale meno; quanta musica far ascoltare, e quale. Bisogna partire dal presupposto che La Gioia della Musica ha avuto come obiettivo quello di rivolgersi davvero a tutti, specialmente a chi non aveva mai avvicinato la cosiddetta musica “classica”. È stato necessario usare un linguaggio privo di terminologie specialistiche, ma ricco ed evocativo; e scegliere dei brani conosciuti ma comunque importanti, fondamentali nella storia del repertorio sinfonico e lirico. E poi capire come raccontare in pochi minuti una Sinfonia che magari dura tre quarti d’ora: arrivando a tutti, lasciando un concetto, una chiave di ascolto che duri, possa essere davvero esplicativa, possa sviluppare comprensione più profonda. Siamo stati ripagati da un pubblico fedele e appassionato, una media di un milione di telespettatori a serata che, considerato l’argomento e l’orario in sovrapposizione con i telegiornali nazionali, ha rappresentato un risultato davvero sorprendente. Tantissime persone hanno scritto di avere “scoperto” un mondo e un repertorio che non conoscevano, e tantissimi hanno scritto che avrebbero voluto che il programma fosse durato il doppio. La considerazione è dunque quella che, avendo proposto i contenuti nella maniera giusta e innovativa, quest’Arte e questo repertorio sono arrivati a raggiungere un pubblico molto più vasto di quanto si poteva immaginare. Ripetendo l’esperienza lascerei quasi intatta la formula trovata, rispettando questo meraviglioso equilibrio tra leggerezza nei modi e profondità di contenuti; aggiungerei solo una cosa, il racconto anche dei grandi autori del primo Novecento.
Da ultimo, la canonica domanda riguardante i suoi progetti discografici futuri. Per ciò che la riguarda, Maestro Canonici, sono ancora relegati nel cassetto o già in procinto di essere realizzati? E se così fosse, potrebbe anticiparci qualcosa?
Nei mesi scorsi ho registrato dei brani per quartetto d’archi, pianoforte, clarinetto e fisarmonica che usciranno in due diversi CD tra novembre e inizio anno nuovo per l’Editore FlipperMusic.
Andrea Bedetti