Vito Palumbo, tra tradizione e innovazione

 Disco del mese di Maggio 2023 

Ciò che il musicologo e direttore artistico Gianni Morelenbaum Gualberto afferma nelle note di accompagnamento del disco di cui sto per parlare, è il triste e sconfortante quadro che mostra la situazione della musica contemporanea nel nostro Paese: un quadro che, detto in termini medici, denota uno stato preoccupante, con piccoli e non rilevanti miglioramenti circostanziali, i quali però non sono in grado di apportare un beneficio generale. Quindi, tornando invece al quadro musicale attuale, al di là di poche isole più o meno felici e prosperose, nel mare magnum della ricerca sonora in Italia vige una situazione che è il risultato di un totale distacco tra il moduscompositivo e la possibile ricezione da parte di un pubblico quasi sempre incapace di coglierne la portata, in quanto spesso e volentieri, come ricorda ancora Morelenbaum Gualberto, il repertorio che viene offerto nelle sale concertistiche ed operistiche si spinge fino alle colonne d’Ercole del Novecento storico.

Le cause di questa situazione sono molteplici, a cominciare da un sistema incapace di fornire un’adeguata diffusione dell’insegnamento e della cultura della musica attuale, così come, è bene ricordarlo per par condicio, anche a causa di un certo atteggiamento “esoterico” ed autoreferenziale che la stessa classe dei compositori del nostro presente ha alimentato più o meno consapevolmente in nome di un elitarismo inconcludente, che ha di conseguenza contribuito ad allontanare e a scavare un solco sempre più profondo tra musicisti e ascoltatori/spettatori.

Non è questa la sede adatta per affrontare un problema così articolato e ormai radicato nell’attuale panorama della musica colta contemporanea nazionale, ma è bene ricordare, anche in virtù del disco del quale mi occupo ora, che per cercare di sfuggire a questa situazione di impasse diversi musicisti del nostro Paese hanno dovuto, come i ricercatori scientifici, i fisici, i matematici, i medici, emigrare per ottenere riconoscimenti e possibilità che in Italia sarebbero stati purtroppo impossibili da ambire. Oppure, come nel caso del compositore pugliese Vito Palumbo, concentrare la propria attività all’estero, appoggiandosi su prestigiose istituzioni e collaborando con importanti compagini orchestrali, con le quali dare vita e sostanza alle proprie capacità creative.

La cover del CD BIS dedicato a due composizioni del musicista pugliese Vito Palumbo.

Nato nel 1972 a Conversano, in provincia di Bari, Vito Palumbo ha iniziato la sua attività compositiva dapprima con esperimenti basati su postulati postmoderni, concentrandosi in seguito sull’esplorazione della voce umana in diversi aspetti del teatro musicale, che hanno dato vita a lavori come Butterfly, Cinque di Cuori, Il Catalogo, Sinforosa, La machine de sons, Comuni-Canti e Les Animaux, i quali rappresentano la testimonianza di un lavoro basato sull’emissione di fonemi e frutto delle indubbie influenze fornite dai suoi maestri Azio Corghi e Luciano Berio. La sua produzione negli ultimi anni si è incentrata invece su grandi opere sinfoniche per orchestra, così come sui concerti solistici (il doppio concerto per chitarra e marimba, Gocce per arpa e orchestra d’archi, Fragile per chitarra elettrica e orchestra d’archi e Dark Clouds per orchestra sono il risultato di una ricerca applicata non solo sui colori e sulle trame orchestrali, ma anche sull’idea di strutture musicali interdipendenti, come se fossero una rete di connessioni neurali). Infine, nei suoi lavori più recenti, il compositore pugliese si è concentrato sul concetto del timbro come colore, che lo ha portato a formulare una nuova idea, quella del suono-luce, indagata attraverso l’aiuto dell’elettronica miscelata con i suoni strumentali e con l’uso di tecniche estese alla scrittura orchestrale. Non da ultimo, essendo un appassionato di astronomia, Vito Palumbo ambisce a trovare un core-soundastratto, concentrato in un unico, ampio movimento, il quale rappresenta metaforicamente l’eterna energia cosmica di cui noi non siamo che un piccolo punto isolato.

Chiarito ciò, un esempio di questo modo di concepire e di costruire il suono lo possiamo ascoltare grazie a una recentissima registrazione pubblicata dall’etichetta discografica svedese BIS, la quale ha pubblicato il CD che porta il titolo di Woven Lights, contenente due lavori di Vito Palumbo, il Concerto per violino e orchestra, scritto nel 2015, e Chaconne per violino elettrico a cinque corde e electronics, composto nel biennio 2019-20 e suddiviso in due tempi che portano il titolo di Woven Lights e di The Glows in the Dark. Cominciamo ad analizzare proprio quest’ultima opera (che vede Francesco D’Orazio al violino elettrico e Francesco Abbrescia agli electronics), la quale, come fa d’altra parte presente il titolo, ha un chiaro riferimento con una forma musicale, come quella della ciaccona, che appartiene a un passato remoto e che si basa sul principio della variazione. In questo caso, il concetto di variazione ha un duplice significato: simbolico e sistematico; il primo viene manifestato dal compositore pugliese in nome di un continuo richiamo alla dimensione di un classicismo da adattare al principio dello sfruttamento dato dalle moderne possibilità offerte dall’elettronica, il secondo attraverso un sistematico lavoro di “incontro/scontro” tra materia originaria e modifica effettuata proprio dall’apporto dall’electronics, il che avviene nel corso dell’esposizione musicale grazie a un dialogo tra materia e processo di acquisizione che all’inizio è appena accennato e che progressivamente acquista densità (questo avviene con l’impiego del computer che rielabora la materia violinistica e la presenta sovrapposta a suoni campionati di vetro e metallo). Il risultato è un continuo sviluppo in cui il processo di partenogenesi si unisce a dimensioni timbriche in cui predomina un aspetto di coinvolgente “liquidità” del suono ottenuto; ciò avviene in quanto nel compositore pugliese è sempre presente l’idea di una “teatralizzazione” della materia musicale che viene sempre presentata, proiettata, fatta affiorare mediante un procedimento, riportato accuratamente sulla partitura, in cui gli interventi fatti dall’elettronica si intrecciano di volta in volta con la parte del violino elettrico, quest’ultima scritta con la notazione tradizionale (basta dare un’occhiata alla cover del disco per avere un’idea di come la partitura, pur non rientrando nel contesto di un pittogramma, assommi in sé il ruolo di un intreccio commediante, per via della complessa rappresentazione grafica fatta di forme, colori e linee, tale da evidenziare un moltiplicarsi di azioni, incluse quelle che non sono strettamente musicali, che vengono eseguite come una vera e propria messa in scena).

Il compositore Vito Palumbo, allievo, tra gli altri, di Azio Corghi e Luciano Berio.

L’idea di classicità, di forma stabilita dal passato, si compie anche nel passaggio della cadenza finale, virtuosisticamente definita dal violino elettrico, che fa da ponte di collegamento tra Woven Lights e The Glows in the Dark; in questo secondo tempo, lo strumento solista è costretto a rapportarsi con la propria fase entropica, ossia basandosi su un confronto nel quale il dialogo precedente con gli electronics non esiste più e il violino è costretto ad assumere un ruolo di Doppelgänger (ciò sonicamente avviene sotto forma di trenta parti sovrapposte, preregistrate dallo stesso solista con il medesimo strumento). Il principio entropico si basa su un vero e proprio contrappunto, fatto di gesti minimi che si fondono dapprima in un ronzio vibrante e fosforescente, per poi gonfiarsi e innalzarsi, dando vita a un muro timbrico all’interno del quale si sovrappongono ritmi e tempi diversi, in modo da creare un denso sottofondo poliritmico, polimetrico e soprattutto policromatico.

Qui, la dimensione tradizionale del suono, della sua costruzione e della sua esemplificazione nella fase di ascolto, dev’essere necessariamente decodificata, destrutturata, quasi fosse una sorta di “canone inverso” a livello ermeneutico, al punto che il suo approccio identificativo può essere utilizzato, da parte dell’ascoltatore, anche per affrontare al meglio l’assimilazione del Concerto per violino (per questo motivo, da parte mia, consiglio infatti di ascoltare prima la Chaconne e poi il Violin Concerto).

Il violinista Francesco D'Orazio D'Orazio (©Paola Arpone)

Anche in questo concerto, che si articola in un solo tempo, Vito Palumbo attinge dal passato, dalla tradizione (va da sé che, ascoltandolo, non ci si deve sentire colpevoli o sacrileghi se si possono notare delle affinità, soprattutto per ciò che riguarda lo strumento solista, con il celeberrimo concerto bergiano); una tradizione che si estrinseca nel tipo di rapporto, di dialogo che si viene ad instaurare con la massa orchestrale (qui Francesco D’Orazio, che usa il prezioso Comte de Cabriac di Giuseppe Guarneri del 1711, unitamente a un archetto di Nicolas Voirin, costruito a Parigi nel 1880, viene accompagnato dalla London Symphony Orchestra diretta da Lee Reynolds), ma che concettualmente non dev’essere assimilata alla stregua di uno sterile atto di mera sudditanza, di venerazione fine a se stessa, ma come elemento costitutivo, pregno di stimoli e di idee con i quali poter attualizzare istanze capaci di mantenersi autonome nel momento in cui trovano forma.

Francesco Abbrescia, uno dei maggiori specialisti nel campo degli electronics.

Così, la microscopica cellula melodica che dà inizio al concerto, anticipa in un certo senso la filosofia di costruzione, di aggregazione che il compositore pugliese userà in seguito, come abbiamo visto, per la sua Chaconne, anche se qui, in un rapporto maggiormente dialogico, la materia musicale nella sua indubbia fluidità strutturale, si presenta scaglionata in blocchi alternanti, fatti di masse sonore promosse dall’orchestra che lasciano poi spazio (e tempo) a un intimismo nel quale il violino enuclea matasse emotive, quasi declamanti, parlanti (mi chiedo quanto conti, anche in questo caso, lo studio capillare che Palumbo ha condotto nei confronti dei fonemi). Ciò permette l’instaurarsi di un lirismo violinistico che, a tratti, va perfino a lambire i territori squisitamente orchestrali, concedendo l’immagine di un dialogo che sfiora l’affettuosità che sorge in chi si sente sovrastato, in chi è costretto ad affrontare qualcosa o qualcuno che minaccia. Il tutto getta quasi una luce sinistra, dando vita a un sottofondo pessimistico, tenuto conto che questo concerto espone un’idea di ciclicità, di inizio che si conclude in un nulla che riporta, “sisificamente”, a un nuovo inizio destinato a perpetuarsi in un’allucinata circolarità, il cui letto di accoglienza è dato dai glissando dei violini orchestrali.

Chi sa apprezzare, amare e decodificare gli apparati significanti espressi dalla musica dei nostri giorni, troverà in questa registrazione più di un motivo per rallegrarsi e per comprendere come un linguaggio sonoro possa essere contrassegnato da una ricchezza di intenti dietro i quali si annidano raffinatezza, sagacia compositiva e lucidità nella scelta dei mezzi strumentali con i quali manifestarla. Certo, si deve capire la sottigliezza con la quale Vito Palumbo ha voluto registrare proprio queste due sue opere, catalizzatrici di un prima che è già dopo e di un dopo che è già prima, attraverso le quali si può giungere alla comprensione di una ricerca/linguaggio che instancabilmente è sempre in progress. Ma tale cammino speculativo/compositivo abbisogna poi, proprio per l’intrinseca ricchezza/complessità, di interpreti a dir poco all’altezza della situazione; e qui siamo cascati bene, poiché l’altro pugliese in questione, ossia Francesco D’Orazio, trasforma la sua lettura di queste due composizioni in un saggio di come si deve suonare sul filo della tradizione e di quella dell’innovazione, sia che si tratti di un favoloso Guarnieri, sia di un violino elettrico. Ragione e sentimento, così potrebbe essere intitolata la sua esecuzione double-face; ragione che si attua nella concretezza di un suono idiomatico, scontornato magnificamente nella fredda lucentezza della Chaconne, e sentimento nella desolata commozione che riesce a incastonare nella sinuosa fluidità del concerto violinistico (qui, il virtuosismo che è emanato dalla partitura viene vissuto, fissato con un occhio paternamente rivolto al passato, atto struggente, quasi metafisico, di quella tradizione che, magari, a volte, si tramuta in un omaggio al Welt von gestern… ). Non sono da meno Francesco Abbrescia alle prese con le alchimie elettroniche, né Lee Reynolds che trasforma la LSO in un’agguerrita armata timbrica, le cui varie sezioni sono capaci, allo stesso tempo, di emanare l’idea di un carro armato sonoro in movimento, così come di tessere prati fatti di nuvole evanescenti.

Disco del mese di maggio, senza nessuna ombra di dubbio.

Il direttore d'orchestra inglese Lee Reynolds.

Come da tradizione (ancora una volta) da parte della BIS, la presa del suono, effettuata da Lewis Jones, rasenta la sontuosità: la dinamica è un concentrato di energia e di velocità, in grado di restituire degnamente sia la naturalezza del Guarneri e della compagine londinese, così come le peculiarità del violino elettrico, con le sue molteplici sfumature. Anche il palcoscenico sonoro rispetta pienamente le prerogative proposte dalle due esecuzioni; se nel concerto violinistico l’ottima profondità di campo permette di cogliere e di ricostruire la figura del solista rispetto alla massa orchestrale, il cui suono viene esaltato anche in altezza e in ampiezza, nella Chaconne la multidimensionalità del suono promosso dal violino elettrico e dagli electronics si fonde tridimensionalmente in modo ottimale, permettendo all’ascoltatore di trovarsi fisicamente all’interno dell’esecuzione. Molto buono anche il parametro dell’equilibrio tonale, capace di vantare un rispetto ideale tra il registro del violino, nel concerto, e quelli orchestrali, senza denotare sbavature o improvvidi accavallamenti. Infine, il dettaglio è in grado di restituire una notevolissima tridimensionalità fisica degli strumenti, il che accresce indubbiamente il coinvolgimento nella fase d’ascolto.

Andrea Bedetti

Vito Palumbo – Woven Lights (Violin Concerto-Chaconne)

Francesco D’Orazio (violino & violino elettrico) - Francesco Abbrescia (electronics) - London Symphony Orchestra - Lee Reynolds

CD BIS BIS-2625

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5